Terza edizione 2005 • segnalato seconda categoria

Un po' di gloria

Daniele Sorgente

IL RACCONTO

Qualche sera riesco a vedere la luna. Se Lorenzo mi appoggia la testa leggermente di lato, in modo che la nuca sia parzialmente sollevata dal cuscino, mi pare di scorgere un'ombra chiara riflessa sul vetro. Sto così, immobile, esausto ed annoiato. Guardo quello squarcio di mondo prima di assopirmi e non riesco a muovere nemmeno un muscolo. Non sorrido. Forse mi si stampa una leggera smorfia sul viso, forse. Non lo so. Di notte non sento nessuno accanto a me. Avverto il mio respiro, costante e lontanissimo, come un'eco che non mi appartiene. L'aria che entra, si fa un giro, poi stanca esce dal naso e si disperde tutt'intorno. Adoro l'estate. Durante le ore diurne ti soffoca, ti prende alla gola e la fa ardere. Poi però la sera ti dona un vento leggerissimo, che entra dalla finestra e ritempra. È come un'onda. È eccitante pensare che quella brezza ha cavalcato acqua, terra e cemento prima di arrivarti addosso con quel tanto di forza che le è rimasta dentro. Ti senti parte di qualcosa. Se puzza di città, tanto meglio. Significa che la città è ancora lì, con i suoi autobus pronti a vomitare gente in giro per le strade e con le sue pro-mozioni al supermercato. La città. Abitavo in via Sordi. Una palazzina di quattro piani, gialla e sporca. Solo con il mio cane bianco con una macchia nera sul petto, l'orecchio tagliato. Mi leccava le mani, quando tornavo a casa. Ora è perso da qualche parte in questo fine agosto, o è morto. Un paio di volte mi pare l'abbiano portato nella stanza, i primi tempi. Non ne sono certo: spesso non riesco a distinguere il sogno da ciò che mi circonda realmente. Un pomeriggio di qualche mese fa ho il nitido ricordo di aver sfiorato il culo all'infermiera. Era morbido e caldo. Ma a logica non può esser vero. Avrebbero gridato al miracolo e mi avrebbero dimesso. Avrei potuto scrivere un saggio sull'infinita potenza dell'impulso sessuale e discuterne in qualche conferenza universitaria, sorseggiando con disinvoltura acqua frizzante. Invece sono ancora qui, da solo, con le mani immobili e fredde come sassi. Non posso nemmeno leggere. Dio onnipotente. Avrei tante di quelle cose da leggere. Lorenzo raramente entra dalla porta con un libro sotto braccio, e si siede qui, accanto al mio letto sfatto. Su questa sedia di acciaio che ora se ne sta sotto la finestra ad ammiccare. Sta lì un paio d'ore e mi legge ad alta voce qualche racconto, come se fossi un ebete. Roba commerciale. Viene qui tre volte a settimana, credo mi abbia preso in simpatia. È una brava persona. Fa il volontario da tre anni. Spesso siede e mi parla della sua vita, di cui ormai so praticamente tutto. Vorrei rispondergli: “Amico, dovresti fare così e così e così”. Invece nelle giornate particolarmente felici riesco al massimo a spostare questa testa fredda di qualche centimetro, con grande fatica. Ho l'impressione di muoverla quel tanto da poter scorgere un angolo di muro che prima non vedevo. È il mio obbiettivo giornaliero. A ognuno il suo, signori. Mi è capitato questo. Domani conto le venature del vetro della finestra, sempre se non mi voltano.

Facevo il facchino. Il signor Aiello mi aveva messo in prova per un mese, durante il quale aveva constatato che parlavo poco, lavoravo molto e non chiedevo mai di fare pause. In realtà ne facevo eccome. Tutto stava nella paziente attesa. Come nella giungla: vince chi ha una migliore pazienza, non quello che corre o morde più forte. Ad ogni modo, un pomeriggio me ne stavo lì a trasportare finocchi, cetrioli e patate grosse come zucche sotto un sole enorme ed impietoso, con un pianto di lacrime che mi scorreva giù per la maglietta e mi inzuppava i vestiti. Ogni tanto mi fermavo, estraevo il fazzoletto dalla tasca e mi tergevo il volto. Poi la stoffa divenne completamente madida e mi dovetti arrangiare con le braccia. Finalmente Aiello si mise il cappello, prese il suo pacchetto di Camel e se lo infilò in tasca. “Vado a casa”. Salvezza. Senza un controllo asfissiante potevo lavorare quel tanto da non farlo insospettire, caricare due tre cassette, riposarmi all'ombra del caseggiato, fumare, bere una birra fresca e guardare le gambe delle ragazze, poi riprendere. Il tempo trascorse. Fu una buona giornata. Non fosse stato per quella dannata partita non mi sarei affrettato tanto. Salii in macchina, premetti l'acceleratore oltre ogni limite: quelli consentiti dalla legge, dalla condizione della macchina e dalla mia. Affrontai la curva troppo velocemente. Vidi sfrecciarmi accanto un chiosco di giornali, con una serie di quotidiani lasciati al vento a dimenarsi come ballerine maldestre, e pochi istanti dopo sentii solo l'asfalto bollente, le urla di un uomo, il fruscio delle pagine accanto a me. Ed ora eccomi. Fermo come un vegetale, a pensare tutto il giorno al pioppo che mi fa ombra alla finestra, al libro che non posso leggere, a quando mi piscerò addosso ancora una volta. Dai, dai. Colpa mia. La vita non sarà sempre così. Questo mi consola enormemente. Morirò prima o poi, o magari un giorno dalla spina dorsale mi partirà una scheggia di nervi e sangue su su su su per il cervello, come una pugnalata. Uno shock naturale che mi farà risvegliare. Non ho sonno, non ancora. E poi quell'ombra sul vetro mi attira troppo. Non vale la pena di chiudere gli occhi e perderne l'immagine. La poesia mi potrebbe aiutare. Magari un aperitivo in spiaggia anche, o una splendida donna con la carnagione chiara ed i capelli castani innamorata di me. Ma non sono in condizione di avanzare richieste troppo pretenziose, questo lo capite. Datemi almeno una poesia.

La vita non è corta. La vita è davvero lunga. Lo so, questo lo so. Ogni secondo, io lo sento. Rimbomba come una cannonata nella mia testa. Non ho bisogno di alcun orologio. Li avverto questi attimi. Senti. Senti. SENTI. Il cuore che si contrae in uno spasmo naturale, che pare perpetuo, questo groviglio rosso e vivo, denso, cattivo e ruvido che si ritira di scatto, ed esplode in un movimento inaspettato, divino. Butta fuori quella linfa: tieni mano, tieni mente, tieni piede. La pelle che cambia, a seconda delle stagioni, muta il proprio odore, il proprio aspetto. Puzza. Sudore e peli, tu che cresci e ti scopri sempre diverso. Sei te stesso ma non sei mai lo stesso, ti piace e ti terrorizza come un bimbo questa idea del tempo che passa e che lo fa non certo nei parchi cittadini o per strada. No, lo fa attraverso te. Dentro di te. Ti stupra, ti prende e fa di te ciò che più gli piace. Questa è la vita, lunga, eternamente lunga. Assaggiata e mai assaporata.

Che destino bizzarro. La notte è quasi finita. Lo stampo della luna si vede a stento, il vetro se l'è assorbito come una goccia di latte. Il cuscino è diventato caldo, mi sembra. Sudo gocce salate dalla fronte. La sedia è ancora lì, strano destino anche per lei. So che vorresti dirmi qualcosa anche tu, ma non si può amica mia. Stai lì e tienimi compagnia con la tua presenza, io farò altrettanto. Tutto sommato siamo un po' come marito e moglie. Come marito e moglie. Sarebbe il caso di provare a riposare. Tra un paio d'ore potrebbe arrivare l'infermiera a torturarmi. Non so nemmeno cosa faccia. Vedo strumenti luccicanti e plastificati. Non voglio osservarla, potrebbe far di me ciò che vuole. Riposare un po'. Chiudo gli occhi ed è già un passo avanti. Sento un lievissimo fruscìo nelle orecchie. Chissà se è il vento o il sangue. Domani magari accadrà qualcosa. Se partisse una scheggia dalla spina dorsale sarebbe una buona giornata estiva. Se dovessi morire, dite all'infermiera di non prendersela per quella storia della manomorta. Tutto sommato sono innamorato di lei, ha un ottimo profumo e quando canticchia pare intonata.

Se invece mi dovessi ritrovare a contare le venature della vetrata, non sarà decisamente quel che amo definire un giovedì di gloria.