Terza edizione 2005 • secondo classificato prima categoria

Genesi di un equilibrio

Irene Schoefberger

Irene Schoefberger

Nata a Trento il 28.4.1986, risiede a Sant'Orsola Terme in provincia di Trento.
Iscritta al primo anno del corso di laurea in Civiltà dell'Europa Orientale e del Mediterraneo a Ravenna.
Le piace molto dipingere, leggere, camminare e cucinare dolci.

LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA

Con uno stile asciutto ed efficace, il racconto ricostruisce il percorso attraverso cui la protagonista, che è anche io narrante, ha vissuto il rapporto divenuto il fondamento della propria esistenza. Alle promesse e alle aspettative degli inizi ha fatto seguito la disillusione dell’età adulta. L’esito è quello di un precario equilibrio in cui trova spazio un pacato risentimento nei confronti della vita e dei suoi inganni, che la scrittura –in forma di autoanalisi- consente almeno in parte di comprendere e quindi di lenire.

IL RACCONTO

In bagno c’è una bacinella arancione colma di bucato da stendere. M’avvicino e con le dita a pinza sollevo la braca di un jeans, pesante d’acqua. Contemporaneamente noto che gli orli di plastica arancione si snitidano in pellicine trasparenti. Alla maglia di lana che ho scoperto sotto ai jeans succede più o meno lo stesso: andandosi ad annidare verso l’interno, verso il basso, l’acqua ha lasciato pelucchi quasi bianchi di trasparenza a difendere la superficie dell’indumento. Tutto questo mi dà un’impressione d’indifesa decadenza. Eppure chissà quante volte l’ho già visto.

Con una forbicina, taglio uno dei nodi a virgola che compongono la maglia. Non cambia nulla. Ma nelle settimane che verranno, lenta la lana riacquisterà libertà di movimento, il buco s’ingrandirà, Lara dovrà comprarsene una nuova. Ci teneva, a questa, l’aveva acquistata quando lei e Aldo erano stati in viaggio di nozze a Stoccolma. Pensare che io ho sempre confuso Stoccolma con Stoccarda.

Aldo si occupa di una qualche forma di statistica che proprio statistica non è. Indagini sociologiche, le chiama. Non che le percentuali che ha illustrato giovedì sera ai genitori della scuola del quartiere riguardo a quanti dei loro pargoli utilizzino internet a scopi didattici abbiano sortito particolare coinvolgimento emotivo. Ma si sa, lui ormai da tre anni queste inchieste le fa proprio solo per tirar su due soldi. Sta lavorando a qualcosa di grosso e Lara ha annunciato al tabaccaio che ormai suo marito si prepara a tirare le somme del suo impegno: dopo tante vacanze sacrificate per elaborare dati su dati, presto presenterà i frutti della ricerca che lo ha tenuto occupato per tutto questo tempo. Su cosa? Lo vedremo, lo vedremo.

Il loro computer non ha neanche la password. Il lavoro di Aldo è stato salvato direttamente sull’hard disk. Che imprudenza, con tutti i virus diffusi al giorno d’oggi... L’ha impaginato con cura: elenchi di cifre che danno come logica conseguenza altri elenchi. Taglia e incolla: la tecnica che adotto per cambiare l’ordine delle pagine.

Sono le cinque, ormai. La luce si è fatta dorata. Ora di andarmene. Torneranno presto. Che m’importa se mi trovano qui... è solo che non mi va di vederli. Un’ultima occhiata alla camera da letto... quanta cura! E fiori secchi: è chiaro, è lei che se ne occupa. Il contributo del marito all’arredamento si limita a delle pastiglie sul comodino, a due diplomi d’informatica incorniciati sulla parete. Diplomi in camera da letto; che squallido. D’informatica... e poi salva la sua ricerca sull’hard disk. C’è un libro, aperto sul pavimento. Strappo l’ultima pagina, l’affogherò nel water prima di uscire.

Ho confuso Stoccolma e Stoccarda a lungo, poi l’anno scorso ho visitato la seconda.

Mi ci ha portato Piero. Dico così, che Piero mi ci ha portato; i nostri conoscenti allora producono il sospiro di circostanza, pensano che caro marito, lei avrà espresso il desiderio e lui l’avrà assecondato. E’ andata proprio così. Ma io non ho mai desiderato veramente andare a Stoccarda. L’avevo detto per riempire una conversazione.

Quando ci siamo stati, poi, abbiamo camminato per qualche via, frugato qualche negozio. Abbiamo visitato un museo; c’erano dei vasi di vetro, una lampada enorme di plastica... modern design... io ho comprato una cartolina raffigurante una fanciulla nuda che si lava un piede. Poi non abbiamo più saputo cosa fare. Siamo andati a sederci su una panchina davanti al museo, abbiamo aspettato che le ore passassero. Piero intanto mi parlava di un recente viaggio del presidente del consiglio, di Hegel, della foresta amazzonica, di una volta che da piccolo ha chiesto a sua nonna di lasciargli la casa in eredità.

Non mi piace Stoccarda. Ma ora so che è in Germania.  

Ho conosciuto Piero un mattino che, più giovane di circa trent’anni rispetto a ora, stavo andando all’università. In ritardo, attraversavo a passo spedito un corridoio dalle pareti altissime, in cima alle quali una fila di finestre s’affacciava sul marciapiede che stava fuori. Camminavo e a un tratto vidi una mela, rossa, cadere dall’alto. E in alto, poi, su uno dei davanzali della fila di finestre Piero che mi chiedeva di rendergliela.

Passammo quella mattinata appollaiati alla sua finestra, che del mondo rendeva solo l’impressione abbozzata di migliaia di scarpe che passavano veloci oltre.

Gli anni seguenti, abbiamo inventato l’uno per l’altra una girandola di giornate che tenesse conto dei più belli fra gli elementi che conoscevamo o intuivamo.

Quando dico che Piero mi ci ha portato, uso completare la frase con a Stoccolma. Mio marito allora sorride, dice no guarda ti sbagli, spiega ai nostri conoscenti, ai nostri amici, che siamo stati a Stoccarda, nel Baden-Wuerttemberg. Che purtroppo la città non offre molto, ma tra noi ci siamo passati il tempo ottimamente. L’aveva detto anche a me, mentre alla stazione aspettavamo che il treno ripartisse. Piero  parla spesso con me. Sempre di argomenti che –lo so- con sé stesso ama definire nobili. Sorride spesso, non ride mai. Non con me.

Non sono stata a Stoccolma, ma una volta ci sono quasi arrivata. Lara quando gliel’ho raccontato ha commentato: che peccato.

Ero partita con qualche amico, dopo la fine del terzo anno di liceo; destinazione Stoccolma. Siamo arrivati fino a Uppsala, non lontano dalla capitale svedese. Era già sera e noi non sapevamo ancora dove pernottare. Decidemmo di raggiungere la nostra meta l’indomani. Trovati dei letti, scaricati i bagagli, camminavamo per le vie, strutturate secondo abitudini che non erano le nostre. Io avevo comprato una cartolina raffigurante una gnoma che si pettinava i capelli aggrovigliati e grigi.

Un uomo ubriaco ci si avvicinò, ci confidò che voleva andare a Uppsala, giacchè non c’era mai stato e voleva recarsi a porle omaggio; ci chiese di indicargli la strada. Pensai di indirizzarlo dietro l’angolo, sarebbe rimasto nella cittadina ma con la convinzione di aver raggiunto la propria meta. Non mi credette; disse che lo sapeva, che girato l’angolo il panorama non sarebbe cambiato molto. Così gli comunicammo che purtroppo Uppsala era stata incendiata. Non ne rimaneva che cenere.

Allora egli desistette. Ma si allontanò piangendo. Costernato.

Ci vergognammo di averlo addolorato tanto, ma comprendemmo anche quanta parte di dolcezza e meraviglia ci fosse nel suo lutto di uomo ubriaco per una città che non aveva fatto in tempo a vedere.

E poi invece non ci siamo più andati, a Stoccolma. La prima sera lasciò spazio alla decisione di rimanere ancora un giorno a Uppsala. Svilupammo una sorta di attaccamento ironico alla città. Una geografia di scherzi e fantasie personali. Non ricordo uno solo di tutti quei discorsi concitati, solo il mal di pancia, risultato di ore di risate. E così purtroppo ci scordammo di raggiungere Stoccolma. Capitò in seguito che mi rincrescesse.

Ripenso a quel viaggio ora che i miei amici mi ritengono una buona amica. Come Piero, mi parlano di argomenti che –lo so- amano considerare nobili. Mi giudicano affettuosa, rispettosa, fedele, chissà cos’altro. Sorridono spesso, non ridono mai.

L’intesa immediata, che ci sgusciava dalle dita spontaneamente, con gli anni ha lasciato posto alla certezza di potersi fidare l’uno dell’altro, alla sicurezza di poter rimanere in silenzio senza sentirci in imbarazzo. Ci siamo scoperti conformi a tutte le frasi dei cioccolatini, a tutti gli aforismi dei più grandi filosofi.

Un’ombra di comunicazione, discorsi che ora non mi va di rievocare, hanno sostituito le mie amicizie più brillanti. L’uomo che ha rese intensamente fluide le mie percezioni mi stima molto. E non mi chiede più nulla.

Lara e Aldo abitano sotto di me. Non ce l’ho con loro. Li conosco perchè condividono il mio spazio da ventiquattro anni. So di loro un’infinità di cose e non mi stanno neanche simpatici. Non che li trovi antipatici.

Non sono più giovane. Ma la mia bellezza ha lasciato posto a un’eleganza leggera. Dei miei vent’anni, conservo la capacità di affascinare un interlocutore, come dice mio marito, con la mia sagace particolarità. Ora che non invento più nulla e mi limito ad apporre su tutto il mio tocco sapiente, ho scoperto l’importanza della cultura che esplorai un tempo per curiosità.

Ad affliggermi non è insomma la perduta giovinezza. L’esperienza colma le lacune che il tempo ha scavato nel mio fascino.

Il problema è che se potessi tornare indietro non saprei cosa mutare. Come fare per attingere a un presente migliore. Disposto ogni elemento secondo la mia volontà, il risultato non mi soddisfa.

Dov’è l’uomo ubriaco che mi parve rassicurante? Perchè non scorsi la sua evidente decadenza?

Se sono scesa al piano di sotto, questo pomeriggio, se mi sono intrufolata nell’appartamento di Lara e Aldo, è stato per una questione di equilibrio. Pareggio di bilancio.

Ho ricevuto troppo male, sento urgente il bisogno di farne ad altri.

Sono stata il tipo di persona che non immagina il futuro perchè preferisce farsi sorprendere. Ma quand’è che arriva il regalo?