La terra sotto i piedi
Sara FrunerIL RACCONTO
Aveva bisogno di acqua. Non quella di laghi e fiumi. Quella la conosceva bene. Scura e muta, inospitale. Aveva bisogno della cantilena delle onde. Del moto infinito delle onde. Sedersi davanti a una landa celeste, quando il vento si nega; a un roveto blu irto di spine bianche, quando il vento si concede. Troppo tempo di pietre, di rocce. Le pareti della casa, la ghiaia nel cortile, i monti davanti, dietro, intorno. Persino il cielo, a volte, una lapide grigio latte.
«Ma con cosa te ne vai?»
«Ma non puoi mica montare in treno così, senza biglietto».
«Ma torni, neh?»
«Ma perché?»
Quando preparava la minestra. Quando lavava le verdure. Due carote, tre zucchine, una cipolla. Quando mescolava, mescolava, mescolava, gli occhi uscivano fuori dalla finestra. Oltre l'orto, oltre il cane legato al palo di ferro, il casotto per la legna, il pollaio. Solo gli occhi. La mente rimaneva immersa nella pentola, incastrata fra una patata e un gambo di sedano. Gli occhi non obbedivano alle leggi della cena. Si ribellavano. Costringevano la torsione del collo, il movimento della mano per scostare la tendina. Una fuga breve e insufficiente, ma pur sempre una fuga, accompagnata dal desiderio irrefrenabile di rinnegare quel mestolo, quel tavolo, quel muro. Poi sentiva un ciocco di faggio abbandonarsi al sorriso omicida della scure, o la tosse del vecchio trattore che scandiva il suo ritorno tisico nel capanno, e gli occhi dimenticavano sommosse e ammutinamenti. Lasciavano ipotesi di mondi e si precipitavano davanti alla stufa, spaventati dal reato che stavano commettendo. Lo sguardo turbato, sbigottito, accoglieva chiunque entrasse in cucina in quei momenti.
«Con la corriera».
«Ce l'ho già, il biglietto».
«Non lo so. Non so quando torno».
«Perché non va più bene così, papà. Sono stanca».
Il papà ha bisogno di me. Non posso lasciarlo. È ancora in forma, ma non regge più la stanchezza come due o tre anni fa. Si sdraia sul divano, la sera, e crolla in due minuti. Una volta rimaneva seduto dritto, sveglio, il giornale in mano. Adesso non ce la fa più. E lo vedo come si massaggia la schiena. Come posso lasciarlo adesso? A quarant'anni, nemmeno io sono più una ragazzina. Che mi credo? È tardi, è tardi. Devo solo trovarmi un passatempo, un diversivo. Più turni di volontariato giù al ricovero. Più partecipazione alle attività della canonica. Ignorare i discorsi insulsi delle altre, la meschinità di torte di mele e colletti ricamati; fingere d'inserirmi nel gruppo. Interessarmi alle loro famiglie, abbondare con lo stupore, con le domande sui figli, sui nipoti - che classe fa? Dove studia? Già nonna per la seconda volta? Sgranare gli occhi e sorridere, sorridere tanto, alle loro facce floride che sembrano dire, eccola qui, la figlia della stramba. Mi concentro, ci provo. Come ho fatto a pensare di andarmene? Di lasciarlo? A settant'anni, la vista più debole, il passo più lento, circospetto, quasi sapesse dei nuovi limiti imposti dalla vecchiaia. Se solo non ci fossero tutta questa natura, questi pini, questi tronchi. Troppi tronchi, troppo vicini a casa. E i monti. No, non dovrei dire così, io sono nata tra i monti, loro sono la mia casa. Mi abbracciano, sì, amo il loro abbraccio. Ma a volte la forza fredda delle loro braccia è insopportabile. Stringono, congelano. Un chiodo in una tenaglia di ghiaccio. Non posso dirglielo, non posso dirgli, Papà, mi sento come un chiodo in una tenaglia di ghiaccio. Non capirebbe. Non ha mai capito. La smania di fare il liceo, la speranza assurda di frequentare l'università. Non ha mai capito. Tutta la delusione che mi strozza in gola. Povero papà, come diceva la mamma, Povero papà, è di un'altra generazione. Il suo tono diceva, non mollare, non mollare come ho fatto io. Ma in seconda media cosa vuoi capire? Forse se avessi capito. Se avessi capito quel flacone arancio sul comodino, accanto a Baudelaire, prima di vederlo pieno e poi, dopo la scuola, vuoto. Vuol dire che non ho capito niente nemmeno io, che sono uguale al papà.
Il padre si alza ogni mattina alle cinque e quarantacinque. Ogni mattina. Da sessant'anni. A parte la domenica, alle otto, e i giorni in cui va a pesca, alle tre. Apollonia non si alza alle due e mezza per preparargli la colazione, questo il padre non lo pretende. Però gli altri giorni si alza alle cinque e venti, benché il padre non pretenda neppure questo. Lo fa per abitudine, senso del dovere. Lo fa perché lui lavora ancora sodo, dopo sessant'anni di lavoro sodo, e Apollonia pensa che fargli trovare il caffellatte e il pane abbrustolito nel forno - ben abbrustolito nel forno, come piace a lui - sia giusto. Giusto, e basta.
Si alza alle cinque e venti da quando la madre le ha infilato una mela in cartella, baciato l'incavo del collo, augurato buona scuola, fatto i letti, steso i panni, messo in ammollo i fagioli secchi per la zuppa del giorno dopo, e guardato per un'ora un flacone arancio sul comodino. Da quando, tornata da scuola, la camera dei genitori non sarebbe mai stata più la stessa.
Non le pesa alzarsi. Non ha più dodici anni. Le pesava alzarsi, allora. Lasciare il tepore dei sogni, l'oblio che solo un letto può concedere, affrontare i vestiti umidi, l'aria siderale della casa, il paesaggio sprofondato nell'afonia, fuori. Ciononostante, ha sempre adempiuto al proprio dovere, trovando nella legna croccante, nel fuocherello prigioniero della perfida stufa, negli anelli d'ebano disegnati in aria dall'aroma del caffè, degli alleati preziosi per la missione mattutina. Crescendo, ha soppiantato quei bocci favoleggianti con la siepe squadrata della routine.
Tuttavia, non ha mai soppiantato un'abitudine. L'estate, Apollonia prende la bicicletta, un asciugamano, e raggiunge una rientranza del lago dove andava a fare il bagno con la madre, prima della mela, del bacio, del buona scuola, dei letti, dei panni, dei fagioli e del flacone. Si spogliavano nude e si tuffavano nell'acqua nera.
«Non avere paura dell'acqua, Apollonia, vedi come ti abbraccia. Ti coccola».
«Non tocco, e non vedo il fondo».
«Non hai bisogno del fondo. Non sei stufa di avere sempre la terra sotto i piedi?».
Sono stanca di questo paese, di questa gente che non tollera il pensiero di tollerare chi non è di questo paese. Sono stanca di sentirmi sempre alla dogana, con una valigia di cartone e un permesso di soggiorno falso. Non c'è posto per chi viene da fuori, o per chi ha qualcosa di nuovo da dire. Gli sguardi amici, gli inviti gentili nascondono occhiate e parole di veleno. Rinchiusa qui, tra queste montagne, tra queste mura, sono una mamma e una moglie clandestina. Ho provato: la poesia. Ma la poesia non può nulla contro le regolamentazioni. Ho provato: la gravidanza. Ma l'emarginata ha generato un'emarginata. Io e Apollonia, due gocce d'acqua. Lo vedo nei suoi occhi, irrequieti, due lucertoline. Spero che almeno lei abbia la forza di spezzare il catenaccio e raggiungere il mare, il mondo. Di farsi liquida, di mescolarsi con la vita. E poi di sostituire gli anelli di ferro spezzati con una cortina di luce, per andare e venire, tornare e partire senza l'ansia della scelta, un pendolo che oscilla sereno. I muri intimoriscono, sai. La luce rassicura. È come l'acqua, ti avvolge, leggera. La battaglia per le negoziazioni mi ha sfinito. Il paese è trincerato dietro schiere di luoghi comuni. Ho provato a infiltrarmi. Ci vuole tempo, pazienza, tempo. L'unica soluzione per me è la ritirata.
Ha un vuoto da colmare, lui. Un vuoto, che duole come un'amputazione. Ha provato con il lavoro, il tipo di lavoro che spacca la schiena e massacra lo spirito, che serve da punizione e da espiazione. Ma rimane il vuoto. E la vergogna, che si vergogna di provare. E adesso arrivava Apollonia e gli diceva, Papà, me ne vado. A quarant'anni, non diciotto o venticinque. Adesso che lui aveva bisogno di lei, che stava invecchiando, lo sentiva. Gli veniva il fiatone se accelerava il passo, la schiena cominciava a far male, male sul serio. Di punto in bianco lei voleva andarsene, lasciare il suo paese, la sua gente, lui. Dicendo di essere stanca. Come diceva sempre la madre, sua moglie, sono stanca. Lui non poteva sopportare un'altra ritirata. Non aveva capito granché del biglietto che aveva trovato accanto al flacone. Quelle parole strane, sulla dogana, i muri, il mare. Ma l'ultima frase, sì, la ritirata. Era la sua, di lei, dal mondo, da quel mondo. Non poteva sopportare una ritirata per Apollonia, allora la lasciava andare. Forse era quello che avrebbe sempre dovuto fare la madre, sua moglie: andare. Quando pensa questo, il vuoto si riempie un po'.
Ha bisogno di acqua. L'acqua del mare. Fare la medusa, lasciar fluttuare gambe e braccia per non sentire la terra sotto i piedi. Il mare è un momento che ha posticipato per tutti quegli anni di roccia e rami. Una parentesi azzurra in cui sciogliersi e sciogliere i cristalli opachi della sua vita. L'appartamento che ha trovato è piccolissimo, nel bagno non c'è nemmeno la finestra. Il papà le manca. La montagna, non ancora. Troppi anni d'immobilità alle spalle. Adesso deve scoprire il piacere immenso del movimento. Poi, un giorno, tornare. Andare e tornare. Come un'onda. Come un pendolo.