Maja
Riccardo VillaRiccardo Villa
Nato a Trento il 15.9. 1986, risiede a Pian dei Pradi, frazione di Vattaro
in provincia di Trento.
Frequenta la 5^ classe presso l’Istituto Agrario di San Michele
all’Adige (specializzazione in viticoltura ed enologia). Ha una
passione smodata per la lettura, coltivata durante un’infanzia
esente da “tentazioni” televisive. L’ingombrante elettrodomestico
non ha mai trovato ospitalità in una casa ricca di libri e di
silenziose letture.
Nel marzo 2005 ha vinto il 1° premio del concorso “Il mio
lavoro nel mio futuro, come me lo immagino e come lo vorrei”, indetto
dalla Federazione dei Maestri del Lavoro d’Italia, Consolato Provinciale
di Trento.
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
“Maja” è una storia semplice e pulita, raccontata in modo elementare, ma con giovanile freschezza, da una voce narrante solo in qualche punto un po' troppo "sapientina". È la storia di un piccolo Ulisse che parla di sé, del suo cane, dei suoi amici adolescenti, della loro voglia di uscire, di sperimentare la notte, dei loro rapporti non facili con il mondo degli adulti. Caratterizza il racconto la tendenza a riassumere un'esperienza in un'immagine, spesso felice: come quella dei ragazzi-porcospini, che se troppo vicini si pungono, oppure quella dei ragazzi-delfini, che s'incontrano, si sfiorano, poi vanno ciascuno per un'altra strada.
IL RACCONTO
Corre. È contenta. È contenta di poco. Mi guarda. È felice anche se io non lo sono. La sua gioia mi interroga e, a volte, mi infastidisce. Le basta stare con me, non importa quante attenzioni le riservo o quale sia il mio umore.
È con me.
Quella felicità ottusa, mi scioglie. Allenta le mie tensioni. È uno strano antidoto. È come quando sei “giù” ed incontri qualcuno tenacemente “su”. Non ti ascolta, non chiede conto di quel muso lungo, agisce il suo buon umore, finché, o vai o stai. E cambi. Il sole non ha bisogno di intavolare lunghi discorsi con le nubi; c’è sempre, e, quando passano, illumina il mondo.
Eccola che disegna inseguimenti e lotte con avversari immaginari. Si avvicina, cerca una carezza, mi guarda negli occhi. Sorrido, le passo la mano sul capo. Riparte. Veloce. Felice. Dov’è la fonte di tanta gioia? Da dove la attinge? Quasi, la invidio.
Vado verso Firenze. Ho lasciato Venezia alle mie spalle, e scendo lungo la stradina che porta alle ultime abitazioni del mio paese. Da bambino avevo dato nomi di città famose ai luoghi in cui scorrazzavo. Mio fratello al traino; troppo piccolo per capire, ma grande a sufficienza per seguire. Un po’ più in là c’è Genova. Lì avevo fatto un capitombolo clamoroso, piegando la ruota anteriore della mia bicicletta.
Non sono vuoti questi luoghi, hanno una voce rassicurante ed un odore di buono. Però non mi bastano e non voglio riempirli di qualcos’altro. Mi piace tornarvi, ma non sono più il teatro delle mie esplorazioni.
La settimana è stata pesante. La scuola. La scuola ha un ritmo non nostro. Ti tocca entrarci, a scuola, ma è come indossare scarpe che non sono della tua misura. Ci si abitua, si impara a camminare comunque, e si cerca il passo giusto. Male ai piedi lo hanno anche gli altri, pure i professori. E, qualche volta, si va scalzi. A piedi nudi.
Un fischio. Si torna. Rientra nel recinto e si rimette a sperare.
Crepuscolo. Il bagnasciuga tra il giorno e la notte. È sabato. “Esci stasera?” – domanda mia madre. “Mi muovo con gli altri; cerco di tornare presto”.
La mamma. Se non fosse per la radice comune che ci lega, le sarei straniero. Viviamo mondi diversi. Troppo diversi. Io a guardare avanti ed intorno, lei a guardare indietro. Sotto lo stesso tetto, ma partecipi di territori così lontani.
Non so quando tutto è cominciato. Credo presto per me. Quando il “fuori” ha iniziato ad esercitare la sua fatale attrazione. Il canto delle sirene.
Si è rassegnata; in fondo tanta curiosità me l’ha trasmessa lei.
Varco la soglia di casa. Per gli adulti si esce, ma, in realtà, noi giovani entriamo. La notte è pronta ad accoglierci. La notte è un giorno senza luce. Può essere illuminata da incontri, avventure; dai fari di un’auto e dai lampeggianti di un’ambulanza.
Nel dopocena qualcosa di sopito, di latente, si mette in moto.
Il pifferaio magico suona la sua melodia.
Siamo una minoranza, noi giovani. Emarginati e un po’ coccolati, ci siamo ritagliati i nostri spazi. Le zone franche dalle ingerenze degli adulti, i signori del giorno.
Incontro gli amici. Lo sguardo di Schizzo è brillante, bambino e bandito.
Blob tira un po’ indietro. È uno che, a volte, gira con il freno a mano tirato. Però, questa sera aspetta solo che qualcuno gli armi la mano per abbassarlo.
In auto, insieme: “proviamo ad andare là”. Non sappiamo cosa o chi incontreremo. Forse facce note, forse nuovi contatti, forse il locale deserto, forse ci romperemo le scatole o forse le romperemo a qualcuno. Credo che sia proprio questo “forse” a spingerci. I signori del giorno hanno organizzato una vita in cui gli imprevisti sono banditi, nascosti, rimossi
o anestetizzati. Sono incidenti di un percorso che vorrebbero scandito e ritmato da regolarità rassicuranti. Hanno paura, gli adulti; hanno tanta paura.
Credo che sia il desiderio di vincere, non il timore di perdere, che muove la storia e le persone.
Ci analizzano. Parlano di noi in televisione. Fanno i comprensivi, i fluidi. C’è un che di voyeur in molte ricerche sui giovani. Mi viene in mente il birdwatching. I moderni youngwatchers parlano di noi e parlano per noi, dopo averci scrutati a debita distanza.
Loro fanno fatica a mettersi sotto la lente di ingrandimento.
Sono sul sedile posteriore e mi tengo compagnia con questi pensieri. Mi sento un po’ escluso. Davanti, euforia e musica.
Finalmente arriviamo. Ampio piazzale, denso di automobili. Scendiamo dall’auto. L’aria porta con sé una promessa d’estate che mi conforta. I grilli hanno cominciato a cantare. Anche per loro la notte è un giorno senza luce.
Il locale pulsa di suoni e presenze che ci sbattono addosso quando entriamo, scendendo le scale. Gente, tanta gente in poco spazio, con tanta musica. Facce note ed ignote. Ordiniamo da bere e ci mettiamo in pesca.
Scambio qualche battuta di sfuggita con alcuni ragazzi. Schizzo si sgancia e si fionda su una tipa conosciuta il sabato precedente a fine serata. Blob discute di moto e motori con gli amici del paese. Sono di nuovo solo, come in auto. Sorseggio la mia birra, mi giro e la vedo.
Non so se mi ha visto o se finge, come me, di non avermi notato. Sorride, scambia due parole con chi le sta vicino ed avanza, con flemmatica eleganza. I nostri sguardi si incrociano. Sono sguardi profondi, memori del bene e del male che ci siamo scambiati. Mi si fa incontro e parliamo. Il cerchio si chiude, sono di nuovo con lei e ciò che ci circonda non disturba questo nostro noi, pieno, ma fragile.
I porcospini, se stanno troppo vicini, si pungono. Siamo stati un po’ cosi, un po’ porcospini: desiderosi di stare vicini, ma incapaci di non ferirci, quando le distanze si riducevano. Quasi una condanna, interrotta da incontri profondi, rotondi, totali, fugaci.
Le parole non contano, scorrono. Gli occhi. Gli occhi portano con sé l’immagine di quello che poteva essere e il disincanto per ciò che non è stato. Per ripararci da noi stessi, cerchiamo di non crederci. È un commiato, non un incontro. Ci salutiamo. Ci siamo lambiti per poi prendere ciascuno un’altra direzione. Come due delfini nell’oceano.
La guardo immergersi tra la gente fino a perderla di vista. Mi immergo in me stesso, finisco la birra ed esco.
Grilli, umido. La ghiaia scricchiola. Provo ad ascoltare un po’ di silenzio e penso all’oceano ed ai delfini. Attendo una collisione, che arriva. Una lei, fresca e vivace, mi aggancia. Si scherza. Ci si esplora, giocando con le parole e gli sguardi. Come se, bendati, si dovesse dare un immagine ad una distanza ed a una forma, misurandola con il tatto. Emana una malizia pulita, trasparente. Si gioca per testare il “gioco” tra le parti.
Troppo gioco. I pezzi si disconnettono. Un sorriso, un saluto.
Continuo a pensare ai delfini. All’oceano dove si possono dare incontri che non si ripetono. Dove si può viaggiare nella stessa direzione, senza mai incontrarsi. Dove, anche se stai fermo, tutto si muove.
La terra si muove. L’oceano si muove con la terra. L’acqua dell’oceano si muove. Ci si può muovere nel movimento o ci si può illudere di stare fermi, essendo mossi dal movimento. Io voglio muovermi nel movimento, non voglio illudermi di stare fermo. Fare e disfare mappe. Correggerle, ampliarle. Sostituirle.
Le mappe non esistono. Sono “sovrapposizioni”. Servono, però, per non stare fermi, per cercare di andare oltre. Non è lo sballo che tanto intimorisce i signori del giorno, è il sapore del nuovo, è il gusto di non fermarsi ai confini immaginari di una mappa divenuta realtà.
Le ideologie sono questo per me: mappe immaginarie che gli uomini vogliono trasformate in realtà. Lo fanno per mettere confini dove non ci sono, per confinare la ricerca e la diversità.
Qualcuno mi chiama. No! La banda Bassotti al completo e completa-mente ubriaca. Sono in quattro ma fanno baccano per quindici. “Si, va bene. La bevo una birra con voi”. Onoro la rumorosa brigata sorseggiando la birra offertami con tanta insistenza. E, poi, pago il conto, concedendomi come ascoltatore al racconto delle loro imprese recenti. Avevano bisogno di un pubblico e l’hanno trovato. Le combinano perché gli piace combinarle o perché gli piace raccontarle? Il dubbio rimane mentre assisto alla rappresentazione tragicomica di un’uscita di strada a bordo di un’Ape. Fornisco ampie assicurazioni che l’indomani andrò sul posto per appurare la presenza dei segni sull’asfalto e dei danni alla staccionata. Il tutto non perché metta in dubbio la loro credibilità, ma per poter certificare agli scettici la veridicità delle loro affermazioni. Ecco, per una birra mi hanno ingaggiato anche come testimone indiretto dell’accaduto.
Una chiamata sul cellulare. Schizzo mi chiede dove sono, ne approfitto per svincolarmi cordialmente dalla presa del quartetto che si dispone a cercare un altro lido dove ripetere la performance.
Li conosco da qualche anno e da qualche anno sono sempre gli stessi. Drammaticamente gli stessi. La parte la recitano molto bene, ma sembrano attori imprigionati in un testo che ha assicurato loro successi e dal quale non riescono a staccarsi per interpretare ruoli diversi.
Divertire e diverso hanno una comune matrice. Vengono dal latino divertere che significa volgere in opposta direzione, volgere altrove. Ho desiderio di altrove e credo che ci sia un altrove in ogni luogo ed in ogni momento.
Basta pensare. Rientro. Mi immergo nel caldo abbraccio della musica e degli amici. Mi lascio trasportare dalla corrente. È calda ed accogliente.
Si riparte. Alla ricerca di un chi ed un che cosa che non troveremo. Cercare insieme, muoversi insieme è, comunque, bello in sé stesso. Il pescatore non ha bisogno di una preda assicurata ad ogni uscita, ama “il pescare”.
Infine, sono le due, si rientra in base. Alla prossima.
La mia piccola Itaca mi accoglie con lo sbuffo smorzato della sua sentinella. Mi ha riconosciuto nel mentre emetteva un abbaio di allarme, che ha cercato di contenere quando già era partito. Come una freccia scoccata senza forza, né direzione, da un arciere che si avvede troppo tardi di aver sbagliato bersaglio. Non importa se è notte fonda; scodinzola. Vorrebbe muoversi. Ce ne sarà per domani. Lo intuisce e, mogia mogia, rientra nella cuccia.
Guadagno il letto ed il sonno mi coglie, repentino e profondo.
Luce. Troppa luce da quella finestra. Chi ha acceso il sole? Scarpe, vestiti e torno a vagare con lei. Corre, felice.
Lentamente, riprendo il mio corpo e mi immergo nel ritmo del giorno.