Della fine delle cose
Chiara De BastianiChiara De Bastiani
Nata a Feltre (BL) nel 1978, si è laureata in Traduzione (tedesco e inglese) presso l'Università degli Studi di Trieste. Attualmente lavora come traduttrice freelance, occupandosi anche di traduzione letteraria. In ottobre 2005 è stato pubblicato il romanzo “Haymarket, Chicago” di M. Duberman da lei tradotto dall'inglese per le edizioni Spartaco.
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
“Della fine delle cose” è un racconto molto ben scritto e di raffinata costruzione. Vi si intrecciano due storie di donne: quella della narratrice, alle prese con il ferro da stiro e con un libro da tradurre, ma anche con il ricordo di un amore lontano; e quella di Gisela, la protagonista della vicenda narrata nel libro, una donna anziana che esce di casa per comprare una cornice in cui mettere le foto di chi ha perduto, il marito, la figlia, il cane. Verso la fine del racconto le due storie (le due donne?) si sovrappongono, come in una sovrimpressione, e il colore finale è il rosso mattone del vestito spinato (lo stesso?) che Gisela indossa nel libro e che la traduttrice sta stirando. Chi ha scritto “Della fine delle cose” è qualcuno che sa bene che cos'è la vita e che cos'è la letteratura, che cosa le unisce e che cosa le divide.
IL RACCONTO
Due cose non sopporto, stirare e dire addio.
Passo il ferro una due tre volte sulla piega, brutta piega, tra l'ultima asola e il colletto, era una bella camicia, e si vede che era una bella camicia, mi dico, peccato per i gomiti lisi e il bottone. Perso, il bottone l'ho perso, tic avevo sentito, poi il fischio di un treno. Nove e quaranta, ero in perfetto orario. Avevo arrotolato la manica, entrambe le maniche, per non fargli vedere che ero senza il bottone, il polsino era senza il bottone, l'asola vuota, un buco nell'acqua. Mi ero diretta a Kreuzberg, ero scesa alla Görlitzer Bahnhof, avevo imboccato l'Oranienstrasse, la ricordavo più larga l'Oranienstrasse.
Ripasso il ferro sulle cuciture dei fianchi, larghi, smagliati. Poi la giro a pancia in giù la camicia, sembra un pupazzo che dorme penzoloni sull’asse da stiro. Spiego le maniche, una croce o un aereo? Aquilone.
Gisela non riusciva a dormire, da allora, diceva, non aveva mai più dormito. Un occhio lo aveva anche chiuso, ma chiudere un occhio non basta. Di notte si alzava, scalza bighellonava per casa a cercare il rumore, il punto da cui proveniva il rumore. Il cane, era certa, erano passi di un cane sul parquet, li aveva sentiti. Si fermava a origliare dietro le porte chiuse, poi tastoni tornava in soggiorno, in soggiorno dormiva, tornava davanti al comò, il suo altare, e spostava le foto, ogni sera spostava le foto. Oscar al posto di Karin, Karin al posto di Oscar, la casa, il cane, Charlotte a destra delle fragole, le fragole vicino a Gesù.
Piego la camicia cercando di distendere col palmo della mano una grinza all'altezza della spalla. La spalla, mi ricordo la sua mano sulla mia spalla. Avevo percorso quel tratto della Oranienstrasse che porta ad Heinrichplatz, mi ero seduta sull'unica panchina libera, sotto il tiglio. Mezzogiorno, il borbottìo dello stomaco e il rumore della porta a vetri del Bateau Ivre davanti. Entravano e uscivano. Coppie di turisti, punk coi capelli verdi e gli occhi rossi, cani e artisti maledetti.
Avevo fame. Dietro ai vetri si intravedevano i tavolini e le pareti coi versi di Rimbaud. Sopra il bancone c’era una foto di onde gonfie di temporale.
Era arrivato quando meno me lo aspettavo lui; avrà riconosciuto i capelli o la linea della mia schiena, mi ha messo una mano sulla spalla e non ha parlato. Io neppure. Siamo entrati nel locale a mangiare qualcosa. La gente scucchiaiava, noi due muti. Plus sourd que les cerveaux d’enfants. Il resto del verso era nascosto dietro il cappotto di un cliente appena entrato.
Quella mattina Gisela indossò il vestito di spinato color mattone, prese un rossetto e cominciò a passarselo sulle labbra, due righe dritte, senza seguire il contorno della bocca. Avvicinò la manica della giacca al viso e il viso allo specchio. Mattone–mattone. La tonalità era identica. Tornò in salotto. Prese dal cassetto del comò due foto, le infilò nella borsetta bianca, si girò come per controllare che non ci fosse nessuno, e uscì di casa. Il negozio, pensò, aprirà tra mezz'ora, giusto il tempo per fare due passi lungo il fiume e, se le gambe acconsentono, fino al ponte prendendo per il viale dei tigli.
Riempio di acqua il ferro da stiro. Alcune gocce finiscono sulla piastra incandescente. Sfrigolìo. Ecco, sfrigolìo. Mi illumino. Era a pagina cinquantadue, quando lei esce di casa dopo una notte insonne, l’ennesima, attraversa la strada e imbocca il viale. Sono i primi giorni di ottobre. L'asfalto è una coperta di foglie secche. Lei cammina e sotto i piedi la frittura di foglie, ci avevo pensato tanto, to fizz, cosa poteva essere. Friggere, crepitare, scricchiolare no... Sfrigolare mi convince. Devo ricordarmi di correggere, finisco di stirare e correggo, mi dico, oppure stiro e correggo insieme tanto ho scoperto che si può fare. Tradurre col ferro da stiro in mano. Non ho tempo da perdere, mancano due settimane alla consegna. Quindi lei esce, e sotto i piedi è uno sfrigolìo di foglie secche.
Amava camminare Gisela. I due interventi al ginocchio non l'avevano fermata. La placca al femore e l’età avevano rallentato i suoi movimenti, senza riuscire a inibire la volontà. Grande forza di volontà. Arrivò al negozio di cornici assieme al proprietario, un uomo sulla sessantina, due occhi vispi contornati dai solchi di rughe profonde. Le aprì la porta invitandola a entrare per prima. Gisela avanzò tra le cornici vuote, un’ ombra rossa tra gli scheletri di legno in processione lungo le pareti. Si parò davanti al bancone. Cercò con lo sguardo uno spazio tra i quadri accatastati sul tavolo.
«Posso esserle d’aiuto?», chiese il negoziante costringendola ad alzare gli occhi. Gisela infilò una mano nella borsa e appoggiò sul tavolo le due foto che aveva con sé.
«Ecco, guardavo... Cercavo una cornice per metterci queste, insieme, pensavo, questa a destra e il cane a sinistra, qui pensavo, saranno venticinque centimetri, in lunghezza, si capisce, se mettiamo il cane così, un po' sovrapposto ma poco».
Il proprietario aveva annuito con l'aria di chi afferra i desideri altrui prima ancora che siano suoni articolati.
«Aspetti, vado e torno», le aveva detto.
Prendo dalla cesta del bucato lo scialle. Sa di fiori. Lo avevo indossato quel pomeriggio appena usciti dal Bateau Ivre perchè si era alzato il vento, e qualche foglia. Sottile com'è non so mai come stirarlo, sarà la quarta volta che leggo l'etichetta senza capirci nulla. Simboli, mi dico.
Lui mi aveva preso il viso tra le mani. Mi aveva spostato il capo a destra e poi a sinistra, studiandomi. «Voglio ricordarmi bene come sei, tenerti a mente», mi aveva detto con un filo di voce. Avevamo camminato fino al parco, era l’ora delle ombre lunghe, quella che io adoravo. Lui si era seduto sulla panchina di fronte alla mia. Aveva parlato lentamente. Sembrava logico, nei suoi pensieri sembrava tutto logico. Io mi sforzavo di tenere fermi i miei e, quando ci riuscivo, per uno o due secondi tamburellavo con le dita sulle gambe.
«Non ci rivedremo più», aveva detto, «e se capiterà dovrai volerlo tu questa volta, dovrai crederci. Non accetto una vita a metà». Aveva gli occhi fissi su di me, e lucidi. Io mi ero srotolata le maniche della camicia perchè cominciavo a sentire freddo. Una lama di vento si era infilata attraverso il polsino aperto, il destro.
«Non hai idea di quanto fatichi a dirti queste cose, non lo sai. Ho sognato come potrebbe essere. Assieme. Ho ripensato. La neve. Era la prima volta, noi due... Il castello. Ricordi? E l’acqua, il mare, che ridevi e avevi le lacrime da quanto ridevi. Se non ci incontreremo più, mi prometti che scriverai, che oltre a tradurre scriverai? Me lo prometti?!?».
Avevo deglutito io, il pranzo, il battello ebbro, il dolore. Non ero riuscita a dire una sola parola. Avevo negli occhi un naufragio.
«Se invece non tornerai più, vorrei...», ma le ultime parole erano rimaste nell'aria, the flaky gray specks, sono le monachine grigie, had started to settle on her hair, avevano iniziato a posarsi sui capelli di lei.
Tornò dal retrobottega con una cornice dorata in mano. La posò sul tavolo appoggiandoci sopra le due foto, accostate. La giovane donna a destra e il cane a sinistra. Un bel cane.
Gisela piegò la testa di lato per osservare meglio l’effetto.
«L’ho ucciso, sa, era vecchio, una puntura per farlo addormentare. Io non riesco più a prendere sonno da allora. L’ho fatto bruciare poi, bruciare, e le ceneri le ho buttate nel bosco, via, assieme a mia figlia. Anche mia figlia è nel bosco. Era il suo desiderio. Che le sue ceneri finissero là. Così sono insieme adesso, di nuovo insieme. Io vado a trovarli ogni giorno, ma non porto fiori. Oscar è nel lago, invece, mio marito, nel lago».
Aveva parlato come se la sua voce non le appartenesse. Gli occhi vuoti di chi ha salutato troppe volte.
Pagò e uscì dal negozio, la borsa bianca a tracolla e in mano il sacchetto con la cornice. Stava scendendo il sole. Gisela si diresse verso il bosco.
Lui era in piedi ora, di spalle. Mancava poco al tramonto. Avevo preso il libro dalla borsa io. L’avevo appoggiato sulle gambe e a pagina settantacinque, in alto, avevo scritto: Berlino, ottobre. Quando tornerò a casa, avevo pensato, chiamerò l’editore per fargli sapere a che punto sono con il lavoro.
La luce obliqua del sole sbiadiva le parole stampate. Sunsets were the worst time, i tramonti erano i momenti peggiori; all her life they’d made her melancholy, l’avrebbero immalinconita per tutta la vita, conjuring up the streaked-red end of things. Letteralmente, evocando la screziatura rossa della fine delle cose. Della-fine-delle-cose non mi piace, si potrebbe dire la screziatura rossa della fine e basta, ma fine di che? E se fosse la venatura scarlatta delle cose ultime, degli addii?
Ancora questo, e poi mi rimetto a lavorare. Ci vorranno ancora ore e ore per completare la revisione.
Per fortuna è facile. Il tessuto spinato è remissivo sotto il ferro. È l’unico capo che stiro volentieri questo. E anche l’ultimo per oggi. Lo alzo controluce. Ha ancora un colore incantevole. Non ho mai avuto altri vestiti rosso mattone.