Agorafobia
Stefania PovoloIL RACCONTO
Venne ad aprirmi la porta ancora in pigiama, benché il sole stesse già tramontando. L’aria scarmigliata e uno sguardo tra il sorpreso e l’irritato sul viso, pallido e magro come me l’ero ricordato.
-E tu? Che cavolo ci fai qui?
Mi apostrofò, ma si scostò dalla porta, con un fruscio delle pantofole di spugna rosa. Il suo aspetto di solito così aggressivo, sempre vestita di scuro, ora si scontrava contro quella camicia da notte d’un rosa confetto, e quelle pantofole... Solo i capelli, lunghi e dritti, d’un nero slavato, con le punte chiare, erano gli stessi. Com’era diversa dalla prima volta che l’avevo conosciuta, quando l’avevo scambiata per una cantante punk...
Mi fece strada nella casa in ordine perfetto, pulita e accogliente come quella d’un anziana signora, nell’aria un vago profumo di zucchero e vaniglia, come di dolce appena sfornato.
-Allora? Mi vuoi dire cosa cavolo vuoi?
Sobbalzai alla sua voce bassa e quasi ringhiante, e balbettai, sentendomi terribilmente fuori posto.
-Volevo… vedere come stavi… ieri sera non c’eri, e… tutti ti pensavano malata. Ecco.
-E chi è quel deficiente che mi crede malata? Sto benissimo, Non vedi? Ieri sera avevo di meglio da fare che sopportare quel branco di…
Quanto rancore in quella voce. Mi fece accomodare sul divano comodo color crema, e lei si sedette sulla poltrona oltre il tavolinetto di legno chiaro. Quelle parole acerbe e il ricordo che avevo di lei, sempre così sprezzante e fredda, stridevano con la morbida poltrona, con il centrino raffinato e le tende lunghe e candide dietro di lei. Finsi un sorriso, e nascosi in una voce allegra il mio sgomento.
-Perché non sei venuta? Ti sei sempre trovata discretamente… Chiara e Marzia alle volte sono un po’ troppo presuntuose, ma sai che non lo fanno per cattiveria… E poi basta ignorarle. Pure loro mi hanno chiesto ti te.
-Ti ho detto che non avevo voglia!
Quasi mi ringhiò alzandosi, lasciando il soggiorno come non esistessi.
I suoi passi riecheggiarono sul parquet, alcune porte sbatterono.
Non ero mai andato in casa sua prima d’allora, così mi sorpresi a guardarmi attorno, la bocca leggermente aperta per la sorpresa. Più guardavo quella casa, e più mi convincevo che non poteva essere sua. Poco lontano dalla poltrona un televisore, con un vaso di fiori e un centrino sopra. Il modello era recente, e la cornice non era di finto legno come l’avrebbe avuta mia nonna, ma ci sarebbe stata di certo splendidamente, come un vecchio grammofono al posto di quell’impianto stereo tecnologico. Lì mi sentivo a mio agio, come se la casa con il suo profumo di dolce pulito e quella carta da parati color perla cercassero di scusarsi al posto della loro proprietaria, con una civetteria d’altri tempi, forse un po’ troppo pretenziosa.
-… Non muoverti e non toccare niente. Un attimo e arrivo, dai.
La voce lontana si era un attimo raddolcita, ma forse era l’aria attraverso cui era filtrata a renderla tale. E in meno di un attimo tornò. Ora che si era rivestita, e indossava come al solito delle brache di pelle nera e una maglietta larga e strappata, non mi sembrava più tanto diversa. Era tornata come la ricordavo, eppure c’era ancora qualcosa che non andava… era diversa. Poi mi fissò, per un lungo istante, puntando gli occhi infossati e severi, quasi cattivi verso di me.
-Cosa vuoi che me ne importi di quelle galline… E poi so che qualsiasi cosa ti dicano… io so. Non mi possono vedere, e nascondono il loro ribrezzo sotto sorrisini falsi. Ipocrite.
Scosse la testa con veemenza, come soddisfatta di quelle cattiverie motivate e gratuite. Ma gli occhi erano bassi, come quelli di un baro scadente che non vuole farsi scoprire. Rimasi a fissarla, anche quando smise di fingersi così rabbiosa e crudele e si lasciò cadere stancamente nella poltrona, come un’attrice stanca di recitare.
La pendola suonò in cucina, un rimbombo amplificato dal silenzio e dalla casa vuota, come un gong.
-Ti piace?
Ora mi sembrava una bambina con il viso sporco, le ciocche di capelli che le incorniciavano il viso pallido. Mi confuse quella frase sussurrata, con un accenno di sorriso timido e indifeso, così strano e inusuale per lei.
-Cosa?
-Ma la casa! L’ho arredata io. O meglio, ci ho sempre vissuto, e è cresciuta con me. Ormai siamo l’una il riflesso dell’altra.
Ora un rossore d’imbarazzo, mentre io mi sforzavo di capire. Corrugai le sopracciglia per un attimo forse, non so, ma lei se ne accorse. E tornò a sibilare quasi con derisione
- Ti sembro matta vero? Non mi somiglia? Tutt’altro. Forse sono io che non somiglio a me stessa. Sempre così volgare e aggressiva… Forse non sono me stessa, o forse fingo...
Parlava da sola, la testa china e i capelli che le sfioravano le ginocchia ossute. Le mani erano strette in grembo, strette ai polsi da braccia-li di cuoio e borchie, le dita laccate di nero che si stringevano in modo quasi convulso. Ma continuava, a voce bassa e morbida
-Io sono solo qui. Se lascio questo posto, se varco la porta di casa… Io mi perdo capisci? Il confine tra me e gli altri è la porta che hai varcato. Una volta, mentre ero per strada… mi sono sentita scomparire. Tutta la gente, tutte quelle maschere di gioia, ma marce dentro… Mi sentivo morire, capisci? L’aria non la respiravo più, mi sentivo percorsa da caldo e freddo… Credimi, mi son sentita da cani…
Le sue guance avevan acquistato un po’ di colore, il suo respiro era affannoso e gli occhi lucidi. Un attimo di silenzio, poi sorrise, d’un sorriso amaro.
-No, non capisci. Lo so anch’io di esser matta o malata, non serve che mi guardi così. Fatto sta che da quel giorno, quando il cuore mi si strizzò fino a farmi svenire, li, tra tutta quella gente che mi credeva matta, come te… Ho capito di aver sbagliato.
Ho sempre cercato di andare contro corrente, di dipingermi i capelli, di farmi tatuaggi, ma anche questo mio fuggire mi rendeva ancor più uguale agli altri: falsa. Anzi agli occhi di molti, anche peggio. Ho capito che trasgredivo per sentirmi uguale agli altri. E ora che mi parte il cervello… Cosa diranno? Questa è la massima trasgressione eppure… Per gli altri sono solo diventata scema…
Iniziò a ridere, in modo quasi isterico.
Mi alzai, scuotendo la testa. Aveva sempre avuto questi momenti di indecisione, di odio verso tutto e tutti, ma questa volta… Le presi le mani e mi inginocchiai davanti a lei, come si fa con un bimbo. Appena la toccai le lacrime scivolarono dagli occhi grigio scuro, e tracciarono due righe nere di trucco slavato in mezzo alle guance, come quelle che a volte si dipingono i pagliacci. Sorrisi mio malgrado a vederla così conciata, simile a una creatura da circo.
-Ti sei sentita male. E allora? sei andata all’ospedale? Forse eri solo stanca…. Son convinto che non è nulla… Scosse la testa con rabbia, sottraendo una delle mani per stropicciarsi
gli occhi, che divennero ancor più una macchia nera. Mugugnò
-È questo il punto. L’hanno chiamata “crisi di… di panico”. Una pazza insomma. …Pazzi saranno loro. Io so cosa ho provato, e non voglio provarlo mai più, ma la mia non è pazzia.
E poi giù altre lacrime, mentre io la stringevo a me, macchiandomi la camicia firmata appena comprata. Non mi ero mai accorto di quanto fosse magra, solo ossa da uccellino, tremanti e fragili.
-Certo che non sei pazza… vedrai che non è niente… Ti passerà. Sei solo stressata. Pensa che io qualche anno fa…
Mi poggiò un dito gelido sulle labbra, facendomi tacere. Nei suoi occhi rabbia e stanchezza e disgusto e rassegnazione.
-Non è quello che intendevo io, ascoltami quando parlo! Quello che provo non passa e non passerà mai. Io la gente non la sopporto più… capisci? La vostra disgustosa ipocrisia, il vostro buonismo, il vostro “stress”…Mi fate schifo! Vattene!
Mi alzai ferito, aspettando che si scusasse. Ma lei mi fissava, convinta.
Così capii che diceva sul serio. E mi offese così tanto che borbottai qualche frase, e tentai di andarmene con la maggior cortesia possibile. Lei non mi fermò. Uscii, fuggii da quella casa giocattolo e tornai alla città fumosa, alla folla e alla vita. Avevo ancora nel naso quell’odore di vaniglia, che ora mi ricordava solo i biscotti muffiti.
Eppure… eppure qualcosa non tornava. Come se uscendo da quella porta il cielo si fosse fatto più finto, i discorsi della gente più inutili. Come un piccolo teatrino, sempre quello e sempre uguale, fatto di discorsi triti e superficiali, di battute scontate e sorrisi di carta. Così capii. E il profumo di vaniglia divenne quasi un’ossessione. Divenne così ossessivo che pochi giorni dopo tornai quasi correndo, e bussai di nuovo alla porta, come un uomo supplichevole, che non attende altro che passare il confine per tornare a casa.