Sentimenti a ragnatela
Chiara CrepazChiara Crepaz
Nata a Trento il 19 settembre 1990, risiede a Tonadico (Tn) con i genitori
e tre fratelli; frequenta la 2^ classe dell'Istituto Erica di Fiera di
Primiero.
Appassionata lettrice, fin da piccola predilige il genere avventuroso,
soprattutto i “gialli” per ragazzi. Ma anche libri che toccano
tematiche adolescenziali e libri di poesie. Nel tempo libero gioca nella
squadra locale di pallavolo e partecipa come animatrice ad attività di
animazione per bambini della Valle di Primiero.
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
Pur nella drammaticità della trama - un giovane di 24 anni, in attesa di diventare padre, condannato ad una lunga pena per un delitto che non ha commesso - il racconto, amaro e malinconico, apre la porta ad uno spiraglio di speranza, quello che porta a varcare il confine di una vita comunque nuova, che ricomincia. Il tutto sorretto da uno stile piano, convincente, riflessivo.
IL RACCONTO
Cammino trascinando i piedi sulla ghiaia candida del viale dei giardini. Qui il tempo sembra essersi fermato fra le panchine dove, immobili, gli anziani lanciano sguardi indifferenti nel vuoto. Ogni tanto un bambino irrompe nel silenzio, strappando un sorriso nel muto scenario. Mi ridurrò anch'io a restare immobile pedina su una scacchiera di verde prato?
Finalmente raggiungo la spiaggia e mi accascio stanco sulla sabbia. Una leggera brezza mi scompiglia i capelli ormai grigi e troppo lunghi per essere domati.
C'è silenzio; solo le onde si infrangono sugli scogli del promontorio. Da lì il faro volge all'intorno il suo occhio scrutatore e impiccione, illuminando prima il mare -mappa di cristalli- e poi il paesino. Sono solo. Come è sempre stato, del resto, in questi ultimi anni. L'unica compagna rimastami fedelmente accanto è la polvere e ho anche imparato a dialogarci, con lei. Mi raccontava dei luoghi meravigliosi che visitava a cavallo del vento, delle spiagge frequentate in estate e abbandonate in inverno, dell'umidità dei boschi che la appesantiva, della tristezza e della noia del mondo. A volte tardava e allora dovevo aspettare anche dei giorni prima che tornasse. E in quei momenti mi sentivo veramente solo.
Dalla tasca estraggo penna e carta da lettera, accartocciata e sporca di macchie di inchiostro. Forse sto solo sprecando il mio tempo a cercare di spedirti l'ennesima lettera che non avrà risposta. Ma ne ho perso così tanto di tempo, che un giorno in più non fa differenza. Per un attimo vorrei appallottolarla, ma mi trattengo e una lacrima di malinconia mi riga la guancia. Questa scheggia di ghiaccio mi ha trafitto tante volte ultimamente… ancora adesso sento un vuoto dentro di me…
Colgo lo sguardo indagatore del faro. Magari mi ha riconosciuto, dalla cima di quella torre… già, quella torre!
Quando Simone mi disse di aver trovato lavoro come guardiano del faro ci rimasi male. Che razza di lavoro è?, mi chiesi, ma nonostante questo mi promisi che sarei andato a fargli compagnia la notte stessa, così non si sarebbe annoiato.
Verso le dieci ero alla spiaggia. La luna illuminava fiocamente la torre, che si stagliava grigia contro il cielo, nel silenzio. Arrivato all'ingresso sorrisi alla sbadataggine del mio amico, che aveva dimenticato la porta socchiusa. Cercai di non far rumore e silenziosamente salii le scale: certo, non si aspettava di vedermi! Entrai di scatto esclamando “SORPRESA!”, ma non vidi nessuno. La sua sedia era vuota. Volsi lo sguardo intorno e lo vidi, riverso a terra, faccia in giù. Un rivolo di sangue macchiava il pavimento. Lo chiamai disperatamente. Non ebbi risposta. Mi buttai ginocchioni accanto a lui, lo presi per le spalle e lo rivoltai. Pieno di orrore notai il suo sguardo fisso nel vuoto. Accanto a lui una pistola. L'afferrai, la rigirai tra le mani, terrorizzato. Solo in quel momento mi resi veramente conto che SIMONE ERA MORTO!!
Preso dal panico, col cuore in gola telefonai alla polizia, che mi disse di non toccare niente e di aspettare lì. Intanto si era fatto buio e la luna mi osservava indiscreta attraverso le grandi finestre della stanza.
La polizia arrivò subito. Il commissario mi fece alcune domande, poi vennero rilevate le mie impronte digitali dal cadavere, dalla pistola e dagli oggetti che avevo toccato nel salire. Infine, squadrandomi da capo a piedi, mi disse: “È meglio che ci segua subito al commissariato!”
Fu vano spiegare agli agenti il vero andamento della vicenda. Le poche prove che c'erano bastavano ad accusarmi. Inoltre non esistevano testimoni. In pochi giorni la notizia era riportata su tutti i giornali del paese e persino i miei più cari amici cominciarono a dubitare seriamente della mia innocenza. Solo tu mi credesti. Mi ricordo ancora la tua esclamazione di stupore di fronte all'articolo: “Impossibile!! Come avresti potuto uccidere il tuo migliore amico?”
Mi consolò il fatto che in un mondo dove si ragiona con la testa c'è ancora qualcuno che ragiona col cuore…
Quante lettere ci siamo scritti dopo la tua partenza! E quante ne ho conservate: mi infondevi fiducia, mi spronavi ad andare avanti, ti sentivo vicina…
Ti incaricasti pure di cercare un buon avvocato ed eri così convinta che mi avrebbero assolto… Ma, nonostante la competenza del legale, mi condannarono. Allora tu ti alzasti e, ancora in aula, corresti verso di me piangendo -fu l'ultima volta che ti vidi piangere prima di essere rinchiuso- e mi promettesti che mi avresti tirato fuori di lì. Perché quella non era giustizia, perché non potevano separarci appena sposati, soprattutto per quel bambino che sarebbe nato a fine estate, nostro figlio…
Nostro figlio, io, un padre, io e mio padre… Davanti a me scorrono alcune immagini: la bottega di mio padre, i suoi attrezzi da lavoro, le sue mani… Diceva che avrei fatto il suo mestiere, da grande, che sarei diventato bravo come lui. Ma io avevo proseguito gli studi e stavo per laurearmi quando Simone fu ucciso. Mio padre non mi perdonò mai per aver preferito gli studi e, quando successe il fatto, divenne più aspro con me. Gli ultimi anni della sua vita trascorsero amari, finché un giorno raggiunse la sua amata sposa in cielo.
Anch'io ora sono padre. La prigione mi ha privato dei momenti più belli: la nascita di mio figlio, le sue prime parole, i suoi primi passi, il suo sguardo che ti cerca, la sua mano che si tende verso di te…
Nella strada si accendono le prime luci e i viali si animano di ragazzi che raggiungono gli amici ai bar. Anche loro hanno dei progetti, dei sogni sul proprio futuro. Forse saranno più fortunati di me e li realizzeranno.
Scruto le stelle all'orizzonte. Da giovane cercavo sempre di riconoscere le costellazioni, la Stella Polare o anche di scorgere una stella cadente, ma non ci riuscivo mai. In prigione ho avuto tutto il tempo di identificarle singolarmente e posso vantarmi di aver visto ben 27 stelle cadenti nei primi anni, poi ho smesso di contarle…
Assonnato, osservo fondersi il cielo e il mare in un blu scuro particolarmente immenso. Un ultimo gabbiano spiega le ali sul mare -o nel cielo?-, ma il suo candore viene subito catturato dalle tenebre.
Quando fui arrestato avevo 24 anni, una vita piena di sogni, credevo nel futuro e avevo fiducia nella giustizia, ma quando la porta della cella si richiuse alle mie spalle, tutto mi crollò addosso. Non si seppe mai chi uccise Simone e perché, ma nel mio cuore ho sempre sperato che il colpevole si costituisse. E anche tu me lo ripetevi nelle tue lettere. Non dovevo preoccuparmi, nel giro di qualche mese sarei stato libero… e io ci credevo. Quando venivi a trovarmi con il piccolo Simone tornavo in cella felice e riuscivo ad affrontare un'altra giornata di prigionia. Mi sembrava di essere ancora in libertà, parte di una famiglia unita. Ma durante una visita di circa vent'anni fa, mi riferisti della scelta di mio figlio di non voler più avere a che fare con me: un padre in galera è un uomo finito, un fallito. Ed è così che mi sento io, un colpevole innocente. Così gli anni che seguirono non lo vidi più, la sua adolescenza mi è rimasta nascosta ed ora non so se si è sposato o se ha dei figli…Poi anche tu hai fatto lo stesso. Per dieci anni non ho più avuto tue notizie. Forse ti eri stancata di quella vita o, più probabilmente, hai trovato un uomo migliore. Non lo so, ma prego sempre perché tu non ti sia scordata veramente di me e perchè un giorno possa perdonarmi, portandomi via con te.
Oh, odiosa galera! Ora sono libero, ma in realtà sono ancora incatenato al mio passato. Non importa se sei innocente: la prigione ti marchia come un appestato: quando si parla di te, si parla di uno che è “stato dentro”, ci si ricorda dell'accusa che ti è stata mossa, non della verità. I titoli sui giornali che parlano di un omicidio sono sempre a caratteri cubitali, come il nome del sospettato. Ma quando il tempo passa ed arriva la scarcerazione dopo tanti anni sofferti come sono stati i miei, i titoli sui giornali hanno il consueto carattere di ogni fatto ordinario, poco importante e nessuno ricorda che forse non era quella la verità, che l'imputato si era sempre proclamato innocente (in quanti casi di omicidio, oggi, l'accusato ammette subito la propria colpevolezza, si costituisce dopo il fatto o addirittura si suicida dopo il terribile gesto) e tu dovresti rientrare nella vita di ogni giorno come se nulla fosse successo, come se ti fossi risvegliato da un lungo sonno, riprendendo le tue occupazioni nel modo più naturale possibile. Ma ormai il tuo passato è un'insopportabile valigia di dolore, che appesantisce ogni momento i tuoi passi, sempre pronta a ricordarti che tu sei diverso, sei solo un pezzo di te, mentre l'altra tua parte è stata cancellata, annullata. Quando i tuoi amici facevano festa, tu eri là, in quei pochi metri di tristezza; quando tua moglie sorrideva, tu eri da solo a guardare il muro; quando veniva l'estate, gli altri partivano per le ferie e tu eri sempre là, a fare progetti per un futuro incerto, ingrato, carico di incognite. Chi poteva più avere un po' di fiducia, di coraggio, di ottimismo dopo un'esperienza del genere? Che razza di uomo poteva essere quello che oggi per la prima volta vedeva il sole fuori da quelle maledette mura?
E ancora mi guardo intorno. E ancora sono solo. Mi alzo in piedi, il sole sta sorgendo. Ho passato la notte a pensare, a vendicarmi silenziosamente dei torti che ho dovuto subire per colpa di un errore giudiziario. Non so dove andrò, non so cosa farò.
Finalmente trovo la forza di alzarmi. Contemplo il gioco di raggi infuocati nel cielo, il cuore stranamente tranquillo mentre mi avvicino al promontorio. La luce del faro è spenta. All'orizzonte, due ombre chiare. Una piccola piccola e l'altra più grande. Vengono verso di me, tenendosi per mano. Anche se sono passati più di dieci anni, riconosco il sorriso di mia moglie, il suo passo, la sua voce: ”Da' un bacio al nonno!” E senza accorgermi mi ritrovo a piangere di nuovo, stavolta di felicità.
L'amica polvere, nel suo silenzio di sentimenti a ragnatela, cede il passo a qualcosa di più prezioso: la speranza.
Cammino guardando il sole che sorge davanti a noi e sorrido. Per un attimo, con quella piccola mano nella mia, mi convinco di essere pronto a varcare il confine di una vita nuova…