La smilza
Elisa PaulettiIL RACCONTO
Non c'era verso di fermarla. La Romina fingeva una lucida attenzione, si sforzava di comprendere i misteri del corsivo e poi, più avanti negli anni, delle tabelline, dell'analisi grammaticale, della produzione agricola degli stati extraeuropei e della storia di casa Savoia. Ma sotto sotto, dietro lenti fitte di cerchi concentrici che le rimpicciolivano gli occhi, dentro gonne scozzesi plissettate e camiciole con colletti sporgenti, io sapevo che stava progettando la fuga, con una meticolosità e una caparbietà che solo ora riesco a comprendere, solo dopo aver amato questo verso di una canzone: "Voglio vivere come i gigli nei campi e sopra i gigli dei campi volare".
Non gliene importava nulla delle spiegazioni, men che meno dei fagioli ficcati nel cotone, quelli che crescono in un decadente clima di putrefazione e appestano le aule di mezzo mondo. Impiegava delle mezze ore a scrivere la data: il termine indicante il luogo era formato di sole 4 lettere, ma lei si soffermava sulla A iniziale per lunghissimi minuti. Faceva tutto un affascinante gioco di ghirigori, una spirale infinita ad effetto optical in cui venivo trascinata mio malgrado, mentre tutti intorno smadonnavano perché il dettato rallentava vistosamente e l'insegnante s'innervosiva. Sporgeva in fuori la lingua come Charlie Brown mentre scrive al suo pen-friend, e cominciava il processo di astrazione dal mondo circostante: la stilo grattava il quaderno Pigna con il pennino biforcuto, la schiena si inarcava ed esibiva le costole come una grande lisca umana. In aprile e in ottobre, poi, il processo era esasperante: lei non desisteva, le A e le O andavano completate, piuttosto tralasciava di scrivere il problema, che tanto non avrebbe saputo risolvere comunque. In 5 anni non l'ho mai sentita dare una risposta esauriente, titubava in tutto, con le lunghe dita sempre screpolate che spianavano il dorso del sussidiario, i capelli neri dritti come l'olio, una bocca a forma di cuore che scopriva gengive altissime e rosa. Qualcuno l'aveva soprannominata Olivia, a causa delle gambe magre e gommose e dell'eterna gonna, ma lei se ne fregava e faceva coppia con l’Anna: la Smilza e la Ciccia. L’Anna aveva, infatti, una conformazione fisica simile a quella dei cetacei. A lei era implicitamente toccato di vigilare la Smilza, apparentemente innocua.
Forse era brava a fare i lavoretti natalizi, di certo era un asso del volteggio. Durante una ricreazione si era piantata in mezzo all'aula, aveva allungato le braccia sul piano sagittale come un enorme albatros, aveva alzato repentinamente e all'inverosimile una gamba e si era eretta sulla punta del piede facendo un giro e poi un altro e così via per interminabili minuti, prendendo ritmicamente slancio con l'arto destro, noncurante della girella Motta che l'aspettava, squagliandosi nel riquadro di sole che spioveva sul suo banco. Ancor oggi non so bene perché avesse fatto dono soltanto a me di quella visione.
Non partecipava alle partite di palla avvelenata, lì ci volevano fisico, mosse e indumenti in grado di attutire "le sbalonade dei mas'ci": all'inizio ci aveva provato, svolazzava qua e là in calzamaglia, prillando come un fuso impazzito nel tentativo di intontire l'avversario. Ma il Maset, incaricato voce magna di farla cadere senza tanto sforzo, aveva imparato il trucco: la puntava col "balòn medo sgonfio" e, alla fine dei suoi sfarfallii, la colpiva alle costole con un tonfo secco, in seguito al quale noi femmine dovevamo trascinarla a bordo campo in preda ad una crisi d'asma, imprecando contro la malvagità maschile e raccogliendo cime di ortica da infilare nella cartella dell'abbattitore spietato, che poi regolarmente ci riempiva di lividi. Il clou veniva raggiunto durante i Giochi della Gioventù. Io odiavo strisciare sotto le asticelle e sottopormi al pubblico ludibrio a cui esponevano quei ridicoli percorsi, e protestavo che, se giochi della gioventù dovevano essere, fossero allora rivolti ai giovani, non ai bambini, e sobillavo le compagne a infischiarsene del CSI e fare le crumire. Alla fine capitolavo, ma la Romina ne aveva studiata una bella: secondo i suoi calcoli, infatti, se avesse percorso a grandi falcate tutto il perimetro del quadrato di gara (evitando le gimcane di birilli, le capriole in cui le sue lunghe zampone la facevano sistematicamente cappottare di fianco e perdere l'orientamento - una volta aveva addirittura proseguito in senso inverso! -, i saltelli da ninfa con la palla, gli scorticamenti sotto le malefiche aste poste a circa 4.5 centimetri dal terreno), avrebbe sì totalizzato il massimo numero di penalità possibili, ma la velocità alla Joe di Maggio con la quale copriva tutte le basi le avrebbe permesso di uscire dignitosamente dalla competizione.
Mentre, dunque, tracciava le sue A ipnotiche da test neurologico tipo potenziali evocati, la Barisnikova progettava in segreto di fuggire dalla prigione scolastica. Un bel giorno la scorsi da una finestra del secondo piano. Si era appartata cheta cheta durante l'intervallo, confondendosi fra le grida dei masticatori di pastine, e aveva raggiunto quel pezzo di cortile vicino all'entrata dell'asilo e al gioco metallico dal quale ci facevamo penzolare a testa in giù fino a diventare paonazzi. La Ciccia si era messa a raccogliere fiori di tarassaco, facendone delle trombette stonate e dal sapore pestifero. Io me ne stavo lì fuori del bagno, felice di aver scampato per l'ennesima volta il pericolo turca-rigurgitante-e-poirisucchiante, e la vidi. La Smilza stava allargando un buco nella rete: aveva scelto con cura il luogo e Dio l'aveva assistita facendo arrugginire l'intrico dei fili proprio di fronte al campo di pannocchie ormai secche. La rete si spezzettava prodigiosamente sotto i suoi movimenti di polso. Le ci vollero pochi minuti e sgusciò fuori come una martora. Cristo santo, stava davvero scappando e io da lassù vedevo ondeggiare le canne dorate e scricchiolanti. La Ciccia, ignara di ciò che stava accadendo, continuava a svuotare i polmoni nelle trombette lattiginose. Le maestre cicalavano col caffè in mano e cincischiavano il cucchiaino sul bordo della tazzina. La Smilza era libera, aveva trovato il suo locus amoenus, mentre noi cretini ci sentivamo appagati di un locus horridus costellato di scivoli, altalene e acacie.
Tornò in prigione due giorni dopo. Nessuno fiatò, le A ripresero a vivificarsi, le maestre se ne stavano tacitamente guardinghe. Da allora la Romina prese a farsi la pipì addosso, non so se come forma di protesta pacifica o come triste conseguenza della libertà perduta. Io sapevo che lei sognava i gigli nei campi. E quel lago paglierino sotto la sua sedia, ogni santo giorno, stava lì come monito per coloro che sarebbero venuti avanti e come rimprovero a noi, sordi alle grida di un altrove con cui confrontarci. Non si scomponeva, rilasciava i muscoli della minzione e la faceva scivolare attraverso le mutande e le calze: scorreva placida lungo le gambe della sedia e si allargava sul linoleum, le stilografiche si bloccavano, molti deglutivano, qualcuno sentenziava "dio bel, de novo...", la cattedra fremeva e veniva chiamata la bidella bastarda, che accampava sempre la scusa di un'antica lussazione all'anca per non abbassarsi a pulire col vileda. A volte era la stessa Ciccia a sbrigarsela, dato che la Romina era ormai una sua appendice. Io, intanto, la prendevo per mano e la portavo in bagno. Lungo le scale si parlava di tutto: di lei che rischiava la vita nella fabbrichetta di suo papà azionando la fiamma ossidrica (“le scintille della saldatura non si devono guardare, ché poi di notte non si dorme più!”), delle sue trecce che sembravano più che altro “spenòt fora dreti”, di quel mitico compleanno in cui io mi ero nascosta in un ripostiglio pieno di cavi elettrici pericolosissimi, della puntata strappalacrime di “Remì” in cui la scimmia moriva alla fine della parata, che se ci penso mi viene un groppo ancora oggi.
Nella foto della Prima Comunione io sono distante dalla Smilza, faccio l'angioletto santo, invece lei ride e mostra i gengivoni. La coroncina sulla sua testa è tutta inclinata a sinistra, forse per amor di simmetria con quella della Paola, una mongoloide di fianco a lei che ce l'ha tutta penzolante sulla destra. Eravamo 19 bambini. Quasi tutti ora lavorano, il mestiere più gettonato è quello del camionista, qualche infermiera, segretarie, operai. Il Maset ha lasciato da lungo tempo la palla avvelenata ed è un discreto calciatore attaccabrighe. La Smilza è semplicemente una mamma, stramba e simpaticissima. Io nulla di tutto ciò.