Tra il cuore e l'ascella
Antonio Giacomo BortoluzziAntonio Giacomo Bortoluzzi
Sono nato a Puos d’Alpago (BL) nel 1965 e abito con mia moglie e mia figlia a Farra d’Alpago. Lavoro in un’azienda che produce e commercializza occhiali. E scrivo. Dal 2002 a oggi sono stato finalista o segnalato a vari concorsi letterari per racconti e romanzi: Premio Calvino, Logos (G. Perrone Editore), Frontiere- Grenzen, Writers Magazine Italia, Alien, Lovecraft, Il Prione. Alcuni racconti sono ospitati su web, antologie di premi e riviste: Inchiostro, L’Indice dei libri, Mac World Italia. Sto lavorando alla preparazione del mio primo libro.
IL RACCONTO
Gino scende alla stazione di Basilea con la giacca stropicciata e la valigia
sottobraccio. Molto prima che il treno si fermasse era andato alla toilette,
aveva bagnato il pettine e si era tirato indietro i capelli per bene.
È tardo pomeriggio e la stazione è grande, non come Milano Centrale
con tutti i pali e i fili che pare un vigneto, ma grande lo stesso. Gino
entra nel bar e prende un kaffeeträsch. Fa ancora freddo e quel beverone
ha un sacco di qualità: è tanto, caldo e zuccherato.
Ha il colore del caffelatte
e il caffè c’è, insieme all’acqua bollente e a tutta la grappa che ci
può stare dentro il bicchiere di vetro. Quando uno arriva a Basilea da solo,
un mese dopo gli altri, perché in Italia l’hanno operato d’appendicite, e
si è bevuto il kaffeeträsch ed esce in strada all’imbrunire, be’, sente
d’avercela fatta. Lo sente nel calore che sale dallo stomaco, nella forza
delle gambe e in una certezza: da domani si va finalmente in cantiere a
lavorare. Ed è più facile che prendere il treno e cambiare a Milano Centrale,
più che trovare la linea 4 del bus a Basilea, più che spedire un telegramma
se capita una disgrazia.
Il marciapiede non è molto affollato e dalle grate esce aria calda. Sarebbe
una bella invenzione fare un tubo, ma grosso, che prende tutta
l’aria che i tedeschi non usano e portarla fino in Italia: il tubo principale
potrebbe arrivare fino a…
È in quel momento che lo vede, sul marciapiede, a venti centimetri dal
muro grigio dell’edificio. È un pacchetto rosso con un fiocco dorato. Sembra
che qualcuno l’abbia appena perso.
Per strada non c’è nessuno. Solo una fila di alberi grossi e il buio in fondo.
Gino si avvicina al pacchetto e lo osserva, gli passa a fianco e continua
a camminare e poi si ferma, poggia la valigia, si volta lentamente. Dietro
non c’è nessuno. È solo. Lui e il pacchetto rosso. È grande come un mattone.
Chissà quanto pesa. Chissà chi l’ha perso. Chissà cosa c’è dentro.
Sembra un regalo di quelli dei film, una cosa di gran classe: se il principe
Ranieri avesse fatto un regalo a Grace Kelly, mettiamo il primo regalo,
l’avrebbe fatto con quella carta e quel nastro.
Il regalo del principe è lì, immobile e rosso. Ha una carta lucida e perfetta.
È come certe calze, certe gonne, certe femmine del cinema.
Il pacchetto non sembra neanche perduto ma posato lì in bella mostra.
Magari è di un ricco fidanzato tradito o respinto, che prima di buttarsi
sotto il treno l’ha posato sul marciapiede perché potesse essere usato
da qualcun altro. Ma forse i ricchi non si buttano sotto al treno. Magari
si buttano nel fiume. Oppure si sparano con la rivoltella e il pacchetto rimane
sul letto accanto a loro.
La ricompensa. Chi trova qualcosa ha diritto a una ricompensa. Dieci
per cento. Di quanto? Di un anello con brillanti? Di un collier d’oro? Di
una parure di perle vere? Sarebbero comunque franchi svizzeri, soldi veri,
che valgono sempre di più, ogni anno che passa, quando vai a cambiarli
all’ufficio postale. Cento franchi. Mille franchi. Stagione, Italia, casa,
sagra di San Redentore. Lucia.
Il rosso è diventato marrone scuro e ora, se non fosse per il nastro dorato,
quasi non si distinguerebbe. Gino si china in quel momento, e sa che
non è per la ricompensa del dieci per cento, ma è per averlo tutto per sé.
Se porta questo regalo a Lucia è sicuro che lei gli dice di sì. Però dovrebbe
tornare a casa per la seconda domenica di luglio, quando c’è la
sagra, e se Lucia non ha fatto parola con qualcuno, e lui gli porta il regalo
che era per Grace Kelly, lei gli dice sì.
Non c’è un’anima in giro. E nemmeno polizei. Gino si china, lo afferra
e lo infila svelto nella giacca tra il cuore e l’ascella.
Il regalo pesa, eccome se pesa.
L’androne della palazzina è poco illuminato. Stavolta Gino non ha l’impressione
di entrare in casa d’altri e di disturbare, perché ha con sé una
specie di lasciapassare. Sale le quattro rampe di scale e bussa piano.
La porta si apre in una fessura gialla con in mezzo una testa riccia.
– Parente! – gli grida Silvano.
La porta si spalanca del tutto e suo cugino gli stringe la mano, gli dà
due baci e poi lo abbraccia forte, quasi troppo.
– Piano, piano – dice Gino.
– Che hai parente, stai ancora male?
– Spetta, Silvano. Me n’è successa una…
Dal corridoio sbucano i fratelli di Silvano, Gelindo e Piero. Tutti gli
danno la mano e lo baciano e parlano veloce e a bassa voce, e ridono, con
quel loro modo grasso e festoso.
– Lasciatelo entrare, dài Gino, vien avanti moro – dice zia Clementina –
c’è la minestra, l’ho fatta oggi, coi fagioli nostri. Silvano, prendi la valigia
di Gino, dài.
Sua zia lo abbraccia, lo bacia e poi lo guarda, tenendogli il viso tra le
mani. Ha gli occhi sporgenti e lucidi. Sua zia fa sempre così quando lo
vede: non piange, ma ci arriva vicino. Gino non ha coraggio ad allontanarla
anche se la sente premere contro il regalo che ha dentro la giacca.
– Dimmi del viaggio, dài, racconta. Piero, porta il vino – dice versando
la minestra.
Gino infila la mano nella giacca e toglie il pacchetto rosso. – Guardate
cosa ho trovato dietro la stazione.
Sono tutti lì attorno. Zia Clementina, Silvano, Gelindo e Piero con il
fiasco. Gino posa il pacchetto sulla mezza tovaglia, vicino al piatto di
minestra fumante, al pane nero, al bicchiere, al cucchiaio. Il pacchetto
rosso con il nastro dorato sembra dare luce.
Dopo un momento di sorpresa i cugini ricominciano a fare domande a
voce bassa e a ripetizione: nessuno che passava? No. Nemmeno l’autista
del bus? No. E dall’altra parte della strada? No, nessuno, era già buio.
Gino deve giurare su tutto l’elenco e anche sull’autista di taxi, che
quelli arrivano che non li senti. No, non mi ha visto nessuno.
Si siedono tutti e appoggiano le mani e le braccia sulla tavola. A Gino
pare una seduta spiritica, dove dicono che si parla con i morti. Ha sentito
dire che ci vuole un medio, mediu, insomma uno che sa come fare:
qualcosa gli dice che stasera è lui il medio. Lui e il suo pacchetto rosso.
Il primo a prenderlo in mano è Silvano, il più vecchio dei suoi cugini:
ha già ventisette anni. – Dio bono, questa sì che è fortuna, parente.
Poi lo passa a Gelindo che lo agita vicino all’orecchio.
Tocca a Piero. – Sarà una bomba?
– Oh signore! – dice zia Clementina.
– Va in mona Piero – dice Silvano alzando una mano per dargli una
sberla.
– Ohé – ribatte Piero con la faccia cattiva – stai attento tu.
– Chi io? – chiede Silvano.
– Sì, tu.
– Va là, bocia.
– Io penso che è il regalo per una morosa – dice Gino con il cucchiaio
a mezz’aria.
– Fammelo sentire – dice zia Clementina – credo che ha ragione Gino:
ha la carta di un regalo per una donna. Ma non una morosa, questo è per
una donna fatta.
Poi zia Clementina dice una cosa che nessuno si sarebbe aspettato da
lei, tanto meno i suoi tre figli. – Secondo me c’è biancheria da sotto.
– Ma dài, mare. Pesa troppo – dice Silvano.
– Ma se è una sottoveste, reggipetto e mutande…
– Per me è un gioiello – dice Gino.
– Ma dovrebbe fare un rumore, no?
– Se è un anello o una fede legata per bene nella sua scatolina non si
muove – continua zia Clementina.
– Se fossero due fedi? – chiede Piero.
– Avrebbero i nomi incisi – aggiunge Silvano alzando il pacco contro la
lampada giallastra, come a guardare controluce. – E il nome della gioielleria.
– Se c’è un nome, Gino, ti tocca restituirlo – dice zia Clementina.
È la prima brutta notizia. Ed è vera.
– Aprilo, dài! – dice Silvano porgendogli il pacco.
Gino si pulisce la bocca con il dorso della mano, beve il bicchiere di vino
d’un fiato. Sarebbe rimasto ancora un po’ a pensare a cosa c’è dentro. Oppure,
se fosse stato da solo in casa, l’avrebbe aperto appena entrato, con la
giacca addosso e la valigia tra le gambe. Adesso, anche se l’emozione è ancora
forte, è meno bello: l’idea di restituire il regalo non gli piace.
Gino prende il pacchetto, che gli sembra più leggero di quando l’ha
raccolto per strada, sposta la fondina di minestra di lato per farsi posto,
scuote la testa rifiutando il coltello che gli porge Silvano. Tira con gli indici
il nastro sui due angoli e poi spinge con i pollici: il pacchetto rosso
scivola sulla tovaglia. Gino gira il pacchetto e trova due ali appuntite, le
solleva e dentro c’è una scatola di cartone.
C’è qualcos’altro. È un odore che nessuno sente, perché i gioielli non
hanno odore.
Gino ruota la scatola e cerca le lingue da sollevare, le trova, e con il
cuore che pulsa in gola, la apre. La zaffata lo colpisce sul muso come una
sberla. Tutti si sporgono per vedere.
– ’Na merda – esclama Gelindo che fino a quel momento non aveva mai
aperto bocca.
Gino si alza di scatto come se avesse visto una vipera e bestemmia
pallido in volto.
– ’Na merda, parente – mormora Silvano.
– Oh signore – dice zia Clementina.
Piero si sporge verso la scatola. – Proprio ’na merda.
Gino bestemmia e cammina avanti e indietro mormorando: – Lo sapevo
io, lo sapevo io, sfortuna bastarda. Ho la sfortuna, io. Se lo prendo quel
bastardo che me l’ha fatta, l’ammazzo.
– Dove la buttiamo? – chiede Gelindo.
– Nel cesso no! – dice zia Clementina. – E poi toccherebbe toglierla
dalla scatola… ha la carta oleata, vedete?
– A Basilea non c’è nemmeno un posto per buttare una scatola piena…
– Di merda! – esclama Piero.
Silvano ride, anche Piero e Gelindo. Zia Clementina si trattiene. Fa un
piccolo sbuffo e guarda Gino appoggiato alla credenza con le braccia incrociate
e il mento affondato nel petto. Zia Clementina non ce la fa e
sbuffa un’altra volta e poi inizia a ridere, prima un ahahah, ravvicinato e
corto, poi un respiro, con dentro Oh Signore benedetto, e dopo una risata
forte, chiara, limpida con la gola aperta. È il via, e i ragazzi con i capelli
scuri e ricci e la loro madre ridono di gusto come non succedeva da
quando il loro padre era ancora vivo.
Anche Gino ride, prima piano e poi più forte. C’è ancora qualcosa che
brucia in fondo, ha a che fare con Lucia e la sagra paesana, ma ride lo stesso.
Poi finalmente si calmano e zia Clementina si asciuga le lacrime con
il fazzoletto: – Dài, moro, dài, sembrava proprio un bel regalo.
– Andiamo a buttare questa porcheria nel fiume – dice Silvano. – Dài,
parente.
Gino segue i cugini all’ingresso: – Se trovo quello che l’ha fatta lo ammazzo.
– Prima gliela facciamo mangiare – dice Piero indossando la giacca.
– Secondo me erano più d’uno. Ma l’avranno fatta direttamente nella
scatola? – chiede Gelindo infilandosi il berretto.
– Mah. Certo che è tanta, eh? – fa Piero.
– Tanta merda porta schèi, parente – dice Silvano.
– Fate svelti invece, che domani è lunedì e Gino sarà stanco – aggiunge
zia Clementina.
– Sì, mare – rispondono i ragazzi scendendo le scale in fretta.
La donna chiude la porta e ritorna in cucina. Sul tavolo è rimasto il
nastro dorato. Lo prende e lo fa scorrere tra le dita scuotendo la testa. Non
ha mai visto un fiocco così bello. Sembra d’oro.