Al cancello degli immortali
Katia FranzosoKatia Franzoso
Sono nata il 21 giugno 1991 a Cles (TN) e frequento il quinto anno del Liceo Scientifico "B. Russell”. La lettura e la scrittura sono le mie passioni e sogno di diventare, un giorno, scrittrice. Ho vinto il terzo premio nella III edizione del Concorso Letterario "Ora ti racconto…” organizzato dalla Biblioteca e dal Comune di Cles e il secondo premio nella IV edizione. Amo molto anche la scienza, per questo mi considero una "mente dualistica”. In realtà, sono davvero poche le cose che non mi affascinano.
IL RACCONTO
14 marzo 1928
Io ero lui e lui era me. Dove c’è stato lo stacco, la frontiera che ci ha
separati?
La prima volta che lo vidi eravamo due ragazzini. Erano i primi giorni
di College ad Eton. Ci incontrammo in un corridoio, ci lanciammo uno
sguardo. Cyril Connolly. Lo conoscevo di vista, entrambi provenivamo dal
collegio St. Ciprian ed avevamo vinto una borsa di studio per Eton. Era
grassottello, pallido, tarchiato – il mio opposto, dal punto di vista fisico –
ma quei dettagli non li notai. Notai il suo sguardo. Così, nel giro di un
istante, capii l’importanza delle cose che ci univano.
Non so nemmeno io come lo compresi. Fu un’intuizione improvvisa,
chiara e tangibile. Vidi il mio stesso sguardo nei suoi occhi, vidi la mia
espressione perplessa sul suo volto. Nemmeno ora so spiegarmi cosa successe:
forse in lui, semplicemente, non vidi la superbia, la tanto temuta
superbia dei rampolli di Eton.
Il giorno seguente a quel nostro primo incontro frettoloso, ci trovammo
a fianco a fianco durante l’ora di letteratura. Più volte aprii la
bocca per dirgli qualcosa, ma un’insolita timidezza mi bloccava. Cercai
qualche frase intelligente da dire, senza riuscirci: la mia mente era
sgombra.
A salvarmi da quella situazione imbarazzante e a cancellare la mia insicurezza,
arrivò una pallina di carta, lanciata a Cyril con una cerbottana.
Mi girai e lanciai al malcapitato ragazzo che l’aveva tirata alcuni improperi
non proprio amichevoli.
Cyril era sbiancato: – Lasciali perdere, ti prego. È tempo perso.
Lanciai un’ultima occhiataccia al ragazzo.
– Anche tu hai dei problemi con loro – constatai rivolgendomi a Cyril.
Lui mi guardò per un attimo corrugando la fronte, poi sorrise.
– Relativamente. Hanno anche dei lati positivi. Ad esempio, mi offrono
lo spunto per delle interessanti riflessioni sulla natura umana. Non
molto consolanti, devo dire.
Sorrisi: – Mi auguro che tu possa smentirle presto.
In quell’istante un’altra pallina di carta mi colpì alla nuca. Con un immenso
sforzo di volontà, rimasi immobile al mio posto e continuai la conversazione
con Cyril.
– Dicevamo?
Lui rideva sotto i baffi della mia studiata impassibilità.
– Non prendertela. Davvero, sono solo un po’ presuntuosi.
– Si può sapere perché ce l’hanno con te?
– Credo che il mio aspetto sia fonte di divertimento, per loro. No, non
arrabbiarti. La colpa è gran parte della loro educazione.
– Facile scusante.
– Non sto scherzando, pensaci. Sentirsi ricordare da tutti la propria superiorità
non fa bene. Si finisce per sovrastimarsi, con ovvie conseguenze.
Sbuffai: – Per me vale il contrario. Neanche sentirsi dire che non si è
degni di un posto come questo fa bene.
Mi guardò intensamente.
– Ma tu lo sei.
Fummo zittiti dal professor Huxley.
Da quel giorno diventammo amici. Veri amici. Avevamo una cosa in comune:
un amore profondo e sincero verso la letteratura.
Ci divertivamo a comporre racconti e poemi e a commentare – con un
certo sarcasmo – quelli che leggevamo sui giornali. Cyril, per quest’ultima
attività, aveva una predisposizione naturale.
Ma non era solo la penna ad unirci. La nostra profonda comunione
d’idee, il nostro modo di pensare e d’essere, mi misero in testa la convinzione
che Cyril ed io fossimo, in qualche maniera, come due gemelli separati
dalla nascita. Due animi affini cresciuti in condizioni differenti (io
in India, dove mio padre era stato ambasciatore, lui nella campagna inglese)
ma con una simile predisposizione.
Mi sbagliavo.
Neppure ora capisco dove, ma il mio ragionamento doveva avere un
qualche errore di fondo. Solo così posso spiegarmi quello che successe in
seguito. Solo così posso spiegarmi perché, ora, io mi trovo a Parigi, senza
un soldo, lavorando come sguattero in un ristorante. Quando lasciai gli
studi, era per conoscere la vita vera, per seguire le orme di mio padre.
India, Birmania, l’arruolamento nella polizia. Le ho conosciute, ma non
credo sia la vita vera. Non credo che potrei odiare quel mondo più di
quanto lo faccia già.
Scrivo. I miei libri vendono meno di un ricettario.
Dov’è la frontiera, il confine che ci ha divisi? Cos’ha lui che io non ho?
Cyril Connolly si è laureato brillantemente, lavora per il giornale "New
Statesman” ed è un critico letterario di successo. È solo venticinquenne,
ma ha una rosea carriera davanti.
Ad Eton, il futuro si dipanava uguale per entrambi, cos’è cambiato da
allora?
21 gennaio 1950
La radio ha appena annunciato la notizia della morte di Eric. Ad Eton
eravamo stati amici. E anche dopo, nonostante ci fossimo visti poco negli
ultimi anni. Ma ora lui è morto, ed io rimango solo con il mio dubbio.
La domestica mi guarda con aria preoccupata:
– Tutto bene, signor Connolly?
Mi accorgo di avere le lacrime agli occhi, e me le asciugo in fretta.
– Sì, sto bene. Ho appena appreso della morte di un mio vecchio amico.
Lei annuisce, comprensiva:
– Lo scrittore. L’ho letto sul giornale.
Lo scrittore: aveva sempre avuto talento, fin da giovane. Anch’io
avevo talento. Ma, ad un certo punto – non saprei neanche dire quando –
qualcosa d’invisibile ci ha divisi. Lui ha cominciato a girare il mondo,
io a scrivere per un giornale e a lavorare come critico. Tutti si aspettavano
qualcosa da noi: il Capolavoro, il libro che avrebbe cambiato le
nostre vite. Il destino sembrava voler favorire me, e così credevo anch’io.
In effetti, a cinquant’anni, sono uno dei critici letterari più apprezzati
d’Inghilterra.
Tra qualche decennio, quasi nessuno si ricorderà della mia esistenza.
È facile criticare le opere degli altri, trovare gli errori più nascosti,
difficile è scriverne di proprie.
"Ehi, Connolly, scrivi?” Mi chiede la gente. Cosa rispondere? Certo, ho
in mente un’idea brillante, aspettate qualche mese e pubblicherò il mio
capolavoro…
Come ha fatto Eric. Lui lo ha scritto davvero. Lui non solo sarà ricordato
tra qualche decennio, ma anche tra qualche secolo. Le sue ultime
opere sono geniali.
Io non riesco neppure a trovare un’idea mediocre, figuriamoci una geniale.
Il lavoro, gli amici, gli altri letterati, mi fanno pressioni affinché
io scriva qualcosa di grande. Ma non sono in grado.
Eric ed io non eravamo simili come credevo: lui era un genio, io sono
solo un letterato mediocre.
Uno scrittore senza un libro.
Esco sul balcone, guardo la città sottostante: Eric è morto, devo farmene
una ragione. Mi piacerebbe poterlo vedere un’ultima volta, potergli
parlare. Chiedergli qual è la differenza tra lui e me. Soprattutto, mi piacerebbe
chiedergli se c’è sempre stata, o se il suo genio è nato come conseguenza
del suo vagabondare. Non credo. C’è sempre stata, ero io a non
accorgermene.
Forse anche lui, una volta, credeva che noi due fossimo uguali. Sì, lo
pensava, lo leggevo nei suoi occhi e nei suoi gesti d’amico sincero.
Soffoco un urlo impotente.
Dannazione, Eric, perché tu sì ed io no?
Va bene, ho una bella casa e un bel lavoro. Una vita graziosa, direi.
Ma non ho il tuo genio. Sono una persona come tante, mentre tu sei incoronato
del lauro dei poeti.
Tu hai fatto qualcosa di grande per il mondo e che tutti ricorderanno,
mentre io, dalla mia bella casetta, faccio righe rosse sugli scritti degli
altri nascondendo l’assenza dei miei.
T’invidio, dopotutto.
Molti riderebbero. Forse mi prenderebbero per pazzo. Ma come, sei
ricco e stimato e ti lamenti? Vorresti fare la vita, la dura vita che ha fatto
Eric? Lasciatemi spiegare, risponderei. Se foste, come me, degli scrittori
in potenza, bramosi di diventarlo in atto, se viveste tra piccole delusioni
quotidiane, divorati dall’accidia, capireste.
Scrivere qualcosa di grande è tutto ciò che voglio, ma non lo avrò.
Morirò nella tediosità della mia solita vita, senza aver raggiunto uno
scopo, e il mio nome si perderà nella nebbia dei secoli. Non avrò fatto
niente, nella mia esistenza, che valga la pena essere raccontato.
Soprattutto, non capirò mai la differenza tra me ed Eric.
Può un divario così grande e importante restare nascosto per anni? Ho
sempre pensato che un animo eccezionale trasparisse, facendo come risplendere
il suo possessore. Eric era brillante certo, ed aveva un’intelligenza
fuori dall’ordinario. Non che non mi aspettassi qualcosa di grande
da lui. Tuttavia, non mi aspettavo questa barriera tra noi, questo confine
insormontabile che lo ha ammesso nella cerchia degli immortali, lasciando
me sul cancello. Proprio lui che soffriva per le sue origini modeste.
Sotto di me la città, lentamente, sta venendo a conoscenza della sua
morte.
Anzi, no.
Per loro Eric Arthur Blair non è morto, perché non è mai esistito. Solo
io, con pochi altri, lo conoscevo veramente. Il mio amico si era celato al
resto del mondo dietro lo pseudonimo che usava per scrivere.
Se le differenze tra me ed Eric sono molte, quelle tra me e George
Orwell sono incolmabili.