Quinta edizione 2009 • segnalato prima categoria

Il mio nulla

Romeo Tofani

Romeo Tofani

Nato a Varese il 30 dicembre 1991. Ho iniziato a scrivere nell’aprile del 2008, partecipando a vari concorsi letterari. Nono vincitore del Concorso Cinema & Narrativa con la critica cinematografica "Molto più ancora” a proposito del film "Into the Wild” pubblicata sul volume Mai Sola edito da Ibiskos Ulivieri e Terzo vincitore del Premio Angelo e Angela Valenti con il racconto "Una breve storia d’amore”, pubblicato sul sito internet dell’associazione promotrice del concorso. Vivo a Varese, dove frequento la classe quinta del Liceo Scientifico della Comunicazione Maria Ausiliatrice. Da dieci anni sono scout nel gruppo AGESCI VARESE 3 e coltivo la passione per il teatro; ho partecipato ad alcune produzioni teatrali, ricoprendo anche un ruolo da protagonista.

IL RACCONTO

372
Qualche volta, mentre sto scrivendo il mio pensiero, esso mi sfugge; ma ciò mi richiama al senso della mia debolezza, che io dimentico le mille volte; e così ciò m’istruisce tanto quanto il mio pensiero che m’è uscito di mente, perché io non tendo che a conoscere il mio nulla.
Pascal, Pensieri

Il suo pensiero era prezioso, da sempre lo sapeva e da sempre così era stato educato.
I suoi pensieri, di qualunque natura fossero, erano il fondamento di tutta la sua esistenza.
Fin da giovane, molto più precisamente fin dal 13 gennaio 1998, quando terminò il suo primo romanzo, era stato educato a ritenere il suo pensiero al di sopra di qualsiasi altra cosa della sua vita. Dopo tutto, ogni azione, ogni scelta ed ogni parola di un uomo è determinata dal suo pensiero, perciò esso era la cosa più importante della vita, perche quest’ultima, in sua assenza, non avrebbe avuto senso.
I suoi pensieri vennero rivalutati il 20 aprile dello stesso anno, quando nelle librerie fu possibile vederli editi da una prestigiosa casa editrice. Suo padre, allora, gli donò un quaderno, ed ammonendolo gli disse di riporre tra quelle pagine che profumavano di nuovo e di saggio ogni pensiero che la sua mente formulasse, in qualunque momento ed in qualsiasi ora. Andrea aveva preso le parole di suo padre e le aveva custodite in cuore, seguendo diligentemente il suo dolce comando.
La sua vita era nelle parole, e le parole erano nei suoi quaderni, nei suoi libri e nei suoi pensieri.
Ma ogni prima pagina rimaneva nuda e bella come una donna, adorna solo del pensiero numero 372 del filosofo francese Blaise Pascal.
Non voleva perdere i pensieri, come spesso accadeva a chi lo circondava, a chi viveva come lui in quella città, su quel pianeta, per quegli anni e in quella vita. Gli altri. Quegli altri che trattavano i propri pensieri come capelli, ed ogni tanto ci passavano sopra la mano, qualche volta davano due colpi di spazzola, e li perdevano. Sul cuscino la mattina, tra i libri di scuola, per strada o sul tram.
Lui no.
Lui non avrebbe perso nemmeno un fioco riflesso, un lento sussurro dei suoi pensieri.
Lui non avrebbe avuto un nulla in sé da scoprire e conoscere, perché nessun’idea sarebbe caduta in nulla, mai.

A ventisei anni, dopo dodici anni dal suo primo romanzo, Andrea Cook era uno dei nomi più pronunciati nelle editorie e sui giornali.
Andrea Cook era un uomo pieno. Un uomo intriso di quella pienezza che solo l’arte può dare agli uomini, perché l’arte, come aveva scritto alla pagina 2 del suo primo quaderno, era la cosa che congiungeva più l’uomo al suo creatore, perché la mente non la sa giustificare. Scrittore, pittore, scultore e cantautore, Andrea infondeva i suoi pensieri nella forma d’arte che riusciva a contenerli, senza mai perderne un solo frammento, una scheggia finissima.
Nonostante la sua notorietà, di lui non esistevano interviste. Troppo tempo dedicava ai suoi pensieri, così tanto tempo che non poteva certo perderne con qualcuno degli altri, quegli altri che perdevano i pensieri come fossero banali sospiri.

Era arrivata nelle prime ore del mattino. I raggi del sole non avevano ancora giocato con il cielo, ma già i pensieri di Andrea andavano alla sera.
Non una sera di sole, di luci e di ombre, una sera per gli innamorati ed i disperati.
Una sera più profonda si dipingeva nella mente di Andrea, una sera che si sarebbe svolta nel Butler Hospital.
«È il signor Cook? – aveva chiesto educatamente la donna – Chiamo dal Butler Hospital. Sua madre ha avuto un attacco epilettico». La voce non ebbe il tempo di aggiungere altro, che lui promise di arrivare al più presto e riattaccò.
Guardò la sveglia sul suo comodino.
5:47.
Scese dal letto e si spogliò in fretta. Non fece in tempo ad infilarsi un paio di jeans e recuperare la camicia del giorno prima che già era in auto ed attraversava la città di Providence che ancora dormiva.
Arrivò all’ospedale che il suo cellulare segnava le 5:56.

Quando la ragazza bionda in servizio nella hall gli chiese di attendere l’arrivo del medico, lui rispose chiedendo un foglio ed una penna. In qualsiasi situazione avrebbe dovuto annotare i suoi pensieri. Ascoltando la ragazza al telefono, Andrea si accorse che quella non era la voce che lo aveva chiamato al telefono.
«Signor Cook» sussurrò la voce dietro di lui.
Si voltò per scoprire una donna dai lunghi capelli castani e un camice. «Sono la dottoressa Judit Black. L’ho chiamata io».
Tese la mano, che Andrea abbandonò a mezz’aria scrivendo in fretta sul suo foglio.

La curiosità non ha limiti, né metro di giudizio.

«Perché mi ha chiamato lei, e non quella ragazza?»
«Ho letto i suoi libri, e volevo sentire la sua voce» rispose la donna, un po’ imbarazzata.
La mano le tornò al petto, ad unirsi ed intrecciarsi con l’altra.
Dopo un momento, il medico riprese tutta la sua sicurezza.
«Alle cinque e mezza di questa mattina, sua madre ha avuto un attacco epilettico».
«A cosa è dovuto?»
La donna sospirò.
«Abbiamo individuato un glioblastoma nell’emisfero destro del cervello, che si sviluppa in fretta, creando una crescente pressione endocranica ».
Cook prese la penna.

I medici spiegano ai familiari il problema dei pazienti in termini tecnici, così che il cervello comprende la notizia dell’imminente morte prima che la persona stessa ne sia consapevole.

«Con un cancro del genere quanto tempo le rimane da vivere?» chiese tranquillamente.
La dottoressa rimase stupita più che dalle parole, dal tono di Andrea. «Mi dispiace davvero. Sarà questione di pochi giorni».

La sincerità sboccia anche con persone mai viste, se con loro c’è dolore.

Il ragazzo mise via la penna.
«Posso vederla?» chiese educatamente.
«Ma certo. Mi segua» lo invitò la donna.
Camminarono per un lungo corridoio dalle pareti fredde di bianco e di inverno. Quando la d
ottoressa Black gli aprì la porta notò il suo sguardo. Era uno sguardo saggio, ma di bambino. Cook non era tranquillo, come invece le era parso. Semplicemente non sapeva esprimere il dolore, che si poteva notare solo in quegli occhi.
Andrea entrò nella stanza, che per qualche motivo era buia.
Si avvicinò alle finestre e diede al sole il permesso di cadere sul volto di sua madre, che in silenzio l’aveva osservato entrare.
«Non dici niente?» chiese lei con voce calma.
«Vorresti che dicessi qualcosa?»
«In effetti, sì» ammise.
Lui si voltò a guardarla.
«Cosa vuoi che dica?»
«Un buon inizio» gli fece notare «sarebbe dirmi cosa provi».
La donna si mise più comoda, seduta sul cuscino.
«Angoscia?»
Iniziò a scuotere la testa.
«No, Andrea. Non voglio che tu mi dica cosa dovresti provare, ma ciò che senti davvero».
«L’ho detto, angoscia».
Sarah penetrò con lo sguardo i suoi pensieri.
«Non dire bugie a tua madre».
Poi la donna notò il foglio che lui teneva in mano.
«Sono i tuoi pensieri?» chiese indicandolo.
Il giovane sospirò.
«Sai bene cosa penso».
«E tu conosci la mia risposta».
«Guardati, Andrea. Non ti fa bene condensare i tuoi pensieri in quelle pagine, dovresti comunicarli».
Il figlio guardò sua madre come si guarda la copertina di un grande libro, con rispetto e desiderio.
Non capiva cosa sfuggisse a sua madre a proposito della sua vita, ma sapeva che, in fondo, lei, su qualche punto, aveva sicuramente ragione.
«Io comunico i miei pensieri» le fece notare «con l’arte».

«No, Andrea» disse scuotendo il capo, «tu non sei un artista. Un artista mantiene in primo piano le emozioni. Tu invece le soffochi, destinandole ad una prigione di carta ed inchiostro. Non è salutare».
«E come dovrei comunicarle?» chiese, anche se aveva ricevuto mille e mille volte quella risposta.
«Con la voce. Alle persone. Agli amici, alla tua ragazza».
«Lo sai, mamma, non ho mai avuto una ragazza. Non ne ho il tempo».
Un mezzo sorriso affiorò su quel volto stanco.
«Ma non ti senti mentre parli? Hai ventisei anni, e le tue labbra non ne conoscono altre».
«Ora basta, mamma. Devi riposare» replicò lui, sulla difensiva.
«Che cosa senti?» gli chiese ancora.
«Niente» sussurrò lui lasciando la stanza.
«Ancora menti» mormorò Sarah nella solitudine della sua stanza.

Andrea non capiva cosa provava, e non voleva accettarlo.
Non capirsi non era possibile, se si conosceva tutti i propri pensieri.
E se il pensiero era veramente ciò che muoveva la vita di un uomo, allora tutto ciò che riguardava quest’ultima si poteva comprendere col pensiero.

Qualcosa di oscuro s’intromette nel pensiero dell’uomo, qualcosa che nemmeno il pensiero giunge a comprendere.

Passò due giorni a vedere per l’ultima volta quel sole che è la vita giungere al termine della sua sera.
La mattina del secondo giorno, Sarah trovò suo figlio addormentato e l’ultimo quaderno dei suoi pensieri tra le mani.
Con tutto l’amore e la dolcezza che una madre può provare, sfilò quel malsano oggetto dalle mani di un giovane che ancora era bambino e non si accorgeva di farsi del male.
Lo lesse un poco, e si stupì della varietà di pensieri.
«Cosa ne pensi?» chiese la voce di Andrea, stropicciata dal sonno.
«Penso che hai una mente brillante, ma una vita assente».
«Cosa intendi?» chiese lui senza capire.
«Tutti i tuoi pensieri si rifanno a stati d’animo che qualcuno prova, o a constatazioni. Altri, invece, sono sulla fisica, sulla matematica od altre scienze. Nessuno, nemmeno uno, fa riferimento alla tua vita».
Quest’improvvisa consapevolezza lasciò Andrea pensieroso.

Era vero, e lo sapeva.
«Cosa provi?» gli sussurrò dolcemente la madre.
«Freddo» disse lui con sguardo assente Provo tanto freddo. «Eppure sono affascinato. L’idea che in un istante una vita si può perdere nell’eternità dell’universo mi affascina, ma ho paura, perché è la tua di vita, e non ho con chi parlare, se non con te».
Nel silenzio che dominò la stanza dopo quelle parole, un pianto afono si liberò dagli occhi di un bambino diventato uomo.
Ultime parole colarono da una penna alle 2:38 della mattina successiva, quando una vita si perse nelle profondità dell’infinito.

Equilibrio è fondamento della vita.
Ho passato la mia vita a pensare, ed ora ne resta che alla vita ho solo pensato.
Chiudendo le pagine del mio pensare, ora mi affaccio al mio nulla.