Madri e figlie
Paolo CassaniPaolo Cassani
Nato a Verbania il 7 marzo 1990 dove ho frequentato il liceo classico. Durante gli anni delle superiori ho partecipato alle lezioni di scrittura creativa dello scrittore milanese Walter Pozzi, grazie a cui ho rafforzato le mie abilità stilistiche. Divoro avidamente libri di ogni genere, con una predilezione per la letteratura americana del Novecento. Altra mia passione è il teatro, a cui mi sono avvicinato attraverso la formazione dell’accademia teatrale di Marchetti e Sala. Nel tempo libero collaboro con discreta alacrità e soddisfazione con un giornale locale. Quest’anno mi sono iscritto alla facoltà di Filosofia a Pavia, riuscendo a vincere un alloggio all’Almo Collegio Borromeo. Sperando di completare il mio ciclo di studi in tempi non troppo lunghi (e con risultati apprezzabili), vorrei dedicarmi alla carriera giornalistica; e, se talento e fortuna mi assisteranno, sogno di scrivere un romanzo o qualcosa di sufficientemente decente da essere pubblicato.
IL RACCONTO
Il sole intenso le pungeva gli occhi. Incastrò il suo culo su una delle
sedie sgangherate, che cingevano la vasca della piscina. Il vociare dei
bambini si scioglieva nell’afa e un altoparlante gracchiava numeri sfocati.
Aveva avuto la sventura di appartenere a quella schiera di donne
che mai hanno potuto assaporare il piacere di sentirsi desiderate. Nemmeno
per un istante. Nonostante la grassezza notevole, la parte più consistente
della sua bruttezza risiedeva nei lineamenti del volto, che
ricordavano quelli di un grosso pesce. La bocca era sempre semiaperta e
una smorfia di immane fatica le si delineava in viso quando doveva trasbordare
la sua mole da un luogo all’altro. In quei giorni di calura implacabile,
l’affanno si era definitivamente sostituito a una respirazione
regolare e aloni di sudore marcavano il territorio delle sue ascelle. Un cetaceo
sudato. Aveva tentato, in passato, di compensare i suoi limiti estetici
con una cura esasperata del vestire, con abbondante trucco e
disperate sedute da estetisti e acconciatori. Un cetaceo sudato e ben vestito.
Ecco il massimo risultato conseguito. Ormai, il germe della rassegnazione
le si era annidato in cuore e aveva ridotto al minimo le uscite
pubbliche, vergognosa del proprio aspetto. A commissioni, compere e incombenze
avrebbero pensato suo marito o la cameriera. Ma quell’occasione
era speciale: i campionati regionali di nuoto sincronizzato. La
squadra di sua figlia era la favorita, un connubio di armonia e leggerezza.
Bella. Anche lei, da ragazzina, avrebbe desiderato accostarsi a questo
sport. Ma il pensiero di doversi mostrare in costume le precluse la frequentazione
di qualsiasi piscina.
La squadra della figlia trionfò e ondate di gioia le annegarono il
cuore.
Quando la sua bambina avrebbe varcato la porta della prima elementare, sarebbe stata superiore a tutti gli altri. Non solo per quella perfetta configurazione fenomenica, che è volgarmente definita bellezza; ma soprattutto perché avrebbe palesato notevoli doti intellettuali. Innanzitutto, le avrebbe insegnato a scrivere già durante gli anni dell’asilo. Poi, le avrebbe dato un’infarinatura di aritmetica e geometria piana. Sì, il primo giorno di scuola avrebbe già dato sfoggio di un’inappuntabile preparazione di base, sapientemente introiettata nell’abbraccio delle mura domestiche. L’estate che precede la prima elementare sarebbe stata scandita da cospicui esercizi, svolti sotto l’ombra verde della veranda. Lei avrebbe maternamente vigilato sullo studio della figlia. Avrebbe ansiosamente sanato le sue debolezze. Avrebbe entusiasticamente premiato i suoi successi. Lei, alle elementari, era stata una bambina dalle speranze estetiche già compromesse e non aveva brillato nemmeno nel profitto scolastico. Ma ora, con la copiosa eredità paterna, avrebbe mandato la figlia in una delle migliori scuole private. E tutti si sarebbero dovuti dedicare alla pratica dell’ammirazione.
Primo giorno di scuola media della figlia. La madre le aveva preparato tutto l’occorrente: ogni matita era stata temperata e ordinata per colore, ogni libro foderato e munito di etichetta, tutto era stato riposto nella cartella smagliante. Le aveva inoltre scelto i vestiti che avrebbe indossato. Nella bruma settembrina del mattino, accompagnò la bambina con la macchina fino all’entrata dell’istituto, dove fu presa in consegna dalla madre superiore. Mentre la piccola si allontanava al fianco della candida suora per il suo primo giorno di lezioni, non poté fare a meno di notare la pregevole fattura della gonna blu mare scelta per lei. Dalla gonna riccamente lavorata, spuntavano due gambe sottilissime e leggiadre. E una lacrima di calda soddisfazione le rigò il grasso volto.
Il ventilatore appeso al soffitto rantolava sfinito. La scrivania sudicia era ingombra di fogli e nell’angolo ancheggiava una bandiera. L’impiegato firmò le ultime pratiche e si soffermò sugli occhi di quella donna. L’uomo seduto dietro la scrivania non aveva mai visto un documentario sui cetacei; gli sfuggiva dunque la somiglianza tra quella classe di mammiferi e quella donna maestosamente agghindata, che sedeva in attesa. La donna teneva la bocca semiaperta e fissava la fila di palme, che adornavano i dorsuti orizzonti stranieri. Dalla strada secchiate di suoni colmavano l’attesa. La porta del misero ufficio si aprì lentamente. Le mani della donna si torsero in un sussulto di emozione e un sorriso claudicante le inciampò tra le guance. Sulla soglia della porta, tra le braccia di una giovane suora, sonnecchiava quella che poteva ormai dirsi sua figlia. L’impiegato si distese in un sorriso meccanico e la suora lo imitò. Sua figlia. Una lacrima. Le avrebbe fatto fare un corso di nuoto. Un’altra lacrima.
Tre anni dopo, quell’impiegato dell’ufficio adozioni internazionali si comprò una televisione e, guardando un documentario sulla fauna ittica dell’Atlantico, si ricordò di quella donna bianca, che era venuta dall’Italia per adottare sua figlia. Ma subito abbandonò quel ricordo per concentrarsi sulla soddisfazione di possedere un apparecchio del genere. Una televisione era un lusso, per un burocrate di Addis Abeba.
Nonostante avesse ormai undici anni si ostinava a chiamarla bambina. Ogni notte, dopo che si era addormentata nel suo lettino, lei accendeva la luce e la contemplava. Neri riccioli incorniciavano il viso nero. E il labbro delicato celava denti splendenti, Dormiva raggomitolata e spesso scalciava il lenzuolo, scoprendo un corpo modellato dall’attività in piscina. Si era consacrata all’educazione della figlia. Quando la piccola aveva iniziato a gattonare, esercitò una strettissima sorveglianza sulla sua incolumità. Aveva preferito non iscriverla alla scuola materna, per il terrore che le maestre la trascurassero o si ferisse nei giochi vivaci dei bambini. Le aveva concesso la possibilità di incontrare le amiche solo in casa sua. Non le aveva mai permesso di fare niente senza la sua attenta supervisione. Nonostante avesse ormai undici anni si ostinava a chiamarla bambina.
Si sedette pesantemente sulla sedia davanti alla scrivania dell’insegnante. Sguinzagliò un sorriso ansioso ed elargì una stretta di mano sudata. Le pareti erano foderate da scuri e pannelli di legno, un crocifisso dolente svettava sulle loro teste, un imponente acquario riluceva azzurro alle spalle del professore. Gli occhi di lei indugiarono sull’acquario: una grossa carpa boccheggiava idiota. Celebrarono il rito dei convenevoli. Nel cortile esterno il freddo vento di novembre castigava gli alberi. Una statuetta della Vergine presenziava da un angolo della scrivania. La donna squadrò la giacca marrone del docente; uno dei pochi laici, in quell’istituto cattolico. Era un uomo giovanile e alto, sicuramente mostrarsi in costume non era un problema per lui. Iniziò con piglio serio: – Sua figlia è giunta a un punto importante del suo percorso scolastico. E nella sventura in cui è incappata, ha avuto la fortuna di avere me come insegnante. Mi scuso se sono così diretto, ma il lieve problema della sua bambina è stato trascurato per troppo tempo.
Problema? Non aveva sentito bene, probabilmente. Sì, non aveva sentito
bene. Sicuramente. Il grasso le stava intasando anche le orecchie, non afferrava bene il senso del discorso del professore. Doveva essere
così. Perché non sentiva l’elenco interminabile delle lodi della figlia? Era
terrorizzata. Problema? Di che parlava quell’uomo infilato in quella giacca
marrone? Sua figlia era perfetta.
– Stavo dicendo, signora, che ho riscontrato questa leggera forma di
dislessia dalla difficoltà della bambina nella comprensione e nella decodifica
di un testo scritto. Difficoltà dovuta a una certa fatica nell’associare
i grafemi fondamentali ai rispettivi fonemi. – Le aveva insegnato
a scrivere prima di tutte le altre. Come era possibile che confondeva i
grafemi? L’aveva sempre protetta. Non le aveva nemmeno consentito di
gattonare.
Tutte quelle lezioni estive, inanellate sotto l’ombra verde della veranda.
L’infarinatura di aritmetica e di geometria piana.
– Una mancanza che può essere facilmente sanata con sedute di logopedia.
Questo disturbo affligge sua figlia in forma lieve. – Sudava, disperata.
Il trucco abbondante si scioglieva. Piangeva lacrime colorate.
No, sua figlia era bravissima.
– Mi chiedo come il problema possa essere passato inosservato alle
elementari, ma questa è una malattia subdola. Può coglierla solo un occhio
allenato.
L’aveva sempre seguita, aiutata in ogni esercizio domestico. Pedinata
tra i calcoli matematici e le vocali. Dove le era sfuggita? Dove aveva contratto
quella subdola malattia?
– Questo suo problema mi ha impedito di metterle una sufficienza, in
italiano. Sufficienza che conseguirà sicuramente, dopo che le avremo affiancato
un’insegnante di sostegno.
Sufficienza? Il respiro esplose in un rantolo violento. La mia bambina
è la migliore. Non ha visto le sue gambe così magre? È la migliore
del corso di piscina. Ha dei denti bianchissimi. Perché il sostegno? I
compagni la escluderanno, la derideranno. Lei che è la migliore. Non le
serve niente, ci sono già io per lei. I compagni avrebbero deriso la figlia,
come lei stessa era stata derisa trent’anni prima. Poteva udire distintamente
gli echi di risate sprezzanti. Già la carpa sghignazzava,
nuotando nella sua acqua fetida. No, non sarebbe accaduto ancora. La
statuetta della Vergine roteò in aria e si abbatté sulla testa del professore.
Il sangue iniettato negli occhi, sollevò l’uomo per il bavero e appoggiò
l’orecchio al suo cuore. Era ancora vivo, ma era svenuto. Lo
trascinò fino all’acquario, lo scoperchiò e cacciò la testa dell’insegnante
nell’acqua. Lo tenne in quella posizione fino alla sua morte. Poi, con un colpo deciso, ribaltò l’acquario. La carpa viscida rimbalzò sul pavimento
fradicio, dimenando la coda isterica alla ricerca di acqua. Non rideva
più. Osservò il grosso pesce morire e guardò il suo orologio d’argento.
Tra mezz’ora sarebbe iniziato l’allenamento, in piscina.