Joey
Eva MunterEva Munter
Nasce a Trento il 29 giugno 1990 e vive a Roveré della Luna (TN). Frequenta il Liceo classico "G. Prati” di Trento e successivamente si iscrive a Chimica e Tecnologie Farmaceutiche a Bologna. Nel tempo libero ama dipingere, fotografare e ovviamente scrivere racconti.
IL RACCONTO
Sto guidando da tre ore ormai. Ho il cuore pesante, le palpebre ancor di
più. Dall’autoradio Neon Knights, dei Black Sabbath. Lei è sul sedile accanto
a me. Quando ha visto la macchina questa mattina, ha fatto una faccia un
po’ strana. È una bagnarola scassata, talmente vecchia che non ricordo neanche
il suo vero colore. Forse non è proprio la macchina con cui porteresti
in giro una ragazza come Joey. In ogni modo è salita, senza rivolgermi la parola.
Se ne sta incollata al finestrino a guardare le gocce di pioggia, il più
lontano possibile da me. La prenderei a sberle o la bacerei quando fa così.
Io continuo a guidare, alzando di tanto in tanto il volume, che lei
prontamente abbassa. Non c’è dialogo tra noi, solo quella lotta silenziosa
tramite la rotella nera del volume dell’autoradio. So già che vincerà lei,
quindi dopo un po’ rinuncio.
La vedo osservare le gocce di pioggia, le sbircia unirsi tra loro, separarsi,
spiaccicarsi e volare chissà dove. Mi chiedo a cosa stia pensando in questo
momento. Certe volte vorrei pensasse a me, ma non credo faccia parte dei nostri
accordi. Tra noi si è stabilito così: niente sentimenti, niente romanticismo,
niente possesso, amore nemmeno. Ha deciso tutto lei, a dire la verità.
«Finisci sempre per distruggere ciò che ami», mi ha detto una volta,
e non voleva distruggere anche me, ha continuato.
C’eravamo conosciuti per caso da Benny, il pub irlandese in periferia.
Io avevo qualche birra di troppo, nello stomaco e addosso, perché quell’idiota
di Christian Parrington mi aveva rovesciato la sua sulla camicia.
Tra le risate generali, stavo dando mostra delle mie doti canore. Sicuramente
ero buffo, per non dire patetico. Il problema di quando sei ubriaco
è che ti senti divertente, quasi l’eroe della situazione, non ti accorgi minimamente
che gli altri ti parlano solo per sentirti rispondere cose ridicole
e ridere di te. Io ci casco sempre, credo che stiano ridendo con me,
invece ridono di me. Se mi capita di bere un po’ troppo, mi trovo sempre
invischiato in qualche situazione imbarazzante.
Quella sera mi avevano
convinto ad avvicinarmi ad una ragazza, per chiederle non ricordo neanche
più cosa. Non pensate che basti un po’ d’alcool a farmi diventare uno
spaccone disinibito con le donne, anzi, appena mi sono trovato davanti
a lei, sono pure inciampato, rovesciandomi addosso il posacenere pieno,
che con la birra che avevo sulla camicia, ha creato un mix non troppo delizioso.
Lei era carina, lunghi capelli neri, con un giubbotto verde militare
un po’ troppo grande.
«Ciao...» È stata la cosa più sensata che mi è uscita dalla bocca, mentre
dietro di me gli altri si piegavano in due dalle risate.
Lo sguardo di lei diceva: «Oddio, chi è questo deficiente ubriaco?»
Forse ha pensato che fossi uno di quei seccatori che passano le serate
al bar a importunare le ragazze. Non so perché, ma con quel giubbotto mi
ha fatto venire in mente l’aviatore del Piccolo Principe, me la immaginavo,
persa nel deserto a cercare di riparare il suo aereo.
«Disegnami una pecora..», dico in un motto di follia, imitando il personaggio
di quello che era stato il mio libro preferito da bambino. Lei
non ha detto niente, però evidentemente ha capito tutto, perché ha preso
una penna dalla borsetta e si è messa a scarabocchiare qualcosa su un tovagliolo,
che ha lasciato sul tavolo prima di pagare e uscire dal bar.
Gli altri dietro non ridevano più e io sono rimasto lì in piedi, tutto
confuso a guardare una pecora con sotto scritto "Joey”. Non le ho mai
chiesto cosa ci stesse facendo da Benny quella sera, non credo faccia
parte dei nostri patti conoscere il passato dell’altro.
Ora siamo qui e le macchine ci sfrecciano accanto, con code di pioggia
che sembrano stelle comete.
Questa mattina Joey è arrivata da me, la sua tracolla di cuoio con
dentro qualche vestito e il suo basco viola in testa. Voleva andarsene, ma
era senza un soldo, quindi veniva a chiedermi un passaggio fino al porto.
Forse le sono sembrato perplesso, perché si è affrettata a dire:
«Te li ridò i tuoi soldi, appena mi sono sistemata, promesso...»
A me non interessavano quegli stupidi soldi, non volevo che se ne andasse
chissà dove senza di me, ecco tutto. La conoscevo troppo bene, se
non le avessi dato quel passaggio a quel dannato porto, ci sarebbe arrivata
in autostop. E con tutti i tipacci che girano ai giorni d’oggi, la cosa
non mi andava per niente. Era triste, ma sarei stato io stesso ad aiutarla
ad andarsene da me.
Ed ora, eccoci al mare. Uno sente la parola "mare” e si fa grandi illusioni,
crede di arrivare e trovarsi le palme, la sabbia. Magari dei bambini,
che corrono sulla spiaggia con gli aquiloni colorati e con un cappellino
in testa per non prendersi un’insolazione. Intorno, castelli di sabbia. Tutte
balle. Quello è il mare che vedi sulle riviste patinate di un’agenzia viaggi.
Questo che ci viene schiaffato davanti è una specie di grande goccia di
mercurio, grigia e sporca, dove qualche barchetta vuole galleggiare solo
perché l’acqua sotto è ancora peggio. Un cimitero per i sogni che non si
è mai avuto il coraggio di realizzare. Mi sento come se alghe verdi mi
strisciassero dentro, avvinghiandosi al mio cuore triste.
Joey scende dalla macchina e fa un paio di passi, s’invischia nella
nebbia, perché è più coraggiosa di me. Mi sento talmente perso, che non
so se sto fuggendo un po’ anch’io. Lei cammina in quel vapore appiccicoso,
si stringe nel viola del suo cappotto e mi guarda. Siamo in un mare
di latte che non ha inizio né fine. Lei inizia a prendere a calci le lattine
vuote che trova per terra, le allinea sul molo, poi le spinge in acqua una
ad una. Io intanto guardo quello schifo di olio di motore che galleggia un
po’ ovunque, con riflessi verdi e ametista. Joey si siede, una gamba piegata,
una penzoloni su quell’abisso e vorrei dirle di non farlo, che per
terra ci sono solo porcherie e magari qualche vetro. Invece mi ci siedo
pure io su quel cemento gelido. Si accende una sigaretta, ma so già che
non la fumerà, perché fa male, dice, a lei piace solo guardarla mentre si
consuma, riesce a scrivere poesie sulla cenere che cade a terra.
Questa
volta mi sbaglio. Fuma davvero, aspira bene il tabacco, l’ossigeno non fa
per lei oggi, sente di non meritare altro che nicotina. Poi, lascia il mozzicone
ancora fumante accanto a sé e non posso fare a meno di notare che
c’è rimasto sopra un po’ di rossetto. La cosa mi disturba, perché se qualcuno
molto triste, un giorno di questi dovesse passare e trovare quel mozzicone
con quel segno delle sue labbra, ho paura che possa innamorarsi
di lei. Così lo spingo in mare e lo osservo galleggiare per un po’, poi inzupparsi
d’acqua e lasciarsi vincere piano.
Intanto lei guarda lontano, o
forse vicino, perché non riesco mai a capire cosa guardi veramente.
«C’è un’ora» dice all’improvviso, «in cui la luce del sole è tale, che
non vedi più la linea dell’orizzonte...» Poi sospira: «...Capisci? Non c’è
più il confine tra il cielo e il mare».
Poi cominciano a cadere goccioloni di pioggia che rigano tutto, come
tante ferite o come le sbarre di una prigione. Dietro di noi ci sono persone
che si salutano, si abbracciano, si promettono di vedersi presto. Lei
no, niente di tutto questo. Mi dice solo di andarmene subito.
Forse non
vuole che la veda piangere. L’ultima cosa che sento è il suo profumo, che
è il profumo che avrebbe il sole, se la gente potesse sentirlo. Poco dopo
annunciano che la sua nave partirà tra dieci minuti. È stato un addio
strano. Me ne vado senza dire una parola. Lascio 80 centesimi per fare una
pisciata nel cesso più desolato e squallido che abbia mai visto.
Tutto ha
un prezzo a questo mondo, perfino svuotare la vescica. Devo fare qualcosa,
qualsiasi cosa per non pensare a lei. Faccio un giro per quello stupido porto, mentre una nave parte.
Meglio che non sappia neanche dove
è diretta, o potrei fare qualche pazzia, tipo seguirla.
Ho lasciato affondare
le mie scarpe in quella sabbia bagnata per mezz’ora e ho trovato solo
immondizie e bottiglie di vetro, tutte senza messaggio dentro.
Ritornato in macchina, ci trovo l’autoradio accesa e lei che si sistema,
come se niente fosse. Vi giuro, sta proprio lì, seduta con uno specchietto
rotondo in una mano e il rossetto nell’altra.
Direi che è una delle mie solite allucinazioni, ma quelle di solito non
sono così belle.
«Quanto ci hai messo?» fa lei e anche se non lo ammetterebbe mai,
sta sorridendo, è proprio un sorriso quello.
«Ero alla spiaggia» rispondo io, «sai, a controllare che non ci fosse
qualche richiesta di aiuto in una bottiglia abbandonata...»
Poi mi siedo accanto a lei «Allora Joey, dove vuoi andare?»
In un angolo di cielo si può vedere uno, uno solo, un dannatissimo
raggio di sole. Ma mi basta per sentirmi bene dentro. Piove e c’è il sole.
È strano, è una di quelle cose che superano tutti i confini della logica.
«Torniamo a casa...»
Dice proprio «torniamo» e mi basta quel "noi” a farmi sentire il cuore
più leggero.
Ci mettiamo a cantare come ragazzini esaltati, o forse semplicemente
come due che sono contenti della vita.
"When I’m sad, she comes to me With a thousand smiles, she gives to me free It’s alright she says it’s alright Take anything you want from me, anything…”