Madri di frontiera
Carmen ValentinottiCarmen Valentinotti
Sono nata a Caldes (TN) in Val di Sole, nel 1958. Vivo a Trento dove insegno lavoro manuale ai bambini della scuola Rudolf Steiner. Amo molto il mio lavoro e da sempre mi piace anche scrivere, le storie che mi invento o quelle che mi propone la vita. Per i bambini ho scritto fiabe, filastrocche e piccole recite, qualche racconto per Natale, un libro di geografia e la storia di un bambino di nome Otto. I miei due figli e i molti scolaretti che mi hanno ascoltato raccontare, sono stati il mio pubblico, il mio riconoscimento e perché no, anche la mia ispirazione.
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
Una vicenda, come tante, di "guerra, vergogna e passione", si trasforma in un bell'elogio della vita e dell'amore, che non conoscono frontiere e riservano sorprese. Tutto comincia con una vecchia lettera da cui affiora, improvvisa, una verità taciuta per tanti anni: la narratrice scopre d'essere figlia di un tedesco incontrato dalla madre in tempo di guerra. Ma dal passato riemerge anche un fratello, o fratellastro, anche lui figlio di quel tedesco dagli occhi così chiari, dalle mani così delicate.
IL RACCONTO
Mi resi subito conto che quella lettera era molto importante, ma ancora non sapevo quanto. Riconobbi la calligrafia di mia madre, si vedeva però che aveva scritto animata da una forte emozione perché aveva trascurato la sua ossessiva e malinconica precisione. Inoltre doveva avere una penna scadente, forse una vecchia asticciola col pennino spuntato, perché qua e là c’erano anche piccoli, nervosi spruzzi di inchiostro.
“Ti chiedo perdono, anche se la mia colpa è molto grave. Qui a casa mi tormentano tutti; le mie sorelle non fanno che urlare, la mia povera mamma piange di nascosto ed io sono quasi contenta che mio padre riposi quieto al camposanto e non sia qui, in mezzo a questa disperazione...”
A mio padre, la lettera era indirizzata a mio padre e la data rivelava che era stata scritta l’anno prima che io nascessi, qualche mese prima… “Senti senti,” pensai sorridendo di complice e femmina malizia… “Vuoi vedere che la mamma ha alzato le sottane prima di ricevere il permesso dal prete...”
“Mio fratello è stato molto duro con me e mi ha chiamata con nomi che non posso nemmeno scrivere. Ma lo capisco, si vergogna, non sa come fare. Oramai i vestiti mi stanno troppo stretti e le vecchie comari che ancora non lo sanno, indovineranno presto il mio peccato mortale... Io dormo poco, male e tutti i miei pensieri sono neri...”
Mamma perdio! Ma c’ero io, perché tutto questo dolore, questa vergogna!
Che ci voleva a rimediare? Non potevate farlo un po’ prima?
Prima che ti crescesse la pancia voglio dire?
La lettera mi trema tra le dita e freme dal desiderio di rivelarmi
tutto...
Del tedesco non si è saputo più niente. Io non l’ho più visto. Sarà tornato
in Austria o non so dove; qualcuno dice che è morto ma io non ne so
più niente. Adesso mi sembra tutto un sogno, ma la creatura che batte le
sue ali sotto al mio stomaco mi ricorda invece che è tutto vero. Mi hanno
anche detto che non sono l’unica ad essere in questa situazione. La Iole è
incinta di sette mesi. Anche lei dice che è stato il tedesco.
Non so come farò adesso, non so come ho fatto a credergli, non so
cosa mi sia capitato; però voglio almeno chiederti perdono e poi sarà quel
che Dio vuole.
Con tanta pena
Celestina
Ora la lettera non trema più, ma le mie gambe sì. Respiro a fondo e
cerco una spiegazione, cerco di fare ordine. Mi rigiro il foglio tra le
mani, guardo di nuovo la data: non c’è dubbio mia madre era incinta,
aspettava me. Cerco ancora… Caro Luigi, scrive, sì, caro Luigi, proprio
mio padre...
Il tedesco... quale tedesco?
Non so perché ma mi viene da piangere, non riesco ad impedirmelo.
In un solo momento afferro tutto il senso di questa lettera e, come
fosse il lembo di una tovaglia con sopra stoviglie preziose, tiro con
forza, perché tutto cada e vada in mille pezzi.
Sento nel cuore il fragore sordo di questo disastro e ripenso alla
guerra. Sono nata in tempo di guerra: non ne ho memoria ma ora mi
pare di essere in prima linea. Il tedesco… del tedesco non si sa più
nulla… la Iole è incinta di sette mesi, anche lei dice che è stato il tedesco…
Anche lei? Allora anche tu mamma? Anche tu? All’improvviso
appare la verità, come una macchia di vino sulla tovaglia si allarga e dà
a tutto il colore del sangue...
Il tedesco è mio padre...
Di lui non si sa più nulla.
Da quel momento in poi divento impaziente, ossessiva, comincio a
tormentare a mia madre e, senza curarmi della sua fatica, delle sue
occhiaie e della sua età, le strappo i frammenti di verità che mi servono
come fossero cerotti sopra le sue ferite.
Lei, rassegnata, racconta e non so perché comincia dalla sua capra…
tante volte me ne ha parlato… quella capra che l’aveva fatta finire in
ospedale con un attacco di appendicite… mi pare di vederle…
Capre! Tutte e due; l’una per intero e l’altra solo a metà, come creatura
mitologica inedita e ancora priva di leggende. L’una giovane animale
bisbetico e disobbediente, l’altra ragazza, con le gambe sode e i polpacci
da contadina, il cuore timorato di Dio ma la primavera del sangue
e del mondo a formicolarle nelle vene...
A grandi balzi la bestia discende il pascolo; con gli occhi da diavolo
e il pelo rovistato dal vento, salta come imbizzarrita, scalcia felice per
venerare il caldo di maggio. Libera, sa d’esser libera perché il pascolo è
immenso, ripido e odoroso e la ragazza troppo giovane.
“Betta bestiaccia, fermati! Vuoi che mi ammazzi per riacchiapparti!”
Betta, diminutivo di Barbetta, il nome della capra, Celestina, diminutivo
delle sue origine divine, quello della mia giovane madre. Lei
agita il bastone nell’aria e le calze le si sono ammucchiate alle caviglie,
la treccia lunga e scura sembra una coda. Fa salti da capra e vorrebbe
tirar calci al vento ma non le riesce perciò onora la primavera col rosso
delle guance e col sudore che le imperla la fronte.
Alla sera la capra stordita dalla cavalcata selvaggia rumina con gli
occhi chiusi un fieno secco ma pieno di memorie odorose. La barbetta in
movimento, il respiro infine quieto.
La ragazza invece non riesce a prender sonno; un dolore forte e pulsante
la tormenta dall’inguine in poi, giù lungo tutta la coscia. Si affanna
a cercare un modo, una posizione, ma questa lama pungente si fa sempre
più acuta; la corsa sfacciata di oggi ha sconfitto Celestina. La capra invece
dorme inconsapevole e lieta sui suoi sogni di fieno e profumi.
“Ma perché mi parli della tua capra mamma, perché adesso...”
“Ascolta, ascolta... “
Ascolto. Questo parlar di capre le deve essere di aiuto ed io seguo le
sue parole come fossero tracce.
Passa il dolore, il tempo rincorre se stesso e le stagioni ritornano,
diverse e sempre uguali a dar sicurezza a chi non ne ha altre.
Marzo porta con sé promesse e bisbigli, muove le anime, le une verso
le altre e agita i corpi di fremiti evidenti.
Da dietro le quinte della guerra compare il tedesco.
Celestina incontra uno sguardo straniero ma azzurro come il suo
nome, indiavolato come quello della Betta. Il richiamo che sente è quello
del fieno, dell’erba, dell’odore di freddo appena passato. Non ricorda
parole o comandamenti ma percepisce il pelo che freme, il sangue che
sfrigola, e sembra impazzito. Non vuole discorsi ma pelle, contatto e
calore, saliva, sospiri… Dapprima si oppone e prega in silenzio perché
ancora non ha sentito parole e promesse, prega forte e si stringe la
mani sul cuore ma il tedesco la chiama, sfacciato e insolente. Mentre
l’Ave Maria vola dritta nei cieli, mia madre si avvia all’incontro segreto e
consuma il suo frutto tra il trifoglio seccato mordendosi un labbro per
non farsi sentire.
Il tempo che segue la cerimonia del fieno le ferma il sangue nel
corpo e a momenti anche il cuore. La vita segreta si rivela ben presto e
lo spavento le chiude la gola, le affanna il respiro. Nella stalla, nascosta
nella paglia pungente, guarda la Betta e le dice con rabbia: “Come faccio,
come faccio?”
La bestia le risponde con quegli occhi insolenti: “Aspetta il tuo tempo,
lascia crescere quel che deve crescere finché sarà altro...
Celestina non capisce e piange.
Poi viene il momento della capra. Il suo incontro non ha bisogno di
sospiri e non porta con sé un corteo di lacrime e paura, la fa diventare
regina: darà latte, carne, formaggio!
Betta rumina e trasforma il fieno in latte. Celestina piange e diventa
grossa, evidente, vergognosa.
L’una è festa, l’altra disgrazia.
Il tempo le accoglie entrambe e le porta fino alla soglia delle nuove
vite.
Le contrazioni dell’una si annunciano con un grido di sorpresa e di
spavento; quelle dell’altra con un belato solo un po’ più lungo, più fastidioso.
Celestina si piega in due e si volta per vedere chi le ha colpito la
schiena con così tanta violenza… trova gli occhi di sua madre che
molte volte ha varcato il confine di quel dolore… Un dolore che una
volta cominciato non torna indietro, si moltiplica forsennato e toglie il
respiro, galoppa, scalcia come facevano la pastora e la capra sui pascoli
a maggio.
La madre prepara un giaciglio e consola, accarezza, racconta, dimentica
la vergogna, ma poi sente arrivare dalla stalla il richiamo della
bestia: “Poveretta!” dice a se stessa o forse di se stessa.
Fa sdraiare la figlia e poi va dalla capra. Le tocca il pelo ruvido e le
dice : “Ti ricordi come si fa?”
Lei non capisce, sbuffa e abbassa la testa.
L’antico, consueto mistero della vita che irrompe si annuncia nella
stalla e nella casa. A celebrare il rito una sola donna, Madre, levatrice,
pastora, esperta in dolori, figli e capre.
Accarezza la bestia e poi corre a consolare la figlia, la spoglia e la
lava, aspetta con lei l’onda che verrà, tutte le maree che verranno.
La prima a trionfare è la bestia: due capretti tutt’ossa, tremolanti e
bagnati. La Betta è stremata ma sa cosa fare. Celestina invece grida e si
vuole sottrarre ma la madre le dice: “Oramai è finita!”
Finito il dolore, cominciata una vita, una femmina.
Una bambina, due capretti.
Sì mamma, ho capito, così sono nata io. Era ancora tempo di guerra
anche se le stagioni sembravano far finta di nulla; così sono nata io,
una vergogna, perché mia madre non aveva marito, una disgrazia perché
mio padre era un tedesco, una tragedia perché di lui non si sapeva più
nulla.
I tedeschi erano diventati nemici, c’era scritto persino sul giornale.
Non si poteva dar loro alloggio, cibo, aiuto di nessun tipo nel 1945, ma
mia madre quella volta, disobbedì alla legge, al prete e al paese…. Si
perse negli occhi di quel nemico e lo lasciò dire, lo lasciò fare. Il vento
di marzo aveva cancellato ogni frontiera tra peccato e pudore, erano
come evaporati i confini, scaldati dalle parole mal pronunciate ma lusinghiere…
“Sei bella Celestina, sei bella…” Doveva essere vero, un diavolo
non potev
Il latte della Betta sarà bastato per tutti e tre? I suoi capretti ed io?
Diventano profondi e dolorosi come ferite i confini, le frontiere
quando la guerra divide i paesi, ma le passioni hanno ali robuste, volano
sopra a tutto; nei fienili gli uomini, le donne si incontrano e poi… la
guerra finisce, le ferite si chiudono… del tedesco non si sa più niente.
Io non ne sapevo niente! Ora però so della Betta che partorì proprio
quando venne il tempo di mia madre...
Ed ecco che d’un tratto, mentre sono del tutto sprofondata nello
struggente sentimento di non sapere di chi sono figlia, un pensiero mi
sorprende e mi scuote… “La Iole... anche lei dice che è stato il tedesco...”
Allora quel diavolo ha seminato anche nel suo giardino… ho una
sorella, o forse un fratello, o saranno tutti morti, chissà dove sono finiti…
Chi sarà questa Iole? Devo sapere.
Ricomincio a tormentare mia madre; lei accetta le mie domande come un
castigo per la sua colpa. Sono passati così tanti anni, persino la memoria
aveva smesso di sbirciare nella zona tormentata e pericolosa del tedesco...
Non giudico mia madre, non mi sfiora l’idea di peccato. Qualcosa di
inspiegabile respira nel mio sangue, urgenza di sapere, solo di sapere.
Nelle sue confessioni riconosco come Pollicino i sassolini che mi portano
diritti dalla Iole... Anche lei dice che è stato il tedesco... ma di lei
trovo solo il ricordo. Se n’è andata, portando con sé i suoi segreti.
Come un’aquila volo intorno a tutto quello che riesco a sapere di lei
finché raggiungo il nome del suo primogenito e la sua data di nascita... lei è incinta di sette mesi...
Marco: Marco ha due mesi più di me.
Di fronte a quel nome ritorno bambina, le gambe tremolanti come i
figli della Betta, vorrei solo scappare via, tirarmi su i calzettoni e
nascondermi in un tempo dove si salta alla corda e si fanno dispetti alle
galline dei vicini...
Quel nome però, mi chiama come il futuro, anche se io per il momento
sento solo l’odore dolciastro e faticoso del passato. A forza di
pensare finisco il coraggio. Il desiderio si fa paura, le assenze all’improvviso
non contano più. Mi rifugio nella mia solita vita e percorro le mie
giornate come se Marco non esistesse.
Come se.
In questo carosello di guerre, ricordi, nemici e capre è entrato adesso
anche il Destino; come un maestro tessitore lavora sul suo vecchio ordito,
rende visibile la trama, consegna i suoi messaggi, i fili si intrecciano;
adesso anche Marco sa del tedesco… sa di me, conosce il mio nome.
Sta percorrendo il mio stesso sentiero, lastricato di stupore, sorpresa,
senso di vuoto, persino paura; pensieri inediti e pieni di volontà, i suoi
sassolini di Pollicino.
Quando squilla il mio telefono è già quasi Natale e ricevo così il mio
regalo, il miracolo irrompe sfacciato nel silenzio di casa mia.
“Sono Marco, sei Anna?”
“Sì, sono io.”
“Siamo fratelli … vorrei che ci incontrassimo...”
Ecco. Era questo che bisognava dire, solo questo. Lui l’ha fatto e le
sue parole come un magico apriti sesamo hanno schiuso un capitolo
nuovo nelle nostre vite. Per noi è arrivato il tempo di scoprire che
abbiamo lo stesso naso e, guarda… anche le mani… e tutta una vita da
raccontarci. È arrivato il tempo di dare ad una storia di guerra, vergogna
e passione un epilogo di incontri, emozioni, pienezza.
Ecco. Come dai confini possono nascere le guerre, dal loro superamento,
con orgoglio, si può invece affermare la vita con i suoi consueti
bagliori d’arcobaleno… Da dietro le quinte del suo imprevedibile palcoscenico
è comparso per me un fratello, una possibilità di compensare
con inaspettata familiarità tutti gli atti di dolore recitati dalle nostre
spaventate madri di frontiera.