La Nani del Col delle Benne
Rudy BofRudy Bof
Il racconto è stato scritto collettivamente dai ragazzi della classe seconda B, Corso Acconciatore del Centro di Formazione Professionale Opera Armida Barelli di Levico Terme (Tn). Per la stesura sono stati utilizzati i dati inediti della protagonista e la testimonianza di suoi due nipoti. Rudy Bof è il capoclasse.
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
Un “dolore trasformato in memoria viva”. La Nani dall’alto del Colle tra i monti del Trentino ricorda il marito morto in Galizia, durante la prima guerra mondiale. E nel suo racconto, carico di un amore che non passa, scorrono accadimenti grandi (l’Arciduca assassinato a Sarajevo) e piccoli (andare per boschi a cercare funghi e lamponi). La parabola di una vita segnata da una forte spiritualità, trova un felice approdo narrativo, autenticamente popolare.
IL RACCONTO
Mi piace, a quest’ora del tardo pomeriggio, starmene seduta qui, tranquilla,
sul muretto dell’orto, a godermi l’ultimo sole che si prepara a tramontare,
là dietro la Vigolana. Ormai i suoi raggi hanno perso la forza violenta
del mezzogiorno, quando il colle sembra una fornace e mi baciano
con dolcezza la pelle rugosa del volto e delle mani, avvolgendo il mio
corpo di donna anziana in un tepore placido. Adesso, ad accarezzarmi i
capelli ormai incanutiti, ben stretti sulla nuca con le forcine di osso, sale
dal lago un venticello leggero, così diverso dal vento gelido e rabbioso che
spazzava le campagne quand’ero profuga in Moravia. Da oltre i boschi che
si stendono ad est del colle, sento in lontananza le campane della mia
chiesa di Levico suonare l’Avemaria. Allora, come facevo con la mamma
nella nostra casa di via delle Fosse, recito ad alta voce quella preghiera,
mettendo la mia vita, che ormai sta arrivando al termine, nelle mani del
Signore. Quanta fiducia aveva mamma Maria nella sua Provvidenza! La mia
famiglia non possedeva campagna e a volte per pranzo non c’era niente da
mettere in tavola: allora la mamma, che faceva la sarta, apriva la finestra,
aspettando che arrivasse un suo cliente con qualche chilo di farina gialla o
di fagioli, con un sacco di patate o un cestello di uova per saldare il proprio
debito. E questo accadeva davvero!
Adesso i miei occhi, ancora vispi e curiosi, sono spalancati sulla natura
che mi circonda e mi riempie, come sempre quando la guardo, di grato
stupore, cosicché mi sorprendo ad esclamare: com’è bello il mondo e com’è
grande Dio! Di fronte a me, di là dalla piana bagnata dal Brenta e tutta
ricoperta da campi di patate o di granoturco, intravedo l’orlo dell’altopiano
da cui si dice provenisse la famiglia di mio marito, Momi (Girolamo )
Mosele, i cui membri sono detti ancor oggi i «Vezzena». E il cognome indica
certo un casato di “roncadori”, arrivati chissà quando qui sul Colle delle
Benne, per dissodare e bonificare, strappando al bosco di quercioli ed acacie
il terreno su cui costruire il modesto maso nel quale ancora abito.
Il mio Momi mi ha portata qui subito dopo il matrimonio, in un giorno
come questo, il 17 settembre del 1904. Eravamo giovani – entrambi della
classe 1882 – innamorati e ben decisi – come ci era stato raccomandato
dal nostro buon arciprete – a comportarci da bravi coniugi, tirando uniti
sotto il medesimo giogo il carro della nostra vita su tutte le strade che
avremmo dovuto percorrere. Ancora non sapevamo se queste sarebbero
state impervie, come il viottolo che, partendo dal nostro colle, attraverso
San Biagio porta a Levico o se la Provvidenza ci avrebbe consentito di
imboccare una strada più comoda, come quella che da qui scende a Visintainer
e a Pergine. Una volta, questa strada era sempre ben curata, perché
serviva per approvvigionare il forte che sorge alle mie spalle. Basta salire
in cima all’orto per vederlo, ancora quasi intatto nella sua pianta poligonale,
anche se ormai spogliato delle strutture in ferro. L’avevano costruito
pochi anni prima che io nascessi, insieme a quello di Tenna, che indovino
là sulla collina che mi sta di fronte, oltre il lago, per chiudere a tenaglia
la Valsugana e sbarrare la strada verso Trento. Noi abitanti del maso
Mosele, con i soldati del forte avevamo rapporti di buon vicinato. Una
sorella di mio marito s’era anche innamorata di un ufficiale austriaco e,
nonostante l’opposizione di mio suocero, finì con lo sposarlo andandosene
con lui in Austria. D’altronde, eravamo tutti sudditi fedeli del nostro
buon sovrano, l’imperatore Francesco Giuseppe, che ci governava in modo
severo, ma giusto. Certo, non bisognava finire sul registro del sergente
Scheibenflucht, capo della gendarmeria a Levico, come di sicuro vi erano
finite quelle poche persone “lezue” che, con la margherita all’occhiello, si
ritrovavano nella farmacia del dottor Giovanni Amort, tutte iscritte alla
Lega Nazionale, che avrebbe voluto annettere il Trentino all’Italia. Ma
secondo il mio Momi il Regno d’Italia era governato da massoni che non
costruivano scuole per i figli dei poveri e che caricavano di troppe tasse i
miseri contadini.
Povero Momi, com’era contento quella domenica del 28 giugno 1914!
Era la vigilia di San Pietro e noi, con i nostri figli Carlo e Pierotto, eravamo
stati in Centa, passando una giornata felice e in buona compagnia. Nel
ritorno mi appoggiavo al suo saldo braccio, dicendogli che veramente non
avevamo croci pesanti, i nostri ora ci parlavano volentieri, noi sani e sempre
ci amavamo e rispettavamo a vicenda, i bimbi sani e svelti, la campagna
prometteva buona raccolta. Ma non è detto invano che chi fa i conti
senza l’oste li fa due volte. Difatti, appena giunti alla casa dei miei genitori
apprendemmo che gli Arciduchi erano stati assassinati a Sarajevo. Il
concerto che era in programma allo Stabilimento vecchio venne sospeso e
tutti a Levico parlavano di questo orrendo delitto. Nel rientrare qui sul
colle, Momi diceva che questa tragedia sarebbe stata un incominciamento
di guerra, e purtroppo aveva ragione. Il 27 luglio si sentivano a Levico
spari di mortaretti, i forestieri che lanciavano urrà e gli italiani che gridavano
viva l’Italia e l’Austria alleate per combattere la cattiveria serba. Il 5
agosto si legge nelle contrade l’annuncio fatale che tutti quelli sopra i
vent’anni e sotto i quarantadue devono presentarsi all’armata. Quale dolore
provai è più facile immaginarselo che descriverlo. Ricordo che piansi
tanto, di nascosto da mio marito, e in sua presenza cercai di essere forte
ed infondere almeno a lui un po’ di rassegnazione. Povero Momi, come
avrebbe fatto a stare lontano dai suoi cari, lui che godeva così tanto della
pace familiare e trovava conforto in tutto quanto era in seno alla sua
famigliola! La mattina del giorno dopo andammo insieme a confessarci e
comunicarci, l’uno per avere benedizione e l’altra per consegnare il suo
sposo a Dio e pregarlo che glielo restituisse. Salutammo in fretta i miei
fratelli che partivano anch’essi per la guerra, indi tornammo al colle.
Durante la colazione Momi era felice nel vedermi così coraggiosa. Poi gli
preparai il necessario per prendersi dietro, ma lui non voleva niente, nemmeno
per cambiarsi, perché sperava in un presto ritorno. Alle 7 lui parte
per Pergine, indi per Bressanone. Fui forte, non volli piangere in sua presenza,
ma Iddio solo può avermi concesso tale grazia. Nei giorni successivi
ricevetti da lui le prime cartoline, poi una bella lettera, il giorno di San
Rocco una cartolina dal cui timbro conobbi che era partito per la Galizia.
Poi le lettere cessarono, allora ne mandai una io per dare nostre notizie,
ma dopo due mesi mi venne restituita. E poi niente, sempre niente! Ed io
avanti col duro legno della croce che Dio mi affidò. Dovevo pensare al suocero
anziano, ai figli piccoli e a quello che cresceva dentro di me. Grazie
alla conoscenza del tedesco, che avevo imparato quando da ragazza ero
stata in Austria come domestica, andai a parlare agli ufficiali del forte
offrendomi di lavare i panni dei soldati. Per farlo, dovevo scendere verso il
maso dei Lazzaretti, mezzo chilometro più ad est, dove c’era una fonte,
perché in casa non avevamo né acqua né elettricità. Ma poi arrivò l'inverno ed anche quel piccolo ruscello, come il mio cuore, si coprì di ghiaccio.
Intanto, il 2 dicembre nasceva il mio ultimo bambino, che venne battezzato
due giorni dopo con il nome di Tullio. Ne avevo avuti otto, ma due
gemelli mi erano morti prima di arrivare all’anno, a breve distanza l’uno
dall’altro. Il 19 marzo del ’15, quando già la primavera ricopriva di tenere
foglioline tutto il colle, la piccola Elda, sana e tanto coccola, s’ammalò e il
6 aprile era già cadavere! Povera piccina, le dissi baciando la sua fronte
ormai fredda, prega almeno per il papà tuo, che il Signore lo restituisca
sano e salvo alla sua sposa e ai suoi figli. E così la mia croce si appesantiva,
assomigliando sempre più a quella che ora hanno collocato là in alto,
sulla cima del forte Pizzo. Lo stavano ultimando proprio in quei mesi perché
controllasse, come un occhio gigantesco, sia la zona degli altipiani sia
l’Alta Valsugana sulla quale si affaccia arditamente da un torreggiante precipizio.
Allora la sua vista, che adesso m’è diventata familiare, m’inquietava,
come m’inquietava tutta l’attività febbrile che si scorgeva attorno ai
forti. Anche qui al forte delle Benne rinforzavano i reticolati conficcati nel
terreno, ripulivano il bosco, tagliavano bacchette di nocciolo per farne
fascioni di contenimento. Dappertutto installavano reticolati e, per unire i
forti tra loro, scavavano trincee. Una di queste scendeva dal colle di Tenna
fino al lago qua sotto, ch’era stato sbarrato da un cavo d’acciaio, quindi
risaliva i vignali arrampicandosi poi su per la Canzana fino al Selvot.
Anche verso la Panarotta c’era un’attività continua di trasporti per fortificare
quella vetta, come pure verso l’altra, più lontana, del Fravort. Sempre
più spesso si parlava di guerra all’Italia, però io non volevo crederci, mi
sembrava impossibile che l’Italia fosse così traditrice. Ma la sera del 23
maggio le mie illusioni caddero; eravamo in chiesa per la funzione in
onore della Madonna quando vediamo il capo gendarme entrare di corsa in
sacrestia e parlare con il nostro arciprete, il quale subito dopo c’informò
ch’era stata dichiarata la guerra contro l’Italia. Quella notte non ho chiuso
occhio, anche se non si sentì nessuno sparo, come neanche nel giorno
seguente. Ma alle tre e mezzo del 24 maggio fummo tutti sbalzati dal letto
dal fragore delle bombe che dal forte Verena venivano tirate verso il forte
Pizzo e che, sbagliando bersaglio, cadevano là oltre il Brenta, tra la stazione
ferroviaria e la frazione di Santa Giuliana. Nei giorni seguenti a maso
Mosele arrivò l’ordine di partire subito. Ma con quale cuore potevo lasciare
il mio caro colle, io che amavo tanto la nostra bianca casetta in mezzo al
verde primaverile, il bell’orticello, la campagna che prometteva così bene!
Eppure dovetti dire addio alle dolci memorie, ai giorni felici passati insieme
al mio caro Momi. Ma non bastava partire, mi dissero pure che la casa
nostra doveva essere minata perché poteva rappresentare un punto di riferimento
per il nemico. Con l’aiuto di mia sorella Amelia preparai allora un
po’ di cose, ma così in fretta come quando si scappa dal fuoco. Infine si
partì, con i bimbi e la capretta, mentre la mucca era già stata mandata
avanti. Piovigginava e noi sembravamo il ritratto della disperazione. Giungemmo
a Pergine che era già notte e fummo accolti con carità dai signori
Andreatta che ci ospitarono anche nei giorni seguenti. Il paese era pieno
di poveri fuggiaschi che dovevano partire a causa della guerra. Verso la
filanda c’era un’immensità di mucche, asini, pecore, cavalli, buoi che venivano
comprati a prezzi da fame dai contadini della zona o requisiti dai
militari. Il giorno di Corpus Domini mi sento chiamare dalla strada, mi
affaccio alla finestra e vedo un quadro straziante! Un carretto, con sopra
delle valigie e un letto con un povero ammalato. Chi lo tirava erano povere
ragazze tutte accalorate ed una vecchietta: la mia mamma e le mie sorelle e sopra il mio papà preso dall’ospedale la sera precedente. Mi dissero
che a Levico un gendarme era passato di casa in casa ingiungendo di
partire entro 24 ore, portando con sé lo stretto necessario, massimo dieci
chili di peso, perché la guerra si sarebbe conclusa in tre, quattro settimane,
il tempo di far piegare la schiena all’Italia. Chi rimaneva in paese
senza permesso rischiava la fucilazione. Partirono che già da dietro il Pizzo
si sentivano le cannonate, mentre in paese arrivavano i militari, con i carri
e i cavalli. Lungo la strada per Pergine era una fiumana dolorosa di persone,
ciascuna con la sua gerla sulle spalle e in mano a volte un cesto, o un
paiolo, pieno di farina o di formaggio. Io fui contenta di potermi riunire ai
familiari e il giorno dopo, venerdì 4 giugno, incominciammo insieme il
viaggio dell’esilio. Partimmo all’una e mezzo dalla stazione di Pergine, su
un treno merci puzzolente, buio, freddo, stracarico di profughi, senza
avere la possibilità di sederci se non sui nostri fagotti. Alle sei di sera si
arrivò a Bolzano, dove ci diedero una minestra saporita. Il giorno dopo,
alla stazione di Innsbruck ci offrirono del tè, bevanda che pochi di noi
conoscevano. Finalmente il sabato sera smontammo a Salisburgo per dormire
nelle baracche. In questa stazione arrivavano tutti i treni merci provenienti
dal Sudtirolo e qui i profughi erano smistati. Noi proseguimmo
per la Moravia, dove il treno cominciò a scaricarci nelle varie stazioni; a
me toccò quella di Olomuc. Ancora adesso, quando laggiù nella piana che
da Levico si allarga verso Caldonazzo vedo passare le grosse locomotive
che fischiano allegre e lanciano nel cielo il loro pennacchio di vapore, la
gioia dello spettacolo mi è in parte rovinata dal ricordo di quel drammatico
viaggio, in quel treno traballante, che spesso rovesciava le mose del
mio piccolo Tullio, vivo per miracolo dopo che un massiccio lampadario,
collocato in mezzo al vagone, si staccò dal soffitto e gli cadde in testa.
Ricordo che nei mesi successivi, per farlo dormire, lo cullavo recitandogli
questa strofetta: «Par proprio un castigo pel povero piccino / il gran lanternone
ch’è in mezzo al vagone / cade e vacilla sul tenero zucchino / del
mio caro bambino / Tullietto mio bello t’è preso il malanno / t’è venuto un
brugnoccolone con quel lanternone!».
Alla stazione c’erano già pronti i carri per trasportarci verso i paesi di
campagna, dalle case basse, con i tetti di paglia. Venimmo sistemati in
cantine, sottoscala, pollai, baracche, magazzini abbandonati. Eravamo
arrivati stanchi, sporchi, mal vestiti e subito facemmo cattiva impressione,
fummo considerati peggio degli zingari. In fin dei conti per i moravi eravamo
degli estranei che il governo obbligava ad ospitare, forse addirittura
dei sovversivi responsabili del tradimento italiano. Solo la convivenza e gli
inviti dei sacerdoti alla fratellanza cristiana riuscirono con il tempo a farci
superare i pregiudizi reciproci. Quando mio figlio Carlo di nove anni litigò
in chiesa con i bambini che l’avevano chiamato “sporco italiano” fu proprio
il prete moravo che lo difese. I bambini imparavano molto in fretta la
lingua “gnasca”, come la chiamavamo noi, invece a me sembrava strana e
difficile e stentavo a capirla, come pure stentavo ad avvezzarmi alla vita
di Moravia. Mi schiacciava il dolore di esser lontana dai miei monti e quel
che è peggio il non saper nulla di mio marito. Fin dal 9 agosto scrissi a
Vienna e a Bressanone per saperne qualcosa, ma la risposta era sempre la
stessa: nulla ritrovato. La domenica, in chiesa, pregavo l’Altissimo di proteggere
il mio caro e di farmi avere sue notizie. Ed ero certa che anche
Momi stava pregando per la sua cara sposa e famigliola e che solo quelle
preghiere mi rendevano così forte e coraggiosa, mi davano la forza di resistere
a tanto dolore. Ma quanto piangevo in chiesa al sentire quei bei
canti e al vedermi guardata come un paria! Le donne morave venivano alla
messa della domenica vestite con bei fiori, di bianco, di celeste, di viola,
con in testa fazzoletti di seta, sembravano un giardino. Io ero vestita alla
misera e mi facevo piccina piccina, ma poi pensavo al Dio dell’amore, al
Dio della pace, lo sentivo compagno nel mio duro esilio e mi abbandonavo
fiduciosa alla sua provvidenza, come mi aveva insegnato la mamma e come
faccio anche adesso che sono vecchia, seduta qui sul muricciolo del mio
orto, sotto questo grande susino. È la provvidenza che in primavera fa
sbocciare sui suoi rami le gemme e in estate fa crescere le prugne che,
maturando, trasformano il loro aspro in dolcezza. Quanti susini c’erano in
Moravia! Se ne vedevano dappertutto, lungo le strade e attorno agli orti e
alle case. Le prugne le vendevano fresche per farne marmellate o le seccavano
per mandarle alle pasticcerie per le torte o ai ristoranti per gli gnocchi.
Certo, con il misero sussidio da profughi noi non potevamo frequentare
le pasticcerie o mangiare al ristorante! Avevamo tanta di quella fame
che a volte i nostri figli cercavano nelle cantine le trappole col pezzetto di
lardo per catturare i ratti e se lo mangiavano, oppure frugavano nei letamai
per raccogliere i resti delle verdure che le famiglie del posto gettavano
via. I ragazzi andavano nei campi a raccogliere spighe, pannocchie dimenticate,
frutti abbandonati, qualche baccello di fagiolo o rape troppo piccole
per essere vendute o percorrevano i boschi per raccogliere funghi, lamponi,
more e fragole, mirtilli da vendere al mercato o ai negozi. Nei fossi
che solcavano la campagna pescavano le rane, ma di nascosto, perché
erano proprietà privata. La Moravia era una terra fertile, tutta coltivata a
orzo, segale, barbabietole da zucchero, patate, ortaggi e piante da frutto.
C’erano inoltre campi di papaveri di un bel colore lillà per fare la morfina e
immensi campi di luppolo per fare la birra e altrettanto immensi campi di
frumento, inframmezzati da fiordalisi, per fare il pane. Attorno alle case
anche tanti noci, da cui si ricavava l’olio per condire. Sulle aie c’erano
mucche, cavalli, maiali e nei laghetti anatre ed ochette a centinaia, tanto
che attorno a quegli specchi d’acqua era tutto bianco. Ben presto ci accorgemmo
che il lavoro non mancava perché la gioventù e la gente di mezza
età era stata mandata al fronte e nei paesi non c’erano che vecchi e minorati.
Tutti i morasky erano senza denti e andavano in campagna scalzi,
portandosi dietro una gran fetta di pane di segala e lardo pestato e salato,
oppure pane e marmellata di prugne. Anche le donne erano scalze, in
camicia e sottana, con il fazzoletto in testa tirato giù. Bello era il costume
dei bimbi e delle bimbe, sul quale m’era venuto l’estro di fare un commento
in rima: «Vestine cortissime fatte a scherzetti, senza mutande si
vedon i culetti». Con il perdurare della guerra, anche per i moraski la vita
cominciò a diventar difficile, perché dovevano consegnare all’ammasso due
terzi del loro prodotto. Intanto noi si lavorava sodo, a volte dal mattino
fino all’imbrunire, per raggranellare quelle magre risorse che ci consentivano
di non morir di fame. Ma per me anche questa pesante croce risultava
leggera in confronto a quella che continuamente mi trafiggeva il cuore.
Chi avrebbe mai pensato undici anni addietro, il giorno del matrimonio,
che Momi ed io saremmo stati così orribilmente divisi, senza sapere niente
l’una dell’altro? Eppure, per un certo tempo scese la rugiada sui fiori
appassiti, tanto da ravvivarli a nuova vita. Ad una cartolina scritta dalla
Croce Rossa di Olomuc al comando del II Reg. T.K.J si rispose che Mosele
Girolamo dai primi di settembre del 1914 non si sa ove sta, ma esso è
indubbiamente prigioniero perché non trovato in nessuna lista. Allora pregai
tanto Iddio di proteggerci e dopo il nostro calvario di restituirci l’uno
all’altra. Ma poi i giorni passarono come sempre, tutti uguali, fra il timore
e la speranza, senza ricevere più nessuna notizia. Pregavo tanto anche
perché giungesse il giorno in cui gli uomini, che Cristo aveva reso fratelli
a prezzo del suo sangue, tornassero a darsi il bacio della pace e finalmente,
almeno questo, arrivò. Così, nel gennaio del 1919, con molti altri compaesani,
rientrammo a Levico. Il viaggio del ritorno non fu molto diverso
da quello dell’andata; anche questa volta il vagone era freddo, buio,
maleodorante e noi dovevamo star sdraiati sulla paglia infestata dai parassiti.
Nel cuore c’era speranza, ma anche inquietudine: cosa si sarebbe trovato
al rientro? Finalmente, dopo cinque giorni si giunse a Levico. Faceva
freddo e nevicava; nel parco, in cima al viale della stazione, i rami degli
alberi si schiantavano sotto il peso della neve. Anche dentro di me faceva
freddo e il mio cuore si spezzava vedendo le case del mio amato paese
così danneggiate, depredate, mancanti di porte e finestre, con le cucine
trasformate in stalle. I primi mesi trovammo ospitalità presso le scuole
elementari che durante la guerra erano servite come ospedale e sulle quali
c’era ancora dipinta la croce rossa. Intanto il Genio militare italiano, le
cooperative, i privati, cominciarono a rabberciare gli edifici, a mettere a
posto infissi e pavimenti, a ricostruire i camini per far uscire il fumo.
Anch’io, appena fu pronta, rientrai nella casetta che sta qui alle mie spalle
e nella quale, come schegge di una bomba conficcate nella carne, ancora
sono presenti tanti residuati di quel periodo di guerra. Orami sta facendo
notte e i menadori che dal fondovalle portano in Vezzena si scorgono
appena, là dove escono dal bosco per inerpicarsi sulla roccia scoscesa.
Adesso pochi li percorrono, ma nei mesi successivi al rientro dalla Moravia
su di essi vi era una continua processione di gente che saliva ai forti e ai
baraccamenti dell’altopiano o agli ospedali da campo di Monterovere in
cerca di canali di gronda, infissi, porte, lettini, paioli, stufe da campo e
tutto quanto potesse esser riutilizzato per rendere meno difficile la dura
vita del dopoguerra. Io avevo recuperato anche le cariche di polvere per i
cannoni che negli anni successivi usavo come ceste per le uova quando
scendevo a Levico, con in spalla il bicollo reso pesante dai prodotti del
mio maso, da vendere negli alberghi o nelle case private, dove avevo le
mie “poste”. La mia figura, piccola, tondolina, sempre sorridente, era familiare
ai miei paesani che mi chiamavano “la Nani del Col delle Bene”.
Vestita sempre con un grembiule a righe sul violetto bordò, d’inverno riparata
da uno scialle che mi facevo da me, arrivavo in paese con qualsiasi
tempo, anche con la neve alta, dopo aver percorso a piedi quasi cinque
chilometri di strada accidentata e malagevole. Subito andavo in chiesa per
assistere alla messa prima, quella delle cinque e mezza e pregare per il
mio Momi. Dicono che sia morto sui campi di battaglia della Galizia combattendo
contro il nemico russo. Ci fu una battaglia presso un ponte sul
Volga, con questo o un campo vicino minato. Le acque diventarono rosse
di sangue perché ci si scontrava ancora all’arma bianca. Dicono che il mio
Momi sparì nel fiume perché di lui non si è mai ritrovata la piastrina militare.
Ma io lo aspetto ancora ed è per questo, per la promessa che gli ho
fatto, che non ho mai lasciato che il carro della mia vita se ne andasse,
dritto o storto, come voleva, senza timone. Il mio dolore l’ho trasformato
in memoria viva e le mie giornate in responsabilità e generosità. Attorno a
me, attraverso le mie dure fatiche nei campi, attraverso le marmellate di
mirtillo, di more di gelso, di sambuco che preparo per le mie nipotine,
attraverso le “fortaie” o le gazzose di luppolo che offro a chi viene a trovarmi,
è rifiorita la vita. Adesso è notte fatta, ma nel cielo c’è una bella
luna la cui luce chiara illumina tutta l’amata natura che mi circonda. Là in
fondo, in una radura dietro il vignale, è comparsa una lepre. Sembra
inquieta, forse perché la sua compagna è rimasta prigioniera in qualche
tagliola o uccisa dal fucile di un cacciatore di frodo. Ricordo le battute
alle lepri che a volte organizzavano i contadini in Moravia. Ne ammazzavano
talmente tante che per portarle in paese e venderle ad una corona
l’una usavano una carretta. Ma questa notte non è così. Là sul prato le
lepri ora sono due, sembrano dirsi qualcosa, tranquille, senza paura.
Anch’io sono tranquilla, senza paura e sento che presto il mio Momi tornerà
a stringermi forte in un abbraccio senza fine, perché vibrante della
presenza dell’Eterno.