Quarta edizione 2007 • secondo classificato seconda categoria

La Nani del Col delle Benne

Rudy Bof

Rudy Bof

Il racconto è stato scritto collettivamente dai ragazzi della classe seconda B, Corso Acconciatore del Centro di Formazione Professionale Opera Armida Barelli di Levico Terme (Tn). Per la stesura sono stati utilizzati i dati inediti della protagonista e la testimonianza di suoi due nipoti. Rudy Bof è il capoclasse.

LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA

Un “dolore trasformato in memoria viva”. La Nani dall’alto del Colle tra i monti del Trentino ricorda il marito morto in Galizia, durante la prima guerra mondiale. E nel suo racconto, carico di un amore che non passa, scorrono accadimenti grandi (l’Arciduca assassinato a Sarajevo) e piccoli (andare per boschi a cercare funghi e lamponi). La parabola di una vita segnata da una forte spiritualità, trova un felice approdo narrativo, autenticamente popolare.

IL RACCONTO

Mi piace, a quest’ora del tardo pomeriggio, starmene seduta qui, tranquilla, sul muretto dell’orto, a godermi l’ultimo sole che si prepara a tramontare, là dietro la Vigolana. Ormai i suoi raggi hanno perso la forza violenta del mezzogiorno, quando il colle sembra una fornace e mi baciano con dolcezza la pelle rugosa del volto e delle mani, avvolgendo il mio corpo di donna anziana in un tepore placido. Adesso, ad accarezzarmi i capelli ormai incanutiti, ben stretti sulla nuca con le forcine di osso, sale dal lago un venticello leggero, così diverso dal vento gelido e rabbioso che spazzava le campagne quand’ero profuga in Moravia. Da oltre i boschi che si stendono ad est del colle, sento in lontananza le campane della mia chiesa di Levico suonare l’Avemaria. Allora, come facevo con la mamma nella nostra casa di via delle Fosse, recito ad alta voce quella preghiera, mettendo la mia vita, che ormai sta arrivando al termine, nelle mani del Signore. Quanta fiducia aveva mamma Maria nella sua Provvidenza! La mia famiglia non possedeva campagna e a volte per pranzo non c’era niente da mettere in tavola: allora la mamma, che faceva la sarta, apriva la finestra, aspettando che arrivasse un suo cliente con qualche chilo di farina gialla o di fagioli, con un sacco di patate o un cestello di uova per saldare il proprio debito. E questo accadeva davvero!
Adesso i miei occhi, ancora vispi e curiosi, sono spalancati sulla natura che mi circonda e mi riempie, come sempre quando la guardo, di grato stupore, cosicché mi sorprendo ad esclamare: com’è bello il mondo e com’è grande Dio! Di fronte a me, di là dalla piana bagnata dal Brenta e tutta ricoperta da campi di patate o di granoturco, intravedo l’orlo dell’altopiano da cui si dice provenisse la famiglia di mio marito, Momi (Girolamo ) Mosele, i cui membri sono detti ancor oggi i «Vezzena». E il cognome indica certo un casato di “roncadori”, arrivati chissà quando qui sul Colle delle Benne, per dissodare e bonificare, strappando al bosco di quercioli ed acacie il terreno su cui costruire il modesto maso nel quale ancora abito.
Il mio Momi mi ha portata qui subito dopo il matrimonio, in un giorno come questo, il 17 settembre del 1904. Eravamo giovani – entrambi della classe 1882 – innamorati e ben decisi – come ci era stato raccomandato dal nostro buon arciprete – a comportarci da bravi coniugi, tirando uniti sotto il medesimo giogo il carro della nostra vita su tutte le strade che avremmo dovuto percorrere. Ancora non sapevamo se queste sarebbero state impervie, come il viottolo che, partendo dal nostro colle, attraverso San Biagio porta a Levico o se la Provvidenza ci avrebbe consentito di imboccare una strada più comoda, come quella che da qui scende a Visintainer e a Pergine. Una volta, questa strada era sempre ben curata, perché serviva per approvvigionare il forte che sorge alle mie spalle. Basta salire in cima all’orto per vederlo, ancora quasi intatto nella sua pianta poligonale, anche se ormai spogliato delle strutture in ferro. L’avevano costruito pochi anni prima che io nascessi, insieme a quello di Tenna, che indovino là sulla collina che mi sta di fronte, oltre il lago, per chiudere a tenaglia la Valsugana e sbarrare la strada verso Trento. Noi abitanti del maso Mosele, con i soldati del forte avevamo rapporti di buon vicinato. Una sorella di mio marito s’era anche innamorata di un ufficiale austriaco e, nonostante l’opposizione di mio suocero, finì con lo sposarlo andandosene con lui in Austria. D’altronde, eravamo tutti sudditi fedeli del nostro buon sovrano, l’imperatore Francesco Giuseppe, che ci governava in modo severo, ma giusto. Certo, non bisognava finire sul registro del sergente Scheibenflucht, capo della gendarmeria a Levico, come di sicuro vi erano finite quelle poche persone “lezue” che, con la margherita all’occhiello, si ritrovavano nella farmacia del dottor Giovanni Amort, tutte iscritte alla Lega Nazionale, che avrebbe voluto annettere il Trentino all’Italia. Ma secondo il mio Momi il Regno d’Italia era governato da massoni che non costruivano scuole per i figli dei poveri e che caricavano di troppe tasse i miseri contadini.
Povero Momi, com’era contento quella domenica del 28 giugno 1914! Era la vigilia di San Pietro e noi, con i nostri figli Carlo e Pierotto, eravamo stati in Centa, passando una giornata felice e in buona compagnia. Nel ritorno mi appoggiavo al suo saldo braccio, dicendogli che veramente non avevamo croci pesanti, i nostri ora ci parlavano volentieri, noi sani e sempre ci amavamo e rispettavamo a vicenda, i bimbi sani e svelti, la campagna prometteva buona raccolta. Ma non è detto invano che chi fa i conti senza l’oste li fa due volte. Difatti, appena giunti alla casa dei miei genitori apprendemmo che gli Arciduchi erano stati assassinati a Sarajevo. Il concerto che era in programma allo Stabilimento vecchio venne sospeso e tutti a Levico parlavano di questo orrendo delitto. Nel rientrare qui sul colle, Momi diceva che questa tragedia sarebbe stata un incominciamento di guerra, e purtroppo aveva ragione. Il 27 luglio si sentivano a Levico spari di mortaretti, i forestieri che lanciavano urrà e gli italiani che gridavano viva l’Italia e l’Austria alleate per combattere la cattiveria serba. Il 5 agosto si legge nelle contrade l’annuncio fatale che tutti quelli sopra i vent’anni e sotto i quarantadue devono presentarsi all’armata. Quale dolore provai è più facile immaginarselo che descriverlo. Ricordo che piansi tanto, di nascosto da mio marito, e in sua presenza cercai di essere forte ed infondere almeno a lui un po’ di rassegnazione. Povero Momi, come avrebbe fatto a stare lontano dai suoi cari, lui che godeva così tanto della pace familiare e trovava conforto in tutto quanto era in seno alla sua famigliola! La mattina del giorno dopo andammo insieme a confessarci e comunicarci, l’uno per avere benedizione e l’altra per consegnare il suo sposo a Dio e pregarlo che glielo restituisse. Salutammo in fretta i miei fratelli che partivano anch’essi per la guerra, indi tornammo al colle. Durante la colazione Momi era felice nel vedermi così coraggiosa. Poi gli preparai il necessario per prendersi dietro, ma lui non voleva niente, nemmeno per cambiarsi, perché sperava in un presto ritorno. Alle 7 lui parte per Pergine, indi per Bressanone. Fui forte, non volli piangere in sua presenza, ma Iddio solo può avermi concesso tale grazia. Nei giorni successivi ricevetti da lui le prime cartoline, poi una bella lettera, il giorno di San Rocco una cartolina dal cui timbro conobbi che era partito per la Galizia. Poi le lettere cessarono, allora ne mandai una io per dare nostre notizie, ma dopo due mesi mi venne restituita. E poi niente, sempre niente! Ed io avanti col duro legno della croce che Dio mi affidò. Dovevo pensare al suocero anziano, ai figli piccoli e a quello che cresceva dentro di me. Grazie alla conoscenza del tedesco, che avevo imparato quando da ragazza ero stata in Austria come domestica, andai a parlare agli ufficiali del forte offrendomi di lavare i panni dei soldati. Per farlo, dovevo scendere verso il maso dei Lazzaretti, mezzo chilometro più ad est, dove c’era una fonte, perché in casa non avevamo né acqua né elettricità. Ma poi arrivò l'inverno ed anche quel piccolo ruscello, come il mio cuore, si coprì di ghiaccio. Intanto, il 2 dicembre nasceva il mio ultimo bambino, che venne battezzato due giorni dopo con il nome di Tullio. Ne avevo avuti otto, ma due gemelli mi erano morti prima di arrivare all’anno, a breve distanza l’uno dall’altro. Il 19 marzo del ’15, quando già la primavera ricopriva di tenere foglioline tutto il colle, la piccola Elda, sana e tanto coccola, s’ammalò e il 6 aprile era già cadavere! Povera piccina, le dissi baciando la sua fronte ormai fredda, prega almeno per il papà tuo, che il Signore lo restituisca sano e salvo alla sua sposa e ai suoi figli. E così la mia croce si appesantiva, assomigliando sempre più a quella che ora hanno collocato là in alto, sulla cima del forte Pizzo. Lo stavano ultimando proprio in quei mesi perché controllasse, come un occhio gigantesco, sia la zona degli altipiani sia l’Alta Valsugana sulla quale si affaccia arditamente da un torreggiante precipizio. Allora la sua vista, che adesso m’è diventata familiare, m’inquietava, come m’inquietava tutta l’attività febbrile che si scorgeva attorno ai forti. Anche qui al forte delle Benne rinforzavano i reticolati conficcati nel terreno, ripulivano il bosco, tagliavano bacchette di nocciolo per farne fascioni di contenimento. Dappertutto installavano reticolati e, per unire i forti tra loro, scavavano trincee. Una di queste scendeva dal colle di Tenna fino al lago qua sotto, ch’era stato sbarrato da un cavo d’acciaio, quindi risaliva i vignali arrampicandosi poi su per la Canzana fino al Selvot. Anche verso la Panarotta c’era un’attività continua di trasporti per fortificare quella vetta, come pure verso l’altra, più lontana, del Fravort. Sempre più spesso si parlava di guerra all’Italia, però io non volevo crederci, mi sembrava impossibile che l’Italia fosse così traditrice. Ma la sera del 23 maggio le mie illusioni caddero; eravamo in chiesa per la funzione in onore della Madonna quando vediamo il capo gendarme entrare di corsa in sacrestia e parlare con il nostro arciprete, il quale subito dopo c’informò ch’era stata dichiarata la guerra contro l’Italia. Quella notte non ho chiuso occhio, anche se non si sentì nessuno sparo, come neanche nel giorno seguente. Ma alle tre e mezzo del 24 maggio fummo tutti sbalzati dal letto dal fragore delle bombe che dal forte Verena venivano tirate verso il forte Pizzo e che, sbagliando bersaglio, cadevano là oltre il Brenta, tra la stazione ferroviaria e la frazione di Santa Giuliana. Nei giorni seguenti a maso Mosele arrivò l’ordine di partire subito. Ma con quale cuore potevo lasciare il mio caro colle, io che amavo tanto la nostra bianca casetta in mezzo al verde primaverile, il bell’orticello, la campagna che prometteva così bene! Eppure dovetti dire addio alle dolci memorie, ai giorni felici passati insieme al mio caro Momi. Ma non bastava partire, mi dissero pure che la casa nostra doveva essere minata perché poteva rappresentare un punto di riferimento per il nemico. Con l’aiuto di mia sorella Amelia preparai allora un po’ di cose, ma così in fretta come quando si scappa dal fuoco. Infine si partì, con i bimbi e la capretta, mentre la mucca era già stata mandata avanti. Piovigginava e noi sembravamo il ritratto della disperazione. Giungemmo a Pergine che era già notte e fummo accolti con carità dai signori Andreatta che ci ospitarono anche nei giorni seguenti. Il paese era pieno di poveri fuggiaschi che dovevano partire a causa della guerra. Verso la filanda c’era un’immensità di mucche, asini, pecore, cavalli, buoi che venivano comprati a prezzi da fame dai contadini della zona o requisiti dai militari. Il giorno di Corpus Domini mi sento chiamare dalla strada, mi affaccio alla finestra e vedo un quadro straziante! Un carretto, con sopra delle valigie e un letto con un povero ammalato. Chi lo tirava erano povere ragazze tutte accalorate ed una vecchietta: la mia mamma e le mie sorelle e sopra il mio papà preso dall’ospedale la sera precedente. Mi dissero che a Levico un gendarme era passato di casa in casa ingiungendo di partire entro 24 ore, portando con sé lo stretto necessario, massimo dieci chili di peso, perché la guerra si sarebbe conclusa in tre, quattro settimane, il tempo di far piegare la schiena all’Italia. Chi rimaneva in paese senza permesso rischiava la fucilazione. Partirono che già da dietro il Pizzo si sentivano le cannonate, mentre in paese arrivavano i militari, con i carri e i cavalli. Lungo la strada per Pergine era una fiumana dolorosa di persone, ciascuna con la sua gerla sulle spalle e in mano a volte un cesto, o un paiolo, pieno di farina o di formaggio. Io fui contenta di potermi riunire ai familiari e il giorno dopo, venerdì 4 giugno, incominciammo insieme il viaggio dell’esilio. Partimmo all’una e mezzo dalla stazione di Pergine, su un treno merci puzzolente, buio, freddo, stracarico di profughi, senza avere la possibilità di sederci se non sui nostri fagotti. Alle sei di sera si arrivò a Bolzano, dove ci diedero una minestra saporita. Il giorno dopo, alla stazione di Innsbruck ci offrirono del tè, bevanda che pochi di noi conoscevano. Finalmente il sabato sera smontammo a Salisburgo per dormire nelle baracche. In questa stazione arrivavano tutti i treni merci provenienti dal Sudtirolo e qui i profughi erano smistati. Noi proseguimmo per la Moravia, dove il treno cominciò a scaricarci nelle varie stazioni; a me toccò quella di Olomuc. Ancora adesso, quando laggiù nella piana che da Levico si allarga verso Caldonazzo vedo passare le grosse locomotive che fischiano allegre e lanciano nel cielo il loro pennacchio di vapore, la gioia dello spettacolo mi è in parte rovinata dal ricordo di quel drammatico viaggio, in quel treno traballante, che spesso rovesciava le mose del mio piccolo Tullio, vivo per miracolo dopo che un massiccio lampadario, collocato in mezzo al vagone, si staccò dal soffitto e gli cadde in testa. Ricordo che nei mesi successivi, per farlo dormire, lo cullavo recitandogli questa strofetta: «Par proprio un castigo pel povero piccino / il gran lanternone ch’è in mezzo al vagone / cade e vacilla sul tenero zucchino / del mio caro bambino / Tullietto mio bello t’è preso il malanno / t’è venuto un brugnoccolone con quel lanternone!».
Alla stazione c’erano già pronti i carri per trasportarci verso i paesi di campagna, dalle case basse, con i tetti di paglia. Venimmo sistemati in cantine, sottoscala, pollai, baracche, magazzini abbandonati. Eravamo arrivati stanchi, sporchi, mal vestiti e subito facemmo cattiva impressione, fummo considerati peggio degli zingari. In fin dei conti per i moravi eravamo degli estranei che il governo obbligava ad ospitare, forse addirittura dei sovversivi responsabili del tradimento italiano. Solo la convivenza e gli inviti dei sacerdoti alla fratellanza cristiana riuscirono con il tempo a farci superare i pregiudizi reciproci. Quando mio figlio Carlo di nove anni litigò in chiesa con i bambini che l’avevano chiamato “sporco italiano” fu proprio il prete moravo che lo difese. I bambini imparavano molto in fretta la lingua “gnasca”, come la chiamavamo noi, invece a me sembrava strana e difficile e stentavo a capirla, come pure stentavo ad avvezzarmi alla vita di Moravia. Mi schiacciava il dolore di esser lontana dai miei monti e quel che è peggio il non saper nulla di mio marito. Fin dal 9 agosto scrissi a Vienna e a Bressanone per saperne qualcosa, ma la risposta era sempre la stessa: nulla ritrovato. La domenica, in chiesa, pregavo l’Altissimo di proteggere il mio caro e di farmi avere sue notizie. Ed ero certa che anche Momi stava pregando per la sua cara sposa e famigliola e che solo quelle preghiere mi rendevano così forte e coraggiosa, mi davano la forza di resistere a tanto dolore. Ma quanto piangevo in chiesa al sentire quei bei canti e al vedermi guardata come un paria! Le donne morave venivano alla messa della domenica vestite con bei fiori, di bianco, di celeste, di viola, con in testa fazzoletti di seta, sembravano un giardino. Io ero vestita alla misera e mi facevo piccina piccina, ma poi pensavo al Dio dell’amore, al Dio della pace, lo sentivo compagno nel mio duro esilio e mi abbandonavo fiduciosa alla sua provvidenza, come mi aveva insegnato la mamma e come faccio anche adesso che sono vecchia, seduta qui sul muricciolo del mio orto, sotto questo grande susino. È la provvidenza che in primavera fa sbocciare sui suoi rami le gemme e in estate fa crescere le prugne che, maturando, trasformano il loro aspro in dolcezza. Quanti susini c’erano in Moravia! Se ne vedevano dappertutto, lungo le strade e attorno agli orti e alle case. Le prugne le vendevano fresche per farne marmellate o le seccavano per mandarle alle pasticcerie per le torte o ai ristoranti per gli gnocchi. Certo, con il misero sussidio da profughi noi non potevamo frequentare le pasticcerie o mangiare al ristorante! Avevamo tanta di quella fame che a volte i nostri figli cercavano nelle cantine le trappole col pezzetto di lardo per catturare i ratti e se lo mangiavano, oppure frugavano nei letamai per raccogliere i resti delle verdure che le famiglie del posto gettavano via. I ragazzi andavano nei campi a raccogliere spighe, pannocchie dimenticate, frutti abbandonati, qualche baccello di fagiolo o rape troppo piccole per essere vendute o percorrevano i boschi per raccogliere funghi, lamponi, more e fragole, mirtilli da vendere al mercato o ai negozi. Nei fossi che solcavano la campagna pescavano le rane, ma di nascosto, perché erano proprietà privata. La Moravia era una terra fertile, tutta coltivata a orzo, segale, barbabietole da zucchero, patate, ortaggi e piante da frutto. C’erano inoltre campi di papaveri di un bel colore lillà per fare la morfina e immensi campi di luppolo per fare la birra e altrettanto immensi campi di frumento, inframmezzati da fiordalisi, per fare il pane. Attorno alle case anche tanti noci, da cui si ricavava l’olio per condire. Sulle aie c’erano mucche, cavalli, maiali e nei laghetti anatre ed ochette a centinaia, tanto che attorno a quegli specchi d’acqua era tutto bianco. Ben presto ci accorgemmo che il lavoro non mancava perché la gioventù e la gente di mezza età era stata mandata al fronte e nei paesi non c’erano che vecchi e minorati. Tutti i morasky erano senza denti e andavano in campagna scalzi, portandosi dietro una gran fetta di pane di segala e lardo pestato e salato, oppure pane e marmellata di prugne. Anche le donne erano scalze, in camicia e sottana, con il fazzoletto in testa tirato giù. Bello era il costume dei bimbi e delle bimbe, sul quale m’era venuto l’estro di fare un commento in rima: «Vestine cortissime fatte a scherzetti, senza mutande si vedon i culetti». Con il perdurare della guerra, anche per i moraski la vita cominciò a diventar difficile, perché dovevano consegnare all’ammasso due terzi del loro prodotto. Intanto noi si lavorava sodo, a volte dal mattino fino all’imbrunire, per raggranellare quelle magre risorse che ci consentivano di non morir di fame. Ma per me anche questa pesante croce risultava leggera in confronto a quella che continuamente mi trafiggeva il cuore. Chi avrebbe mai pensato undici anni addietro, il giorno del matrimonio, che Momi ed io saremmo stati così orribilmente divisi, senza sapere niente l’una dell’altro? Eppure, per un certo tempo scese la rugiada sui fiori appassiti, tanto da ravvivarli a nuova vita. Ad una cartolina scritta dalla Croce Rossa di Olomuc al comando del II Reg. T.K.J si rispose che Mosele Girolamo dai primi di settembre del 1914 non si sa ove sta, ma esso è indubbiamente prigioniero perché non trovato in nessuna lista. Allora pregai tanto Iddio di proteggerci e dopo il nostro calvario di restituirci l’uno all’altra. Ma poi i giorni passarono come sempre, tutti uguali, fra il timore e la speranza, senza ricevere più nessuna notizia. Pregavo tanto anche perché giungesse il giorno in cui gli uomini, che Cristo aveva reso fratelli a prezzo del suo sangue, tornassero a darsi il bacio della pace e finalmente, almeno questo, arrivò. Così, nel gennaio del 1919, con molti altri compaesani, rientrammo a Levico. Il viaggio del ritorno non fu molto diverso da quello dell’andata; anche questa volta il vagone era freddo, buio, maleodorante e noi dovevamo star sdraiati sulla paglia infestata dai parassiti. Nel cuore c’era speranza, ma anche inquietudine: cosa si sarebbe trovato al rientro? Finalmente, dopo cinque giorni si giunse a Levico. Faceva freddo e nevicava; nel parco, in cima al viale della stazione, i rami degli alberi si schiantavano sotto il peso della neve. Anche dentro di me faceva freddo e il mio cuore si spezzava vedendo le case del mio amato paese così danneggiate, depredate, mancanti di porte e finestre, con le cucine trasformate in stalle. I primi mesi trovammo ospitalità presso le scuole elementari che durante la guerra erano servite come ospedale e sulle quali c’era ancora dipinta la croce rossa. Intanto il Genio militare italiano, le cooperative, i privati, cominciarono a rabberciare gli edifici, a mettere a posto infissi e pavimenti, a ricostruire i camini per far uscire il fumo. Anch’io, appena fu pronta, rientrai nella casetta che sta qui alle mie spalle e nella quale, come schegge di una bomba conficcate nella carne, ancora sono presenti tanti residuati di quel periodo di guerra. Orami sta facendo notte e i menadori che dal fondovalle portano in Vezzena si scorgono appena, là dove escono dal bosco per inerpicarsi sulla roccia scoscesa. Adesso pochi li percorrono, ma nei mesi successivi al rientro dalla Moravia su di essi vi era una continua processione di gente che saliva ai forti e ai baraccamenti dell’altopiano o agli ospedali da campo di Monterovere in cerca di canali di gronda, infissi, porte, lettini, paioli, stufe da campo e tutto quanto potesse esser riutilizzato per rendere meno difficile la dura vita del dopoguerra. Io avevo recuperato anche le cariche di polvere per i cannoni che negli anni successivi usavo come ceste per le uova quando scendevo a Levico, con in spalla il bicollo reso pesante dai prodotti del mio maso, da vendere negli alberghi o nelle case private, dove avevo le mie “poste”. La mia figura, piccola, tondolina, sempre sorridente, era familiare ai miei paesani che mi chiamavano “la Nani del Col delle Bene”. Vestita sempre con un grembiule a righe sul violetto bordò, d’inverno riparata da uno scialle che mi facevo da me, arrivavo in paese con qualsiasi tempo, anche con la neve alta, dopo aver percorso a piedi quasi cinque chilometri di strada accidentata e malagevole. Subito andavo in chiesa per assistere alla messa prima, quella delle cinque e mezza e pregare per il mio Momi. Dicono che sia morto sui campi di battaglia della Galizia combattendo contro il nemico russo. Ci fu una battaglia presso un ponte sul Volga, con questo o un campo vicino minato. Le acque diventarono rosse di sangue perché ci si scontrava ancora all’arma bianca. Dicono che il mio Momi sparì nel fiume perché di lui non si è mai ritrovata la piastrina militare. Ma io lo aspetto ancora ed è per questo, per la promessa che gli ho fatto, che non ho mai lasciato che il carro della mia vita se ne andasse, dritto o storto, come voleva, senza timone. Il mio dolore l’ho trasformato in memoria viva e le mie giornate in responsabilità e generosità. Attorno a me, attraverso le mie dure fatiche nei campi, attraverso le marmellate di mirtillo, di more di gelso, di sambuco che preparo per le mie nipotine, attraverso le “fortaie” o le gazzose di luppolo che offro a chi viene a trovarmi, è rifiorita la vita. Adesso è notte fatta, ma nel cielo c’è una bella luna la cui luce chiara illumina tutta l’amata natura che mi circonda. Là in fondo, in una radura dietro il vignale, è comparsa una lepre. Sembra inquieta, forse perché la sua compagna è rimasta prigioniera in qualche tagliola o uccisa dal fucile di un cacciatore di frodo. Ricordo le battute alle lepri che a volte organizzavano i contadini in Moravia. Ne ammazzavano talmente tante che per portarle in paese e venderle ad una corona l’una usavano una carretta. Ma questa notte non è così. Là sul prato le lepri ora sono due, sembrano dirsi qualcosa, tranquille, senza paura. Anch’io sono tranquilla, senza paura e sento che presto il mio Momi tornerà a stringermi forte in un abbraccio senza fine, perché vibrante della presenza dell’Eterno.