Il vecchio e la fanciulla
Evelin JuenEvelin Juen
Nata nel 1964. Vive a Imst in Tirolo. Studi universitari in storia dell’arte e archeologia. Tesi di laurea su Anton Christian “Wort und Bild”, pubblicata nel 1996 dalle edizioni Haymon con il titolo Anton Christian “Das Malen, das Schreiben”. Completa l’iter formativo per librai. Collaborazioni culturali con gallerie e musei, testi per cataloghi, discorsi. Autrice e giornalista freelance. Numerose pubblicazioni e riconoscimenti. Redattrice, compositrice, cantante; attività nell’ambito delle belle arti. Lunghi viaggi in Asia, Sud America e Africa.
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
Questo racconto descrive l’incontro tra un vecchio e una giovane donna (la “fanciulla”) in una dimensione che appare atemporale. In una baita solitaria il vecchio ritrae la fanciulla e le racconta la sua infanzia al mare. I due si avvicinano, sempre più, per un breve arco di tempo si pongono al di fuori di tutte le categorie e norme che solitamente regolano la vita, e diventa possibile persino una delicata forma di sensualità. La giuria ritiene che questo racconto sia un invito a raggiungere una forma di esistenza più pura, più libera da pregiudizi.
IL RACCONTO
L’acqua del fiume scorre placida e lambisce le rive con moto dolce e
uniforme.
I grandi aceri protendono le radici fuori dal regno terrestre, scavano con
incessante lentezza in cerca di nuova terra, in modo fermo, chiaro e inequivocabile.
Il sorgere del giorno pervade il paesaggio circostante di un lucore fresco,
argenteo. Si specchia scintillante nell’umidità della notte che si ritira.
La calma è assoluta, senso di sospensione, universo silente nel mondo.
Ecco respirare rocce rivestite di muschio, il giorno dissolve la nebbia tra
i colli, il cerbiatto si ritrae.
Rossobruno. Lo sguardo circospetto e vigile di grandi occhi innocenti. Già
tutt’uno con la foresta, la fitta boscaglia, gli ultimi richiami dell’oscurità.
Le ombre abbandonano la valle, cedono il posto, svelano segreti.
Gli spigoli si sgretolano mutando in ferite amorfe, precipitano come relitti obliati nel giardino dove in sontuosi arbusti prolifera l’ortica. Tra i roseti brilla l’invisibile, risplende il gioco di luci intessuto con fili di ragno. Il tetto si poggia debole e fragile sui muri in pietra tinti di bianco, geme nel vento, da molti anni ormai.
Una bicicletta gialla stilla nel quadro, porta freschezza e vitalità, porta
Nell e il suo riso che è frullo d’ali.
Su, entra! grida lei, fa freddo.
Il corpo di lui, rigido, si distende, acquista volume. Camicia e occhi di un
azzurro profondo, un uomo di mare. A un certo punto era giunta l’età, lo
aveva sorpreso riflesso allo specchio, rimanendo con lui per un lungo istante.
La voce non lo tradisce, ferma e sicura, nonostante il batticuore.
Lei è già in piedi accanto a lui, accaldata per lo sforzo.
Il suo corpo caldo fuma, lui ne fiuta il sudore. Lei volta delicatamente la testa di lato, un movimento incantevole, quasi impercettibile.
Su, entriamo, lo sprona con voce dolce, e frattanto si avvicina.
Lui si ritrae, avverte con dolore la propria schiena. Occhi di cerbiatto
puntati nei suoi, vede tutto di lei. Il piccolo neo, isola nella soffice lanugine,
si solleva.
Lei sorride.
Quell’essere dalle lunghe e snelle gambe. Gambe di ragazzo, aveva scherzato
lei all’inizio. I suoi capelli risplendono opachi all’ombra della pensilina.
Lui ne sente la mano, uno sfioramento leggero, poi entrano assieme nella
casa. L’aria del mattino lo fa rabbrividire.
Dentro guizzano le fiamme, la stanza respira fuoco vivo. Lei inspira avida
l’odore del legno, annusa con narici frementi, sensibili. Dalle finestre impolverate
filtra una luce fioca e sottile, porta il crepuscolo al sorgere del giorno.
Lui le poggia un cuscino sulla sedia, inizia a preparare la colazione.
Lei ha insistito che si infilasse una giacca. Ora è seduta lì, soddisfatta
nell’attesa, di tanto in tanto annuisce mentre lui parla.
Sopra le cime degli alberi si ode un fruscio, un mormorio fluido, che persiste
finché non si risveglia la paura.
Poi torna la calma.
I roseti selvatici con i loro ultimi frutti attirano i merli, che famelici beccano
e trangugiano, in un frenetico dondolio.
Presto la festa sarà finita, il pasto consumato. La schiena poggiata, sazi
e immersi in un silenzio familiare, restano seduti finché verso mezzogiorno il
sole inonda la stanza.
Su, cominciamo, affinché il cerchio possa chiudersi, mormora lui.
È nuda. Mai nella vita la femminilità gli si era offerta con tanta naturalezza.
La sua nudità assoluta. Quando il collo si inarca, e la gola resta scoperta.
La sua sagoma che fluttua e scorre, una corrente calda che lo trascina con sé.
Un fascio di luce abbagliante indugia sulla sua gamba sinistra. Sale
verso il monte lanuginoso del suo segreto, si slancia fin sul bacino. Ricade
sul seno sinistro, più su aderisce all’ampio disegno della bocca e si riversa
infine sul pavimento assieme ai suoi capelli.
Lui sorride. Lo sguardo trova le insenature, trova le ombre.
La tua oscurità incanta quanto la tua luce. Ferma, non muoverti.
Sono bella? Parole a bassa voce, pronunciate da un dipinto, una composizione.
Ma lui è già lontano.
Immobile, lo contempla mentre il suo sguardo passa senza posa da lei al
cavalletto, poi oltre la finestra, in lontananza, in un’altra realtà, e si chiede
cosa lui veda. Quali persone incontri, se ci sia qualcuno di cui si fida.
Talvolta, di rado, lui si mette a raccontare. Allora le ore volano e lei rientra
a casa a sera inoltrata. Sono storie variopinte e pregne di odori. Frammenti
di una vita di cui è entrata a far parte da quando ha iniziato a ritrarla.
La fantasia di lui le ricrea il corpo, lei intuisce che così placa la sua
nostalgia, ritrova il luogo della sua infanzia. Le case tinte di bianco, il sale
sulle labbra. Tutto è ricordo. Le tracce si sovrappongono, si perdono in una
rete intricata che sostiene il presente.
Afrodite, sei per me rifugio in terra straniera, aveva sussurrato allora e
lei aveva accettato l’imminente trasformazione. Allora, in un’altra vita. La
calura dell’estate l’aveva condotta allo stagno nel bosco, le mosche danzavano
e disegnando spirali si lasciavano sospingere in alto dall’aria. E d’un tratto
quella casa vuota e vecchia non fu più un luogo abbandonato.
C’era lui.
Lentamente lui alza il braccio. Il paesaggio della figura di lei è come un
ritorno, gli dona gioventù e tepore, lo fa scivolare nel ricordo: Le scogliere brillano bianche in una distesa infinita di azzurro. Fa caldo,
anche se il vento sul mare vibra, arriccia e pizzica, rimestando l’immagine
piatta dello specchio. Stormi di gabbiani che urlano, si tuffano a picco, piombano
dal cielo con un ardore che mozza il fiato, è questo che sogna, un sogno
ricorrente. Limitarsi a baciarla, l’acqua, poi, senza incrinare l’armonia dei
movimenti, veleggiare via.
Allontanarsi.
Alla luce del sole i colori riacquistano vita, si accostano l’uno all’altro, si
compiono nel reciproco splendore. Pastosa opulenza, linee vigorose. Poi, con
infinita cura e dolcezza, gli uccelli.
Più tardi correrà giù alla spiaggia, il rito purificatore sul morire del giorno
che lo restituisce al corpo e al suo umido pulsare. Sdraiato, gli occhi aperti, si
lascia andare alla deriva, acqua alta e poi bassa, dimentico di se stesso tra le
maree.
Vieni, sussurra la voce di lei trasportata dalle onde, e lui ritorna dal passato.
Smarrito si guarda attorno nella stanza, uno spazio sconosciuto, un
paese straniero. Poi l’odore familiare dei colori a olio gli penetra nella
coscienza.
Il quadro è pronto, vero? Dimmi, ora è finita?, gli chiede alzandosi lentamente.
Movimenti fluidi, lo fissa ipnoticamente negli occhi mentre si avvicina.
La sua bellezza lo abbaglia e circola nel corpo ormai stanco come una
miriade di lucciole la cui luce gli scalda l’animo. Che gioia per lui, quando i
suoi pori assorbono la vitale essenza di lei.
Finita, risponde triste e si abbandona nel colore dei suoi occhi.
Lei è in piedi accanto al cavalletto e china il capo. Il filo si spezza, il
suo viso diventa profilo.
Due mesi. Per caso o forse no. Lei ci ha riflettuto a lungo.
Ora è finita. Marc e la sua amica Lea chiedevano cosa volesse da lei lo
sconosciuto. Di cosa parlasse, chi fosse. La assillavano. Perché era cambiata?
Nessuno comprendeva, tanto meno lei.
I profondi solchi che rigano il volto di lui. Sentieri sempre più numerosi
che ha percorso segretamente, incantata da ogni bivio.
Lui sembrava non accorgersene. Non voleva riconoscere. Le innumerevoli
ore immerso nella sua arte.
Lo amo, risponderebbe lei, a una domanda che a tutti era parsa troppo
assurda da porre.
Il mare mi ha travolto, trascinato con sé e risputato in un altro mondo,
dice lui.
Le sue risposte, sempre storie nella storia, potevano essere verità o
anche menzogna. Eppure le trasmette un senso di intimità che la lascia
muta.
Lei apre gli occhi, si gira verso il dipinto.
È in piedi, dietro di lei, con le mani sospese sopra le sue spalle che si
alzano e si abbassano nell’aria ad ogni respiro, le annusa i capelli. Salvia e
menta.
Il silenzio nella stanza è un lago che riluce argenteo, piatto come uno
specchio, che capovolge il mondo. I pensieri si frangono agli orli, sfumano
gli istanti di paura, oltrepassano le frontiere.
Per la prima volta la tocca. Rabbrividisce, centellina. Lascia le dita rinsecchite
sulla pelle vellutata. Sostano tranquille, si ristorano.
Al calare della notte, tutti i colori ormai saturi di grigio, ombre tra le
ombre, i loro sguardi si staccano dal dipinto. Si ridestano dall’immobilità, si
muovono, spaesati.
Afrodite, le sussurra da dietro, restandole vicino.
Lei annuisce lievemente, lui avverte i muscoli di lei tendersi.
Domani non sarò più qui, mormora, mentre esitante alza le mani dalle
sue spalle e fa un passo indietro.
Il vuoto cola come gelido brivido lungo la schiena di lei, che barcolla
appena, si concentra sul suo nucleo che pulsa e reclama, ritrova l’equilibrio.
Poi qualcosa di freddo e liscio nella sua mano.
Le labbra screpolate di lui le alitano vicino all’orecchio sinistro e il respiro
di lei accelera.
Fallo! Sussurra lui. Solo tu e io e un segreto.
La mano di lei trema quando avverte la resistenza della tela, e già la
lama squarcia ampie ferite. Lembi che si aprono, corpi e paesaggi avvinghiati
l’uno all’altro, colore al colore.
Nato e passato. Donato al fluire privo di frontiere.
Le stelle brillano, una notte fredda, serena. Una bicicletta gialla, capelli
al vento. Un vecchio alla finestra.