Lettere dal Vorarlberg
Fernando LarcherFernando Larcher
Vive a Folgaria (Trento). Ha al suo attivo varie pubblicazioni, soprattutto di carattere storico, in particolare i volumi Folgaria Magnifica Comunità (1995), Folgaria – Vicinie masi e frazioni (2003) e Folgaria Lavarone Luserna 1915 – 1918 (2005). Nel 2006 con l’editore Publistampa di Pergine ha dato alle stampe il suo primo volume di racconti, Ave Maria Gratia Plena, una raccolta di lavori editi e inediti tra i quali figurano Il Battesimo, premiato al concorso nazionale di novella Carlo Cocito (Montà d’Alba – Cuneo, 1990), Ghia kan Taifel Slomperos! premiato al concorso letterario Frontiere Grenzen (Fiera di Primiero – Trento, 2001) e Un ballo per Zorban, segnalato al medesimo concorso nell’edizione 2003.
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
Una scrittura asciutta, a raccontare un fatto che subito ci risuona vero, possibile, lancinante, visibile. La denuncia di un amore clandestino tra una giovane donna e il prete di una canonica. Una natura accorata anch’essa (“l’Adige che scorreva lento e magro”), davanti alla rivelazione, inaudita quanto carica di promesse di vita e cambiamento. Poi l’eco dello scandalo sfuma nel ricordo di un amore strappato al tempo e alle possibilità. In una colpa espiata con il silenzio della consapevolezza. In una cifra narrativa tradizionale sì, ma restituita con un entusiasmo e un’esattezza che la rendono, anche solo per questo, lodevolmente attuale.
IL RACCONTO
Don Attilio Masera mi chiamò dalla strada mentre salivo la scala
della canonica. Mancava poco a mezzogiorno.
‘Scusate don Livio’, disse, quasi con riverenza. Io mi volsi e lui proseguì:
‘Mi dice monsignore che avrebbe urgenza di parlarvi, con urgenza
ha detto, oggi stesso ha precisato...’. Lo ringraziai e lo invitai ad entrare,
a ristorarsi un po’, ma rifiutò cortesemente, disse che voleva essere
quanto prima ad Aldeno. Pranzai di malavoglia continuando a pensare
cosa mai avesse da dirmi monsignore di tanto urgente. Così non persi
tempo. Riposti i piatti del mio pasto frugale presi la via per Villa Lagarina,
passando sotto le pergole dei vigneti per ripararmi un po’ dal sole
che infiammava la valle. E camminando nell’erba, attento a non pestare
qualche escremento di cane, non smisi di chiedermi la ragione di quella
frettolosa convocazione. Capii che si trattava di qualcosa di grave quando
bussai al suo studio.
Non mi salutò ma mi fece solo cenno di sedere, lui dall’altra parte
del grande tavolo. Inforcava gli occhiali e teneva aperta davanti a sé
una lettera. Appena fui seduto me la porse. Era una lettera di denuncia,
anonima. Iniziava sommessamente con un preambolo che esaltava le
virtù del sacerdozio, citando santi e dottori della Chiesa. Ma si fece ferro
rovente che mi forò lo stomaco quando lessi « ...dobbiamo purtroppo
denunciare la condotta amorale del Vostro sottoposto, don Livio Turelli,
che intreccia una relazione carnale con una sua parrocchiana, coniugata
e madre di due figli in tenera età, il marito assente per sostentamento
della famiglia... ». Non riuscii a terminare la lettura, un nodo mi stringeva
la gola e con estrema fatica sollevai gli occhi, sentendo quelli di
lui puntati su di me. Sicuramente sbiancai in viso. Lui invece era rosso
paonazzo, fremente di rabbia.
‘Ditemi solo che non è vero ed io vi crederò!’ soffiò tra i denti, ‘ma
voglio che sia la verità, esigo la verità!’.
Io mi sentivo mancare, non sapevo, non riuscivo a proferire parola.
Cercavo di dire, volevo dire che no, che era una menzogna ma… dissi
d’un fiato: ‘È vero, sì, è vero …’. Lui restò attonito, immobile.
‘Ma come avete potuto!’, disse pianissimo che quasi non lo udivo.
‘Come avete potuto!’ gridò subito dopo battendo il pugno sul tavolo. Io
chinai la testa, confuso, annichilito. Seguì un momento di imbarazzato
silenzio. Con gli occhi bassi ascoltai la sua voce diventata improvvisamente
pacata, gelida.
‘Tornate alla vostra canonica’, disse e fece una pausa. Quindi riprese:
‘Da oggi siete malato, tanto malato da non poter celebrare messa né
esercitare alcun altro ministero. Domani invierò questa lettera a sua
eccellenza il vescovo e non potrò che aggiungere di mio pugno una nota
di profondo dolore e biasimo per la vostra indegna condotta. Resta inteso
che non uscirete di canonica se non per andare all’incontro con sua
eccellenza, che solleciterò avvenga al più presto. Deciderà lui del vostro
destino. Provvederò poi personalmente per la vostra sostituzione’. Ebbi
l’impressione che avesse già preparato quelle parole, che le avesse coltivate
e messe assieme nell’attesa del mio arrivo.
‘Andate …’ aggiunse infine ‘E che Dio vi perdoni’.
Non ebbi l’ardire di replicare. A capo chino mi girai e uscii dal palazzo.
Fuori la calura mozzava il respiro e per poco non svenni. Con andatura
incerta presi la via del ritorno. Costeggiai il fiume. L’Adige scorreva
lento e magro, stremato da giorni e giorni senza nuvole, senza pioggia.
E ora? Mi dicevo, E ora? Che succederà? Dunque qualcuno sapeva, qualcuno
aveva visto. Aveva visto Andreina entrare in canonica, l’aveva
tenuta d’occhio, forse aveva visto più di quanto osassi credere. La prima
volta che bussò al portone era una sera fredda e nebbiosa. Non l’aspettavo
naturalmente, tutto doveva ancora succedere, tutto era ancora al di
là di qualsiasi mia immaginazione. Era avvolta in uno scialle e teneva
stretta in mano una lettera.
‘Vi prego don Livio’, disse, ‘mi è arrivata oggi questa lettera, io non
so il tedesco e invece voi …’. Me la porse, già aperta. Veniva dal Vorarlberg
e nell’intestazione lessi il nome di una ditta di costruzioni stradali.
Riguardava il marito, Gaspare Volani, che – così era c’era scritto – da
vari giorni era ricoverato nell’ospedale della città in preda a febbri fortissime.
La situazione era descritta seria ma non grave. Le dissi di cosa
si trattava. Appena ebbi finito mi si avvicinò, appoggiò il viso alla mia
spalla e si mise a piangere. Quel contatto del tutto inatteso mi turbò.
Cercai di consolarla mormorando parole scontate, quindi l’accompagnai
all’uscio. La guardai andare via, stretta nello scialle. Quando richiusi
il portone mi accorsi che nell’aria era rimasta un’inequivocabile traccia
di profumo. Un profumo tenue, gradevole. L’aspirai, a narici aperte. E
anche quando più tardi mi spogliai per mettermi a letto ritrovai lo stesso
profumo sulla tonaca. L’annusai, annusai avidamente. E lì ebbe inizio
il mio peccato. Passò poco più di una settimana che Andreina tornò a
bussare alla canonica, sempre di sera, calato il buio. Una nuova lettera
diceva che le condizioni del malato si erano aggravate. Ancora una volta
lei cercò consolazione sulla mia spalla e questa volta, stordito dal suo
contatto e inebriato dal profumo la strinsi timidamente, un gesto che
poteva anche sembrare paterno ma che, lo si capisce, del tutto paterno
non era. E che lei colse pienamente nel suo significato.
Ci fu ancora una lettera, una decina di giorni dopo. Diceva che Gaspare
stava meglio e che si stava via via rimettendo in sesto. Non ci fu bisogno
di piangere né di abbracci consolatori. Lo scritto scivolò semplicemente
per terra, quasi sotto i nostri piedi. Ciò che successe dopo lo rivedo
in poche immagini: la stanza rischiarata dalla luce tremula di una
candela, lei che si alza spoglia dal letto e che furtiva si riveste. La mia
tonaca adagiata sulla sedia, piegata con cura. L’ansia dell’attesa. Il vuoto
della sua assenza. Poi lei che apre lo sportello del confessionale e senza
indugio mi chiede: quando? Quando potrò rivederti? E la confusione dello
spirito, l’imbarazzo di celebrare, i tormenti dell’anima.
Formalmente ammalato, mi chiusi in canonica. Mi misi effettivamente
a letto, finsi a me stesso di essere preda di una malattia, perché così
volevo convincermi. In un dato momento mi sembrò pure di avere la
febbre. Un paio di sere sentii bussare insistentemente alla porta, ma
non aprii. Avrà capito che qualcosa di grave era successo. Aprii solo al
sacrestano e al fabbriciere, preoccupati per la mia salute. Campai scuse
e malori di non chiara origine. Mi portarono uova, verdura, farina da
polenta e asparagi selvatici. Attendevo con crescente timore la convocazione
in Curia che giunse, inesorabile, circa una settimana dopo. Non ci
andai a piedi ma presi la carrozza, un lusso che in genere non mi conce
do ma non volevo presentarmi tutto impolverato e sudato.
Davanti al grande portone dell’Ordinariato feci un lungo respiro e mi
armai di un traballante coraggio. Mi fecero attendere. Un’ora nell’anticamera,
a passeggiare avanti e indietro, sotto lo sguardo indifferente di
San Vigilio. Finalmente la porta si aprì e il segretario di sua eminenza mi
fece entrare. Mi ritrovai così a quattr’occhi, a tu per tu con il vescovo.
L’avevo visto l’ultima volta durante la visita pastorale, un anno
prima. Allora si era trattato di un semplice scambio di battute sullo
stato della chiesa, della canonica, sull’insegnamento scolastico. Alzò il
viso e stette a guardarmi con attenzione, come se fosse la prima volta
che mi vedeva. ‘Don Livio…’ mormorò. E poi abbassò gli occhi sulle
carte che aveva dinanzi, certamente la lettera anonima e l’accompagnatoria
del decano. ‘Don Livio…’ riprese e mi piantò gli occhi in faccia. Io
mi sentivo avvampare come un falò. ‘Quel che mi si dice qui e molto
grave, lo capite vero?’ ‘Si, certo eminenza, capisco …’ dissi impacciato.
Fece una lunga pausa di silenzio. Guardava le lettere ma non leggeva,
stava pensando. Si alzò, mi girò la schiena e andò alla finestra.
‘Ditemi don Livio… ‘riprese, ‘ditemi della vostra vocazione sacerdotale.
Anzi, no. Ditemi della vostra fede, della vostra fede di cristiano. Vi
sentite in comunione con Dio e con la Chiesa dopo quel che avete
fatto?’. La voce era pacata, mesta.
‘Io, io sono molto confuso’ dissi d’un fiato e aggiunsi subito: ‘Qualsiasi
cosa riterrete giusto per me e per il mio ministero… ecco, sarà
prontamente eseguita, mi rimetto a voi’. In due passi mi fu appresso e
d’improvviso mi afferrò le mani, le strinse con forza. Sentivo le sue dita
che me le attanagliavano, le unghie che mi tagliavano la pelle. ‘Non vi
farò la predica don Livio. È con la vostra coscienza e con Dio che dovete
fare i conti. Ciò non di meno – riprese – dobbiamo prendere dei provvedimenti.
E saranno provvedimenti severi, come potete capire’.
Io abbassai gli occhi e mi inginocchiai, anzi mi lasciai quasi cadere.
A quel punto mi lasciò andare. La stanza si colmò di un silenzio di
piombo. Dalla finestra filtrava un vociare di bambini che giocavano
nella piazza di sotto. Si tolse gli occhiali e li passò in un panno scuro
che teneva in mano. Se li rimise e guardando oltre i vetri proferì la sua
sentenza.
‘Domani stesso vi recherete all’istituto di San Bartolomeo, la casa di
cura e di riposo per i sacerdoti anziani. Non ci andrete da sacerdote ma
da peccatore. Non celebrerete messa né dispenserete i sacramenti. Lì
dentro sarete il più umile degli umili, farete tutto ciò che vi sarà ordinato.
Vi ordino la regola del silenzio, parlerete solo per ragioni di servizio.
Fino a quando lo decideremo noi. Andate e purificatevi. E pregate, pregate…
Dio è misericordioso’. Rimase qualche secondo in silenzio. ‘Andate,
andate…’ aggiunse infine senza girarsi.
Sono due anni che sono qui. Vivo in silenzio, come mi è stato ordinato.
Dormo in una stanza disadorna in fondo al corridoio, ho solo un
letto ed un armadio, pronto ad alzarmi non appena qualcuno chiama. In
otto stanze ci sono quindici preti anziani, quasi tutti messi malamente.
Per taluni non vi è differenza tra il giorno e la notte. Vivo tra lamenti e
borbottii continui, parole senza senso, invocazioni. Presta servizio con
me padre Severo, anche lui in punizione. Non ci siamo mai detti nulla
delle nostre vicissitudini ma non servono tante parole. Il suo naso grosso
e arrossato tradisce la debolezza del bere. È silenzioso e triste. La
mattina presto passo a raccogliere i pitali e castigo le mie narici con i
disgustosi odori di questi poveri uomini. Poi passo al rito delle abluzioni,
alle pulizie, al servizio in cucina, ai lavori nell’orto, a tutto quello
che occorre. La sera sono stremato. Mi è di sollievo la messa che celebra
don Venanzio. Mi metto in un angolo della cappella ma non prego, in
genere mi si chiudono gli occhi, mi appisolo.
E Dio non mi parla. Da quando è successo Dio ha chiuso la porta al
mio cuore. Immagino sia profondamente offeso. Ieri suor Elvira mi ha
portato una lettera che viene dall’Ordinariato. La settimana prossima
dovrò tornare al cospetto di sua eccellenza il vescovo. So già di che
cosa si tratta. Mi chiederà se dopo due anni di umiltà mi sento finalmente
libero dal mio peccato, pronto a riprendere il mio posto al servizio
della Chiesa. Mi proporrà una cura sperduta, qualche povero paese di
montagna, abitato prevalentemente da vecchi, dove le tentazioni umane
hanno scarso ossigeno.
Mi chiedo cosa gli dirò. Se tornerò ad essere don Livio. Credo che gli
dirò di no. Se Dio non mi parla è perché, immagino, non mi reputa
degno neppure di una cura senza gloria. E poi sono stanco. Quando la
mattina porto i secchi dell’acqua dal pozzo sento il respiro venire meno
e il cuore muoversi scompostamente nel petto. Per fare le scale mi devo
fermare più volte. Me ne starò qui, finché durerà. Di Andreina non ricordo
neppure i lineamenti del viso. Mi è capitato un paio di volte, nei
miei sonni brevi e agitati, di sognarla. L’ho sentita ridere, l’ho rivista
come non avrei mai dovuto vederla e ho risentito, lieve e inquietante, il
suo profumo. Il repentino risveglio mi ha trovato sudato e ansimante.
Non c’è il diavolo in quei sogni. E neppure nelle mie mani che si sono
macchiate della sua intimità. C’è questa mia povera umanità smarrita
che aspetta congedo, in un giorno qualsiasi, con qualsiasi tempo, quando
dovrà capitare.
Poco fa ho aperto la finestra. Fuori è già autunno inoltrato, c’è aria
di inverno. Ho buttato un occhio sopra il Bondone e ho visto tutto un
girare di nuvolaglie nere, cupe. L’inverno è alle porte.