Quarta edizione 2007 • terzo classificato prima categoria

Confessione

Stefania Povolo

Stefania Povolo

Risiedo in val di Fiemme, in Trentino, ormai da un anno frequento la Facoltà di Scienze della comunicazione: editoria e giornalismo dell’Università di Verona. Qui, trovando precario alloggio in uno studentato, sono entrata brevemente in contatto con il particolare e interessante mondo monastico. Così ho deciso di parlare del mondo spesso dimenticato di chi sceglie una vita al servizio della religione e di tentare di condividere alcune possibili motivazioni per questa scelta all’apparenza incomprensibile.

LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA

Una lunga lettera indirizzata a mamma e papà per una rivelazione sorprendentemente controcorrente: la loro figlia vuole farsi suora, vuole i voti perpetui. Un quieto raccontare che è però anche fotografia dell’ansia e dell’inquietudine giovanile. Uno stile pacato e senza fronzoli per raccontare un passaggio sempre più raro nell’occidente dove regnano le “finzioni”.

IL RACCONTO

Cari Mamma e Papà, Ve lo avevo anticipato dopo la lunga litigata di questi giorni. So che adesso sarete ancora più arrabbiati con me, ma cosa potevo fare? Ho deciso di andarmene, e probabilmente mentre leggerete sarò già lontana, spero quasi arrivata dove ho in mente di andare.
Non volevo che finisse in questo modo, e non sapete quanto mi è dispiaciuto sentirvi così irremovibili. Lascerò il cellulare sempre acceso e carico, se volete chiamarmi per parlare ancora un po’. Prima di farlo però, leggete fino in fondo questa lettera e ascoltate per una volta senza interrompermi. Lasciate che vi racconti quello che sto provando e che cerchi di farvi capire tutto quello che ho vissuto prima di arrivare alla mia decisione, da cui non tornerò indietro.
So che avreste voluto per me un roseo avvenire. Avreste voluto un uomo che mi amasse, una famiglia felice e un lavoro che mi interessasse, ma ho iniziato a deludervi già dall’ultimo anno delle superiori: i voti sempre più bassi, le uscite con gli amici sempre più frequenti, e quel mio cambiare fidanzati da un giorno all’altro, come se spendessi la mia vita in una girandola di piaceri senza fermarmi a capirne il senso. Non dico affatto di essermi comportata bene, l’unica cosa che posso replicare è che mi sentivo inadatta. Inadatta a tutto quello che mi circondava, ai miei amici che avevano chi più chi meno un sogno da realizzare, alle mie compagne che studiavano senza sforzo. Non sapevo cosa fare della mia vita, mentre sembrava che tutto il mondo girasse in modo vorticoso, lontano da me. Non trovavo alcuna soddisfazione nello studio, e l’unica cosa che mi svagava un po’ era l’estasi dell’alcool e le sciocchezze con gli amici.
Sentivo le lunghe discussioni che facevate la sera in camera vostra, quando mi preparavo prima di uscire o quando rientravo, la mattina presto. Sentivo la vostra rabbia impotente di vedermi buttar via la vita, di vedermi vivere come un equilibrista su un filo troppo fragile. Quanto sarei durata? Francamente non lo so. So solo quello che mi ha spinto a cambiare. Forse non vi ricordate di Valeria, una ragazza bionda della mia compagnia, che guidava una Peugeot scassata... Una sera decidemmo di andare in discoteca, e lei doveva raggiungerci in macchina. Ci trovammo tutti li, ma lei non c’era. Andammo lo stesso a ballare dopo averle fatto qualche squillo, credendo avesse cambiato idea.
Solo il giorno dopo seppi dai giornali che si era schiantata contro un muro, a causa della fretta di raggiungerci e dell’asfalto bagnato. Non ricordo il suo funerale, forse non ci sono neppure andata. La conoscevo poco, sapevo a malapena il suo nome e che aveva qualche anno più di me. Uscivamo assieme quasi tutte le sere, eppure sapevo così poco di lei. È morta a pochi metri da noi, per raggiungerci, e noi invece di preoccuparci del telefono staccato siamo andati lo stesso a divertirci. Eravamo come un branco di esseri che stanno assieme solo per una giustapposizione casuale, illusi dalla nostra vicinanza che tra noi vi fossero anche legami di amicizia.
Avrei voluto parlarvene, ma sembravate così lontani... Da quei giorni emersi lentamente dal buio. Evitavo di uscire la sera e gli amici della compagnia scomparvero. Ritrovai invece gli amici “diurni”, ricominciai ad andare a scuola con regolarità e a pensare agli esami di fine anno. Ma l’inquietudine continuava. Anche se vi vedevo più tranquilli, come se aveste ritrovato la figlia dispersa, io mi sentivo come un animale notturno costretto a vivere alla luce, un pupazzo sorridente tenuto in piedi solo da plastica e cotone.
Non ho mai avuto una salute di ferro, e mi ammalai. Persi diversi chili e divenni pallida, come un’ombra inquieta e nostalgica che si trascina sfruttando il vento. Vi volevo troppo bene e cercai di nascondere il mio malessere. Iniziai a truccarmi con cura, a mangiare di più e a sorridere anche quando non avevo voglia. E voi sembravate felici del mio recupero esteriore.
Tra le finzioni passai quasi onorabilmente l’esame di maturità e venne il tempo di pensare all’università. Avevo paura, ma non dissi neppure quello. Non trovavo nella mia vita qualcosa su cui puntare e per un certo periodo cullai anche l’idea di sfruttare la mia abilità di fingere per tentare la carriera del teatro. Ma sapevo che voi non avreste approvato, così vi lasciai scegliere. Portai a casa una valanga di volantini di università, seminandoli dappertutto.
Ben presto la mia semina portò frutto, e ben presto mi trovai iscritta alla facoltà di giurisprudenza, la stessa che facesti tu papà, che sembravi così fiero di me.
Non mi pento affatto della mia scelta, anche perchè non ho mai considerato i miei studi molto importanti. Vedervi così felici e partecipi della mia vita in quel momento mi ha ripagato di tutto.
Scelsi io di alloggiare in uno studentato, però. Non volevo sprofondare nelle vecchie abitudini entrando in nuove pessime compagnie, e credevo che immergendomi in un ambiente così pieno di vita mi avrebbe reso più facile la mia ricerca.
Infatti all’inizio fu così. Potei ricominciare daccapo la mia finzione in piena libertà, riempiendo ancor più di sorrisi i miei saluti, di dolcezza la mia voce mentre mi presentavo a sconosciuti.
Ho sempre odiato questo mio recitare, ma presentandomi così mi riempii inizialmente di amici e amiche nuove. Mi sentivo bene e in pace, anche se qualche volta avrei voluto tanto aver la libertà di un momento di tristezza.
Lo studentato è gestito da una comunità di suore. Queste figure scure e placide avevano pochi contatti con noi, alcuni sorrisi e brevi frasi quando ci si incontrava per i corridoi o una serie di istruzioni per regolare la vita nello studentato. Mi incuriosiva la calma con cui vivevano, immerse nel mondo e nella realtà eppure placidamente distaccate, come se vivessero con una visione diversa da tutti gli altri.
Mi è sempre piaciuto andare a messa, ritagliare un po’ di calma per me stessa e cercare un aiuto da quella forza superiore che regola tutto. Da quando però stavo passando quel periodo buio non avevo più pregato di mia spontanea volontà. Non trovavo la mia strada e iniziavo a dubitare dell’esistenza di un principio ordinatore che mi costringesse in questa nebbia densa e fredda.
Eppure tutte quelle donne velate di scuro sembrava non avessero il minimo dubbio.
Un giorno tra le mie riflessioni entrai sovrappensiero nel duomo della città in cui studiavo. L’ambiente buio e austero profumava di legno, polvere e incenso, come tutte le chiese, e quel profumo umido e accogliente mi spinse a inginocchiarmi negli ultimi banchi, per continuare indisturbata il mio triste corso di pensieri. Ero a pochi passi dallo studentato, e attorno a me c’erano alcune delle suore che incontravo tutti i giorni, ma in quel momento non me ne accorsi.
Pensavo a Valeria, a quanto mi sentivo sola e alla fatica di fingere davanti agli altri. Alla mia vita senza scopo e alla mia lotta interiore, che mi prosciugava. Sempre come sovrappensiero mi diressi verso il più vicino confessionale, in cui sedeva un prete anziano che mi fissava da un po’ dalla finestrella aperta.
Non avevo intenzione di confessarmi e quando mi inginocchiai rimasi dubbiosa su cosa dire. Recitai le formule di rito e presi un po’ di tempo, poi sbrodolai un po’ imbarazzata i primi peccati che mi vennero in mente. Mi sembrava di esser tornata alle scuole superiori, quando il professore ti sorprende non preparata e ti interroga, e tu vai avanti inventando. All’inizio è difficile incominciare, ma poi, le parole fuoriescono sempre più velocemente “...e da quando ho cambiato le mie abitudini mi rendo conto di non prendermi più cura di quelli che mi circondano come vorrei. Mi sono trasferita da qualche mese e tra università e altri impegni non ho più tempo per gli altri.”
Il prete mi sorrise comprensivo. “So quanto può essere duro il cambio di vita. Come puoi pretendere di aiutare gli altri se tu stessa hai bisogno di aiuto quasi più degli altri? Prenditi il tuo tempo, prega il Signore che ti dia la forza e trova il tuo equilibrio, e non pretendere di risolvere i problemi altrui dimenticando i tuoi. Va’ ora, non mentire a te stessa e vedrai che con il Suo appoggio, tutto si risolverà.”
Forse mi disse così perchè mi vide scossa e sola, o è solo una formula di routine in questi casi, ma quelle parole mi segnarono. Tornai in studentato che faceva già buio e mi chiusi in camera a pensare. Spero abbiate capito un pò meglio ora i motivi della mia scelta. Mi addolora più di quello che credete non poter soddisfare le vostre speranze, ma ho bisogno di ritrovare me stessa e di riuscire a ricominciare. Mi avete proposto un lungo viaggio, ma credo sarebbe solo uno spreco di soldi: non credo che l’andare in Tibet o in India risolverebbe i miei problemi.
Vi sembrerà la mia una decisione controcorrente, in un’epoca in cui la religiosità viene confusa spesso con il fanatismo e la vita viene vissuta come un affare economico: massima rendita al minimo sforzo. Io invece vedo la mia scelta anche se molto impegnativa (non credo sia facile per voi affidare a Dio vostra figlia solo perchè lei ha deciso così) sia da intendere come un dono grande e fragile, un atto d’amore. Dopo questo episodio ho riflettuto molto, isolandomi ancora di più da tutto e da tutti. La stanchezza mi tolse ogni traccia di finzione, e le nuove amicizie dopo breve tempo mi abbandonarono.
Iniziai a parlare di più con le suore. Ascoltai le loro storie così diverse e a trascorrere con loro un pò del mio tempo. È da qui che ho deciso di tentare la strada della postulante, per poi prendere i voti perpetui. La mia non è una scelta di comodo, tutt’altro. Non voglio abbandonare il mondo per chiudermi in un convento, voglio donare tutta me stessa all’umanità e a Dio, cercando in lui la mia forza.
Mamma, Papà, non sono pazza. Solo non voglio diventare avvocato, o dedicare la mia vita a un uomo che mi ami e solo alla mia famiglia. Devo ritrovarmi, e voglio farlo senza il vostro aiuto, per ora. Mi sono già informata in quale convento posso iniziare, e di seguito troverete tutte le indicazioni utili in caso vogliate contattarmi.
Non siate arrabbiati con me, e cercate di capire la mia scelta, vi prego.
Vi voglio tanto bene.
Vostra figlia.