Life akbar
Martina Dei CasMartina Dei Cas
Sono nata nel 1991, vivo ad Ala (Tn) e frequento la 3ª classe del Liceo Economico all’Istituto Fontana di Rovereto. Figlia unica, mi piace leggere e ho sempre pensato che sarebbe stato incredibilmente divertente riuscire, un giorno, ad inventare una storia tutta mia, che però coinvolgesse anche tanti altri ragazzi della mia età e regalasse loro un sacco di emozioni positive da usare per affrontare con una marcia in più la vita di tutti i giorni. Adoro anche viaggiare e spero di riuscire a trovare una professione che mi permetta di farlo. Il mio sogno più grande e irrealizzabile è quello di imparare tutte le lingue del mondo, perché così, visto che non so mai tenere a freno la lingua, potrei almeno essere certa di essere capita su ogni cm2 del globo!!!
IL RACCONTO
Buongiorno cari signori e signore, mi chiamo Ester, Ester Verani, sono
molto, molto timida e non so bene il perché ho deciso di raccontarvi la
mia storia, o meglio, vorrei che foste voi a capire le motivazioni che mi
hanno spinto a farlo e spero di cuore che non cadiate in coma sul più
bello dalla noia!
Dunque, partiamo con ordine, da quel 5 aprile ‘79 che è il giorno della
mia nascita.
Papà mi ha detto più volte che, quando uscì dal garage con la sua vecchia
Ford per portare mamma in ospedale, si trovò di fronte uno spettacolo
meraviglioso: pioveva fitto e sulle cime delle montagne innevate non si
intravedevano ancora i bagliori dorati dell’alba.
Tutto era cupo, della Luna non c’era nemmeno l’ombra e solo una piccola
ma persistente stella illuminava la scena.
Il parto non fu difficile, ma rimaneva ancora un grosso dilemma: come
mi dovevano chiamare? In breve intorno alla mia culla si formò un capannello
di parenti, pronti a disputare un match di pugilato con mio padre se
non mi avesse dato il nome che suggerivano.
Mi salvò l’eccentrica zia Conny, un’antropologa che viveva in America e
aveva pure contratto una specie di matrimonio Sioux.
Sostenendo che il “Grande Spirito” aveva già scritto il mio destino,
chiese a mio padre di ripercorrere tutti gli avvenimenti della giornata, per
darmi un nome in sintonia con la mia anima.
Ripensando così alla stella che avevano visto la mattina i miei genitori
scelsero, tra lo sbigottimento dei presenti, di chiamarmi Stella, o meglio
Ester, un esotico nome persiano con lo stesso significato.
Mi sa però che la zia Conny non aveva ancora affinato al meglio le sue
arti di sciamana perché io, nonostante il nome delicato e favoleggiante,
sono cresciuta proprio come un maschiaccio.
Anziché giocare con le Barbie, mi divertivo a scompigliare la cuccia
del mio vecchio cane Arnold e a sfidare i miei compagni in impossibili
esperimenti che finivano sempre con l’esplosione di almeno la metà degli
ingredienti.
Ero spericolata e così, quando i miei amici mi chiesero di partecipare
ad un’escursione in alta quota, non rifiutai di certo, ma decisi di portare
Arnold con me.
Purtroppo improvvisamente lo persi di vista e tutte le ricerche furono
vane.
Lo ritrovammo circa una settimana dopo, con una vistosa ferita ormai
in cancrena sulla zampa sinistra.
Piansi, pregai e mi disperai, ma alla fine mio padre e il veterinario
convennero che la cosa migliore da fare fosse sopprimerlo.
Mi opposi con quanto fiato avevo in corpo: io e quel cane eravamo un
binomio perfetto, non potevano separarci, almeno non così; ma alla fine
fui costretta a vedere quella siringa affondata nel collo del mio amico, che
smetteva finalmente di sussultare e sembrava rasserenarsi nella fredda
compostezza della morte.
Per giorni nessuno riuscì a scuotermi: ero persa nel mio mondo immaginario
e mi sentivo responsabile della vicenda.
Ciò durò finchè un giorno mio padre spazientito disse: “Ma insomma,
ti rendi conto che in altre parti del mondo c’è gente vera che fa quella fine?
Capisci che ci sono bambini come te che perdono un braccio, una gamba o
addirittura la vita? E bambini che se sono malati non possono curarsi in ospedale
e altri che potrebbero farlo se solo qualcuno non gli sparasse prima?
Non pensi che forse sarebbe più giusto far qualcosa per loro che non star
qui come una vedova in lutto?”.
Quelle parole furono per me come una scossa elettrica e ben presto
tornai alla mia vita di sempre, archiviando Arnold nella scatola dei casi
risolti e superati.
Qualcosa però era cambiato in me: non sopportavo più la vista del
sangue e le siringhe dei prelievi mi facevano urlare d’orrore, ma al tempo
stesso volevo salvare quante più vite possibile per esorcizzare la paura
della morte.
Mi iscrissi così a medicina e mi specializzai in chirurgia, mentre il mio
migliore amico, Luca, sognava una carriera come ginecologo.
Un giorno eravamo giusto seduti in facoltà, quando notai sul tavolino
di fianco al nostro un curioso volantino.
Avevo come uno strano presentimento: quel foglietto avrebbe cambiato
la mia vita. Come attratta magneticamente lo presi e lessi ad alta voce:
”Cerchiamo giovani specializzandi in medicina per volontariato di supporto
ai civili in Afghanistan. Per info contattate Arnold Sly”.
Altro che segno del destino, questo era un invito con raccomandata:
non potevo rifiutare, anzi riuscii anche a coinvolgere Luk nell’avventura.
Venti giorni dopo eravamo già in volo per Kabul, una città che porterò
sempre nel cuore, per quella sua gente, così fragile, lacera e misera, ma
anche così orgogliosa e piena di voglia di ricominciare.
Ci fermammo lì per una settimana e poi partimmo per le montagne:
erano così belle, selvagge ed incontaminate, eppure così drammaticamente
insanguinate.
Io e Luk fummo separati.
Io finii in un paesino chiamato “Al- Fatima”, in onore di una moglie di
Maometto, mentre Luk rimase a Lagash.
Fin dal primo giorno in cui misi piede al villaggio, capii che non avrei
avuto vita facile. Mi presentai con deferenza al mullah, ma quando provai
a spiegargli che ero un chirurgo e non una pediatra come lui credeva mi
cacciò brutalmente e intimò a tutti gli uomini dei dintorni di non avvicinarsi
a me.
Solo le donne potevano venire e così conobbi Shirin che, pur avendo
la mia stessa età, sembrava già vecchia.
Il suo nome significa “Fiore” e lei è proprio così: un dolcissimo fiore,
prezioso e delicato, che pur essendo già appassito per mancanza di cure si
aggrappa disperato alle rocce tra cui è cresciuto, per evitare di venir estirpato.
Suo figlio era caduto mentre aiutava il padre nei campi e lei voleva
che gli dessi un’occhiata o almeno così mi disse, ma fin da subito mi sembrò
di sentir puzza di bruciato e così gesticolando a più non posso per
supplire le nostre carenze linguistiche, mi spiegò che da qualche mese le
faceva male il seno.
Pregando di sbagliarmi la visitai e mi resi conto che aveva un pericoloso
nodulo: non sapevo che fare, dovevo riuscire a portarla a Lagash,
così mi recai dal mullah e gli chiesi di poter utilizzare il suo satellitare
almeno per qualche minuto.
Lui per tutta risposta scoppiò in una risata grossolana e falsa,
dicendo: ”Bè, se avessi gli attributi sì, ma visto che sei solo una donna e
per di più occidentale penso che tu conosca già la risposta!”.
Me ne andai furibonda e mi recai dal capo-guerriglia, che scoprii essere
anche il fratello di Shirin.
Gli spiegai la situazione, convinta che avrebbe capito.
Ma no, non appena gli feci la diagnosi iniziò a sbraitare, diceva che
sua sorella non era una brava musulmana, che si era ammalata perché non
pregava abbastanza.
Ma come si permetteva? Non si era reso conto che Shirin si ammazzava letteralmente di fatica
per i suoi figli?
No, non capiva, per lui era solo una stupida ed inutile donna, ma per
me no: l’avrei aiutata da sola.
Iniziai così a spedire lettere alle organizzazioni umanitarie e ottenni
risultati strepitosi: Shirin sarebbe potuta venire a curarsi in Italia, mancava
solo il consenso del marito.
La sera prima della partenza andai a casa sua e la trovai che piangeva,
suo marito non voleva firmare il modulo e non ci fu verso di fargli cambiare
idea.
Partii così sola e più amareggiata che mai.
A Lagash ritrovai Luk, nemmeno per lui era stato facile: un ginecologo
maschio non può visitare le donne in Afghanistan, o meglio può secondo
la legge, ma molti mariti non lo permettono.
Di comune accordo decidemmo di tornare in Italia, anche se non avevo
nessuna intenzione di tornare ad occuparmi di insoddisfatte quarantenni
decise ad evitare il divorzio ricorrendo alla chirurgia plastica.
Luk però mi chiese di rimandare ancora qualche mese, perché voleva
assistere al parto di Saida, una sedicenne alla sua prima gravidanza, che
era stata portata in ambulatorio dal padre, il quale era sempre stato presente
a tutte le visite con cipiglio severo, ma non aveva mai dimenticato
di ringraziare lo staff dell’ospedale per l’aiuto che dava alla gente comune.
Questo successo ci scaldò il cuore, era piccolo e un po’ isolato, ma era
pur sempre un inizio.
Arrivò il giorno del parto e, pur, con il ricorso al cesareo, tutto andò
bene.
Nacque una bimba stupenda, con la pelle eburnea e due vispi occhi
castani: la chiamarono Ester in mio onore.
Era giunta l’ora di partire: mentre salivo sullo sgangherato camioncino
che ci avrebbe portato in aeroporto ripensai a tutte le emozioni che quei
mesi mi avevano regalato, mi tornarono in mente i successi, i labbri leporini
che avevo curato negli orfanotrofi, le malformazioni congenite estirpate
e i volti di quelli che non ce l’avevano fatta.
Il veicolo intanto sobbalzava ad ogni buca, ma all’improvviso si fermò.
Era al bivio che portava verso “Al-Fatima” e dal sentiero che scompariva
tra i monti si vedevano arrivare tre macchine con le insegne della guerriglia.
Ero spaventatissima, ci mancava solo che ci prendessero in ostaggio
l’ultimo giorno, eppure quelle macchine erano familiari.
All’improvviso da quella centrale scese un uomo con un lenzuolo tra le
braccia.
Oddio! Avvolta tra quelle coperte c’era Shirin, pallida ed emaciata,
ma viva.
L’uomo era suo fratello, promosso da poco all’interno della guerriglia.
Per la prima volta mi guardò negli occhi, contravvenendo alle regole
della sua tradizione, poi con delicatezza mi prese la mano e la strinse, iniziando
contemporaneamente a parlare: ”Sai, da quando te ne sei andata
sono morti sei bambini al villaggio, ho capito che questo non può essere il
volere di Allah e così sono venuto a cercarti, ti prego, salvala, è vero, è una
donna, ma il Corano dice di rispettarvi e proteggervi, non di lasciarvi morire
come mosche.
Ho sbagliato tutto. Fin da piccolo ho imparato ad urlare al cielo Allah
è grande, ma non ho capito che c’è un inno ancora più grande: quello alla
vita!
Tu sei un chirurgo, non importa se sei un uomo o una donna: il mondo
è pieno di bambini da salvare e tu lotti per loro!”
Piangendo presi in consegna Shirin e gli risposi mezzo in arabo e
mezzo in inglese: “You’re right! Life Akbar! Hai ragione! La vita è bella, la
vita è grande!”.