Quarta edizione 2007 • segnalato seconda categoria

Il bancone

Ivan Zampar

Ivan Zampar

È nato a Udine nel 1972, dove tuttora risiede. Col tempo è stato avvocato (ma è riuscito a smettere), regista e coautore di uno spettacolo teatrale e, di recente, papà. Attualmente fa l'educatore. Quando ha tempo, scrive (ha partecipato a un paio di concorsi letterari e qualche volta gli è andata bene), legge, suona e cerca di essere felice assieme alla sua famiglia.

IL RACCONTO

“… del resto, in posti come questo, invasi dall’abitudine come fossero vecchie case aggredite dalle erbacce, dopo un po’ finivano per assomigliarsi tutti, nei discorsi, nei gusti, persino nelle facce. Quella che veniva qui non era certo gente che aspirasse a distinguersi o a brillare. Se venivano qui era per confondersi, per dimenticarsi di se stessi, del proprio tempo. Venivano per bere, per lasciarsi cadere dentro a un mazzo di carte con nessuna voglia che qualcuno venisse a prenderli, cosa che comunque la moglie di taluni di loro talvolta faceva, entrando nel buio di questo posto per tentare di recuperare mariti sempre più imbrigliati nei loro ritardi, matrimoni sempre più sbrindellati dalle incomprensioni.
Come dici? Sì, esatto, tutti uomini. E non perché sulla porta ci fosse un qualche cartello che vietasse l’ingresso alle donne, ma pensaci: una donna cosa ci sarebbe venuta a fare? Una donna non sarebbe stata in grado di sostenere due ore di discussione calcistica su un fuorigioco, o tenere a mente i punti in una partita a briscola, o improvvisare dieci minuti di bestemmie e insulti al governo. No, non era posto per loro.
Il nome? Bè, certo, “Capolinea” è un nome bizzarro, sicuramente non comune per un bar. Ma viene da lontano, dal tempo in cui qui sorgeva il capolinea della vecchia linea del tram. Sì, quella del bordello. Come cambiano le cose, vero? Una volta, ai tempi del tram, fin qui arrivava solo un pugno di vecchiette inacidite e sdegnate, mentre il grosso degli uomini era sceso due fermate più giù, pronto a portare stipendio e sogni alle ragazze della vecchia Ilda. Adesso di donne qui non se ne vedono più; molte di loro risiedono proprio nei palazzoni che hanno costruito sulle macerie del bordello. Gli uomini, invece, eccoli, attaccati alle partite in TV o impegnati a nuotare nelle loro caraffe di vino. Sì, le cose cambiano, ma senza mai mescolarsi o avvicinarsi. Il nome, però, è rimasto e qualcuno lo prende ancora alla lettera, vedendolo davvero come l’ultima stazione prima del ritorno a casa o come l’ultima stazione e basta. Gente che, ormai, si confonde con l’arredamento, gente a cui il postino porta qui le lettere e che se manca la si chiama a casa. Come Ennore, ad esempio. Quando è morto, è stato qui, nella saletta col televisore, che si è aperta una damigiana di cabernet e gli si è offerta la veglia funebre. Lui, di certo, ne sarebbe stato felice.
Perché tanto attaccamento a un posto come questo? Credo che la risposta sia un nome e quel nome è Beatrice. Vedi, in tempi in cui molti locali avevano optato per attrazioni come il biliardo, la TV satellitare, le slot machine o altro, Adelmo, il gestore del Capolinea, aveva preferito il metodo “alla vecchia”, senza strabiliare con la tecnologia o attirare con il gioco. Aveva preso i suoi clienti per altre parti, meno nobili forse, ma altrettanto efficaci. Gli era bastato mettere dietro il bancone un culo e due tette e con quello si era sistemato.
A quel culo e a quelle tette c’era attaccata suo malgrado proprio Beatrice, una ragazza che, a quanto dicevano, abitava qui in città. E lo dicevano con una punta di dubbio perché in realtà nessuno aveva mai capito da dove venisse o con chi vivesse. Del resto, chi ha idea di cosa faccia il sole una volta tramontato? Perché così era Beatrice. Alle sei, quando il Capolinea apriva, lei era lì, a illuminare la vita dei disperati già avvinghiati alle loro sedie e alla sera, quando il locale chiudeva, lei spariva, lasciando dietro di sé solo un’orbita vuota e un po’ di tramonto.
Ma a quelli che erano lì, bastava. Bastava vederla, bastava sognarla.
Bastava per dare un senso alle loro giornate e per distinguere il Capolinea da tutti gli altri locali. Nessuno ha mai capito dove Adelmo l’avesse tirata fuori, ma quando tiri fuori il numero giusto della lotteria non ti fai troppe domande. Ti limiti ad essere felice e, come Adelmo, a vedere il locale che, giorno dopo giorno, si riempie di gente. Gente che è lì proprio per Beatrice.
Non per dedicarle poesie, certo, né per regalarle rose o per offrirle grandi dichiarazioni. “Quando smonti, stasera, non è che per caso hai voglia di rimontare con me?” Non erano artisti, erano solo poveri diavoli che si avvicinavano a nuovi paradisi, cercando di improvvisare dopo essere scivolati nella scollatura di Beatrice, incapaci di rialzarsi. A Beatrice, piccola viola spuntata chissà come in un campo di ortiche, il ruolo di scafata maitresse non confaceva e le attenzioni del suo pubblico non erano propriamente le parole d’amore che avrebbe voluto sentire. Si limitava a subirle, sorrideva come da contratto e aspettava che arrivasse l’ora di chiusura.
E intanto, nell’attesa, si trincerava dietro il suo bancone, nel piccolo mondo che si era creata per sopravvivere alla grettezza del Capolinea.
In effetti era bizzarro il colpo d’occhio di quell’angolo, sorta di meteorite colorato caduto in mezzo ad una landa pietrosa: il tavolino con le primule, giusto vicino allo scaffale delle grappe, il piccolo calendario con le foto dei bimbi che ogni tanto Beatrice coccolava con gli occhi, i gomitoli di lana adagiati come gatti sonnacchiosi su una sedia. A nessuno permetteva di oltrepassare la linea del bancone, il bancone che era diventato suo da quando Adelmo le aveva praticamente affidato la gestione del locale.
Solo lei oltrepassava quella linea, e solo quando vi era costretta per recuperare i bicchieri dai tavoli della sala o per pulire in giro, operazioni che cercava di concludere in fretta, schivando le manate e gli occhi degli avventori. Poi, di corsa, tornava col vassoio pieno di bicchieri da lavare dentro il suo piccolo mondo protetto, dietro il bancone che la schermava dalle battute e dai pensieri non proprio puri che i maschi del Capolinea le lanciavano. E una volta lì si fermava. Talvolta ad osservare gli oscuri motti sulle facce dei clienti durante una partita a briscola, comprendendoli allo stesso modo di una lingua orientale. Talvolta ad ascoltare indecifrabili digressioni sportive o discorsi su presunte schermaglie erotiche durante i quali mai sentiva pronunciare parole quali “amore” o “dolcezza”, unici concetti che, forse, l’avrebbero potuta avvicinare a quello strano mondo al di là del bancone. Più spesso a lavorare all’uncinetto la sua lana nera che sotto i ferri che vibravano tra le sue mani si trasformava, giorno dopo giorno, in qualcosa che assomigliava ad una sciarpa o ad un maglione.
“Per chi è?” Chiedeva qualche voce curiosa venata di malizia. “Per qualcuno che ancora non c’è.” Rispondeva una voce languida da dietro il bancone, immediatamente sommersa da risatine e ghigni.
Passavano così le giornata al Capolinea, tra l’immutabilità dei discorsi sul Milan e sulle tasse che aumentavano e i sogni, sempre più grandi, di Beatrice. In mezzo, il bancone nero con le spine della birra, un bancone che, nel corso dei mesi, Beatrice aveva iniziato a recintare con piccoli vasetti di cactus e alcune piantine finte. Distanze che aumentavano, potresti dire, ma devi capire che tra le parti di quella strana trincea si combatteva una battaglia antica, dove due sessi si affrontavano arroccati su posizioni che non intendevano cedere. O, forse, che non potevano cedere.
Se qualcosa davvero cambiò fu quando al Capolinea Antonio trovò finalmente il coraggio di sedersi su uno sgabello vicino al bancone. Chi era Antonio? Bè, uno strano, a sentire quelli di qua dentro. Faceva l’infermiere in una casa per anziani, diceva lui. Pulisce il culo ai vecchi del ricovero, dicevano gli altri. Strano vuol dire molte cose, infatti. Vuol dire non sapere giocare a briscola, non intendersi di calcio o di formula 1, fare l’infermiere e non l’operaio in cantiere. Come tutti, anche Antonio smaniava per Beatrice, ma anche questo lo faceva in modo strano. I suoi occhi non si intrufolavano sotto la sua camicetta come quelli di tutti gli altri, ma spesso le guardavano i capelli, le mani. Talvolta addirittura gli occhi. Sì, era strano, Antonio. Strano che venisse al Capolinea, strano che fosse così timido. Parlò a Beatrice per la prima volta il 16 aprile di due anni fa, lei gli rispose il 16 aprile e due minuti. Non smisero più. Sembrò strano, certo, ma l’abitudine dei mesi seguenti consumò molta parte di quella bizzarria.
Diventando regola, diventando invidia a stento celata sotto le risate di chi, durante una partita a carte urlava “Asso di bastoni!” vedendo entrare Antonio nel locale. Mentre qualcun altro, senza farsi notare, si affezionava forse alla nuova tenerezza fiorita lì al Capolinea.
Come tutte le cose belle, però, anche quella durò poco. Fu sufficiente che Beatrice si ammalasse, che venisse sostituita dietro il bancone, che le primule sfiorissero. E che, infine, il suo cuore scoppiasse, troppo colmo di gioia, disse qualcuno. In un novembre insolitamente gelido, il Capolinea si trasferì per una mattina al camposanto dove un prete triste gettava acqua santa sopra una tomba. Quando arrivò Antonio non si sentì nessuna risata e il capannello di clienti assembrato davanti alla fossa si aprì istintivamente per lasciarlo passare. Lui non disse niente e a nessuno sembrò strano che indossasse una lunga sciarpa di lana nera…”.
E dire che ero venuto solo per una birra. Una birra e un po’ di quiete.
Capolinea, si chiamava il bar. La birra faceva schifo e la quiete me la rovinò un pazzo che per tutto il tempo mi parlò di primule e partite a briscola.
Continuò a parlare anche dopo che mi ero spostato su un altro tavolino.
Il padrone del locale mi disse di non badarci troppo. Era da quasi un anno andava avanti. Parlava da solo, continuando a raccontare una storia che solo lui capiva. Ricordo che eravamo in luglio e il tizio indossava una sciar- pa di lana. Sì, era davvero pazzo. Non chiesi il motivo, ma il padrone volle dirmelo lo stesso. Aveva superato il confine, disse, mentre con uno straccio puliva il bancone spoglio. Non capii quelle parole ma non chiesi spiegazio- ni, per paura che potesse darmele. Uscii e fu tutto.