Quarta edizione 2007 • segnalato seconda categoria

Le gocce devono cadere tutte

Giacomo Bianchi

Giacomo Bianchi

Nato a Belluno nel 1979, laureato in Ingegneria Biomedica, attualmente lavora a Pergine, Trento, e vive stabilmente in Valsugana. Nel 1997 è vincitore del Premio per la Pace under 18 a Verona, nel 1998 è vincitore del premio Modello Pirandello ad Agrigento e nel 2001 è primo classificato al Concorso letterario giovanile Paolo Fiorile di Storo, Trento. È appassionato di letteratura e fotografia.

IL RACCONTO

1. prima goccia
Un seggiolino giallo, di plastica lucida, agganciato al manubrio della bicicletta con due ferri arruginiti. Il nostro divertimento preferito: partendo, la prendevo sotto le ascelle e planava sul seggiolino con un lungo volo. Così, lei con occhi grandi ad osservare ogni istante, seduta come una spettatrice privilegiata sul mondo, io pedalando lentamente e guidando la bicicletta a grandi onde da un lato all’altro della strada, in controluce. La mattina all’alba le macchine tutte ferme, solo lei ed io. Quando fingevo di scontrarmi contro un muro o contro un albero, si portava le mani minuscole al volto, gridando aiuto aiuto papà fa un’incidente e io riuscivo a imma- ginare, sotto le sue candide mani, il sorriso furbo di ogni bambino rivolto ad un genitore complice del suo gioco. E allora sapevo che potevo insistere ed esagerare, magari passando con la bici tra le foglie umide di una siepe o pedalando più velocemente fingendo di perdere il controllo: Milia rideva, rideva sempre più, la complicità la faceva impazzire di sorrisi e io impazzivo con lei, pensando quanto poco mi occorre per sentirmi vivo, quanto poco ci occorre figlia mia... Anche adesso? Sbattere i piatti è il tuo rito della sera. Il rumore copre i silenzi, la porcellana sbatte contro l’acciaio. Ti osservo sempre dal mio angolo, in fondo alla cucina, abbassando il giornale che fingo di leggere mentre lo sguardo non tralascia per un istante ogni movimento dei tuoi gomiti. Quanto occorre per sentirsi vivi figlia mia? L’acciaio sbatte più forte del solito contro i piatti e provo a concentrarmi sulla pianta che mi cresce di fianco, sullo sfondo giallo della parete. Giallo, come il sellino. La pianta mi incuriosisce. Milia la chiama Spathiphyllum, insistendo che è il suo nome vero, quello tecnico. Pianta affascinante, lo Spathiphyllum: dalla punta di ogni foglia pende immobile una goccia di acqua, rotonda e trasparente. Penso ad una clessidra che regola le nostre esistenze. Una goccia si stacca ed in silenzio si spacca sulla piastrella. La prima goccia e non so quante ancora ne debbano cadere prima che...

2. avedon
Papà non parla mai, io non parlo mai. Parole che scorrono sotto le piastrelle nei tubi dell’acqua calda e si disperdono nell’umido della casa. Silenzio. Lui non capisce. Io non esisto. Io sosto. Si sosta tutti. Camera oscura. E rifugio. Lui è in casa ed io mi rifugio. Lui non c’è ed io cammino in ogni stanza e appoggio le foto dappertutto. Devono asciugarsi. Si fa così. Prendi il foglio bagnato e lo incolli con l’acqua alle piastrelle. E aspetti. Lui torna. Ma io prima stacco ogni segno, la carta plastificata si secca in fretta. Con la carta naturale i neri e i bianchi sono più belli. È un peccato. Ma la carta non si secca. Così lui non sa. Non si accorge di nulla. Mi crede nel rifugio. E io sosto. La vita è in sosta. La foto il rifugio. Mi piacciono le metafore. Vedere la vita a metafore. Io la vedo così. Oggi nel bagno oscurato ho portato una foto speciale. Non mia, di certo. È così perfetta. Le mie sono incise di puntini di polvere, di segni strani. Imperfette. Metafora anche questa? È di Avedon, la foto. La studio per imitarla. Una donna guarda l’obiettivo. Una donna, anni Cinquanta. “Cafè au réveil”. Parigi. Con un vestito bianco. O giallo. Il bianco e nero falsifica i colori. Con una mano regge il mento. Interroga chi la guarda. È in bilico per pronunciare parole. Una luce radente la illumina. Intorno uomini che fumano. Nuvole di fumo. E due palle da biliardo bianchissime. Non si accorgono di lei. Lei non esiste. Lei sosta. La sua anima in bilico. Anime in bilico. La luce in bagno è rossa. Il sodio solfito puzza. Io sto bene. Sosto.

3. seconda goccia
Tornare a casa è rivivere tutto, perfettamente. Da quanti anni? Quest’angolo di strada mi attende ogni giorno, imprescindibile. Non importa la pioggia che mi inzuppa i piedi, non importano i clacson del rientro a casa. Cosa importa? Alla sera la direzione della vita è riportata comunque in questa direzione. Il muro mi indica il ricordo. Quattro mattoni messi di traverso e cementati, come mille in città. Un muro è un muro, provo a raccontarmi. Ma non questo muro. Ogni giorno mi sembra di scorgere ancora la linea gialla del seggiolino che cadendo ha grattato contro i mattoni, dopo il tonfo secco. È rimasta lì per settimane a urlare il nostro strazio, a ricordarci quanto poco basta... a sentirsi felici? No, non più. Aiuto aiuto il papà fa un incidente. E davvero basta così poco Milia, come se quella pozzanghera per terra avesse riflettuto le tue parole, ricordandoci che il significato, quello vero, era quello speculare, quello terribile. E non lo scherzo di noi due, complici per un istante. Corro via, verso casa. La direzione della vita è questa, una fuga da allora. Se Milia fosse guarita, adesso... Da allora non parli, nè ridi. Non ascolti. L’acciaio sbatteva forte ieri sera Milia, ma come potevi sentirlo? Cosa è successo? Cosa provi racchiusa nei tuoi silenzi? Svolto l’angolo e in fondo alla strada si intravvede la ruota del lunapark, si sentono le grida dei bambini. Tu gridavi Milia, gridavi di gioia sulle tazze che vorticavano velocissime fingendo di scontrarsi. Quanto ti piaceva. Non volevi più scendere! Intanto salgo le scale, quattro piani, aprirò la porta e già sono sicuro che troverò una seconda goccia schiantata a terra, identica alla prima, ripetitiva come i giorni.

4. iposolfito
Papà non parla mai, io non parlo mai. Metafore eteree. La ragazza di Avedon mi interroga. Io non rispondo. Aspetto. Stampi le foto e risciacqui. L’iposolfito scorre via. Lo senti al tatto dopo poco. Non c’è più. Esco. In cucina le piastrelle sono più piatte. Le relazioni sono piastrelle. Piatte. Ferme. Attacco i provini. Dappertutto. Lui è fuori. Lui non sa. Non saprà. Ho scattato foto in casa ieri. Alle piante. I bulbi dei narcisi hanno messo radici nell’acqua. Polipi domestici. Anche lo Spathiphyllum. E il tronchetto. Li stamperò giganti. Imponenti. Oggi no. Solo provini. Piccoli. Ventiquattro millimetri per trentasei. La cucina ne è ricoperta. Aspetto. Mi sdraio per terra. Il sole scalda un lembo di pavimento. Mi rannicchio proprio su quel trapezio di luce. Mi lascio seccare come la carta. Io sono carta sensibile. La luce mi incide. Silenzio. Ma. Rumore di passi. È lui? Di scatto. Stacco tutto. Veloce Milia. Lui non sa. Non deve. Urlerei di paura. Se potessi. Ma niente parole. Non riesco. Mi blocco. Corro. Stacco. Cadono. I provini. Li riprendo. Affanno. Si attaccano tra loro. Umidi ancora. Affanno. Passi vicini. Guardo veloce. Libere. Pareti vuote. Solo piastrelle. Ferme. Io no. Io corro. Io mi rifugio. Io scappo. Camera oscura. La ragazza al Caffè è impassibile. Fissa nel vuoto. La ignorano. Fumo. Qui umidità. Provini umidi. Lui arriva. È in cucina. Io sosto. Non saprà mai.

5. terza goccia
Ora capisco. Le gocce devono essere lasciate libere, devono essere osservate con pazienza. E devono schiantarsi. Solo così avviene il miracolo. Mi domando se mai le gocce smetteranno di schiantarsi ripetitive e rispondo che non è detto, forse sono come gli uomini che dall’alto in mezzo ad una grande folla non sono distinguibili uno dall’altro. Ma se le gocce non sono identiche, allora nemmeno i giorni lo sono. Ed è vero. Ieri rientrando ho sentito strani rumori in cucina, come se qualcuno tutto d’un tratto tentasse di scappare. Come un ladro. Fino a questa mattina però non ci ho badato, concentrato ad ascoltare il suono dell’acciaio con tro i piatti, le movenze di Milia, il nostro silenzio di ieri sera, come tutte le sere. Oggi mi sono avvicinato alla finestra della cucina con la solita tazza calda di the fra le mani, per scaldarle, guardando nel giardino di fronte due cani piccolissimi e rotondi che già di prima mattina si facevano festa mordendosi e abbaiandosi. Loro sì, comunicano davvero, ho pensato. Poi sedendomi sulla sedia di vimini nell’angolo ho notato sulla parete alcuni fogli attaccati, minuscoli, due o forse tre. Foto in bianco e nero. A prima vista sembravano negativi stampati in positivo, non ingrandti. Sono foto di Milia, sicuramente, ma come sono finite in quell’angolo? C’entrano i rumori uditi ieri? Una della foto ritrae una donna bellissima in un caffè antico, penso l’abbia fotografata da una rivista, ne ha a centinaia e le rilegge ogni giorno, ossessivamente. La ragazza fissa il fotografo e nessuno intorno sembra curarsene. Mi sembra Milia nei suoi silenzi. Nell’altra foto invece – è una coincidenza che davvero stento a comprendere – lo Spathiphyllum campeggia enorme, fotografato dal basso con un grandangolare che lo fa sembrare più simile ad un albero che ad una pianta da appartamento. Sono confuso. Se i giorni non sono uguali uno all’altro, ripetitivi, allora oggi per la prima volta me ne accorgo. Per la prima volta da... Ed ora? Devo risponderle. Ho un blocco di fogli azzurri, con una striscia di colla per attaccarli e staccarli. Ne ho preso uno e il pomeriggio è trascorso lento, lentissimo. Cosa scrivere dopo anni ad una figlia che non conosci? Che non riconosci più? Alla fine mi sono deciso. È come al lunapark saltare su una giostra che ti terrorizza. Lo fai una volta e poi non vorresti più scendere. Il biglietto è attaccato alla piastrella, nell’angolo: “la donna sei tu, Milia?”

6. urlare
La donna del Caffè. È fuggita! Scappa! Urlare! Urlare! Urlare! Cosa è successo? Scoperta! Smascherata! Lui sa! Come fa? Dove lo sbaglio? Io come lei? La donna è Milia? Io sono lei! Sì! Sì! Papà sì! Hai capito! Come puoi? Mi conosci? Urlare! Urla Milia! Risponderai? Gli uomini. Rimasti nel Caffè. Gli uomini. Non le interessano. Più. Lei deve urlare. Lei esce. Lei urla per strada. Lei è libera. Io mi libero. Io rispondo. Rispondo! Non è uno sbaglio. L’anima vola, la sosta è conclusa. Rispondi Milia! Cosa? Altre foto! Tu e la ragazza del Caffè, insieme. Lui capirà! Lui capirà. Metafore! Lui capirà.

7. dialogo improprio
scritta su foglio azzurro:
La donna sei tu Milia?
fotomontaggio sulla piastrella:
Milia da bambina seduta in un passeggino a strisce bianche e rosse, le mani raggomitolate in grembo, con un berretto di lana blu. Dal suo sorriso traspare il viso della ragazza del Caffè. Le foto sono stampate una sull’altra, i bordi non coincidono, ma i volti perfettamente.
scritta su foglio azzurro:
L’avevo intuito. Ma non so ancora se l’hai voluto o è stato un caso. Dico, lasciare le foto sul muro. Sai, sono felice che ci parliamo. Ho molta paura, ma sono felice.
foto sulla piastrella:
Un muro, contrasto del bianconero altissimo. La foto è una trama di mattoni e gesso. In mezzo un taglio netto della carta plastificata.
scritta su foglio azzurro:
Hai ragione, i colori non esistono nelle tue foto. Ma la tua metafora è perfetta. Cosa più lacerante per noi di quel segno giallo sul muro? Il taglio rende il dolore, lo trasmette integro e improvviso. Tutto è iniziato lì. Ricordare assieme mi dà fiducia. So che possiamo farcela.
foto sulla piastrella:
La stessa foto, grigia e piatta, stesso muro. La trama è quasi irriconoscibile. Nessun taglio al centro adesso. È sfuocata, volutamente.
scritta su foglio azzurro:
Sono felice, figlia mia. Ricordare assieme è rielaborare. E passare oltre. Intanto è caduta anche la quarta goccia, ma quasi non ci ho fatto caso. Neanche tu immagino. È scesa sopra la tua foto, è rimasta pochi secondi sulla superficie e poi è scivolata a terra. Occorre pazienza, mi dicevo. L’abbiamo avuta, credo.
foto sulla piastrella:
La ragazza del Caffè. Sparita. La foto è quella originale, con un disco di bianco puro al posto del volto della donna. Il Caffè attorno a lei continua a vivere indifferente.
scritta su foglio azzurro:
La ragazza del Caffè è sparita. Ho paura. Scapperai anche tu? Forse no. Non ora. È una metafora vero? Tu adoravi le metafore fin da piccola, figlia mia. Allora dimmi: dove troverò la ragazza del Caffè? Dove parleremo Milia ascoltando il suono delle nostre voci?
foto sulla piastrella:
Il lunapark visto dalla collina. Mezzogiorno. Sole a picco. Solo bianco splendente e nero pieno. Bordi nitidissimi. Sensazione di luce brillante.

8. lunapark
Dalla collina la giostra delle tazze è grande come un bottone in mezzo alla città. Un bottone sfuocato, con i bordi che si costruiscono e svaniscono e si scontrano, le tazze sempre più veloci, sempre più impazzite. Che siano le tazze di quel Caffè di Parigi? Che Milia le abbia rubate scappando, come la donna del Caffè, impazzita di gioia? In mezzo al turbinio azzurro e bianco una sottile linea gialla si intreccia e si tesse in mille ricami, stagliata sullo sfondo, annodandosi e sfibrandosi, poi ricomponendosi, all’infinito. Milia, i suoi capelli biondissimi. Mi attende. Un vortice di bianco e azzurro e giallo e lei al centro che canta a squarciagola e trema e ride e nessuno la ferma e la giostra continua per sempre il suo giro su se stessa, ubriaca di lei, ubriaca di vita. Devo solo camminare e raggiungerla. O correre. Correre da mia figlia. Mi lancio, corro, corro e intanto penso alle gocce, in casa, asciutte come tante impercettibili foto, scivolate a terra. Penso: le gocce devono cadere tutte perchè possiamo sentirci davvero felici. E intanto scivolo verso Milia, goccia anch’io.