SCAPPATO DI MENTE
Federica MandatoIL RACCONTO
Le chiamano risate. È quando il fiato esce tutto d’un colpo dalla bocca e dalle narici, irrefrenabilmente, a causa di una parola o di un gesto che viene interpretato come ridicolo, oppure come segno di simpatia. Io non capisco sempre di che si tratta, ma quei suoni che escono dalle bocche della gente sono coinvolgenti, come un cane che inizia ad abbaiare e si trascina dietro tutto il latrare possibile dei dintorni.
Per me fu una scoperta. Avevo passato buona parte della mia esistenza chiuso in una stanza, quasi sempre solo e non sapevo se sarei riuscito a capire le cose che c’erano fuori, esistite da sempre, vissute da milioni di persone, tranne che da me.
In quella condizione come non avere paura? Se solo si avvicinavano troppo a me scattavo come una molla, una trappola per topi arrugginita che improvvisamente si ricorda di funzionare. E forse per questo anch’io facevo paura agli altri.
Il mio isolamento, però, mi aveva sempre protetto.
Chiuso in quell’istituto con tante stanze, pochi visi felici, tutti sempre di corsa e la mia mente vuota. Vuota, mi dicevano.
Non sai pensare, mi dicevano, nemmeno un po’, solo il minimo per aprire la bocca e mangiare. Le tre parole chiave, mi avevano insegnato, erano: grazie, basta, ancora.
Io ne sapevo qualcuna in più, ma non osavo usarle, perché temevo la punizione e avevo il sospetto che se avessi usato troppe parole, mi sarebbero scappate dalla mente per sempre e la fatica che avevo fatto per mettercele sarebbe stata inutile.
Non ricordo quando è stato, ma ad un certo punto, guardando il muro della mia stanza, nella penombra della sera, quando le infermiere e i dottori non passano più e le immagini sono tante sulle pareti, proprio una di quelle sere mi accorsi che le parole, infondo, non servivano gran ché. Forse avevo imparato la lezione del silenzio.
Ma senza parole comunicare era difficile e col linguaggio del corpo andavo male, niente insinuazioni sottili, niente ghigni o risate furbe, niente gesti con le mani, le avevo sempre in tasca e niente occhiate in giro, non si fissa la gente!
Così, sono passati circa quindici anni, ne avevo già un po’, prima di finire là dentro, ma di prima non mi ricordo, mi ricordo di dopo, del giorno della fuga, soprattutto.
Avevo paura che mi venissero a cercare, che mi riportassero indietro, che mi lavassero con la doccia fredda, che mi rifacessero il letto con le cinghie e stringessero ancora forte.
È come un abbraccio, diceva l’infermiera, fai finta di essere tenuto sulle ginocchia dalla mamma. Che mamma? Mi inquietava quella parola, tanto dolce e tanto inutile.
Ed io scappai.
L’infermiera aveva fatto il giro delle stanze, spento le luci, chiuso dietro di sé le porte, lasciando la mia accostata, perché era passato il dottore e le aveva dato un bacio, per poi andarsene via assieme, in fretta. Io avevo imparato che se tenevo il fiato a polmoni pieni, quando mi legavano al letto, dopo, rilasciando l’aria c’era più spazio tra me e le cinghie.
Così, potei sgattaiolare fuori dall’abbraccio di cuoio e prendere le scale ancora col pigiama addosso, per non dare nell’occhio, mentre sotto indossavo la camicia e i pantaloni.
Faceva freddo, era buio e non sapevo dove andare.
Vidi in fondo alla strada una luce che si accendeva e si spegneva, colorata e strana. Sembrava uno dei miei sogni, dopo le visite del dottore, dopo le medicine e le punture.
Entrai. Qualcosa di puzzolente mi invase la faccia, riempiendomi le narici e facendomi venire un senso di vomito. C’era poca gente, tutti grandi, attorno ad un tavolo alto e lungo, dove un tizio stava solo da una parte e tutti gli altri dove stavo io.
Che facevano non lo so, ma ridevano. Quella fu la prima volta, o una delle poche, insomma, che mi accorsi di quelle strane smorfie rumorose. Non potei fare a meno di ripetere quei gesti, perché ne ero contagiato e tutto, in quello sfogo, prendeva un nuovo colore.
Il tizio dietro il tavolo lungo mi chiese se avevo sete perché offriva lui, quella era una giornata di festa.
Io feci di sì con la testa ed il tizio mi mise davanti al naso un grosso bicchiere con della roba gialla e schiumosa. Era molto amara e feci fatica a mandarla giù, ma dopo il primo sorso la finii, fino in fondo.
L’allegria, poco per volta, mi parve sempre più forte e irrefrenabile. Perché non ero scappato prima, mi chiesi, ma a quel punto il sonno fu talmente forte che appoggiai la testa sulle mani e mi appisolai sul tavolo.
Un dolore forte, come un coltello lungo che penetra nel collo e va verso l’alto, fino alla nuca, mi fece svegliare.
Ma la sorpresa fu grande vedendo che attorno a me non c’era più nessuno. Capii che doveva essere passato molto tempo e l’uomo dietro al tavolo lungo stava, ora, davanti a me, con vestiti diversi e con un’aria non più amichevole.
Forse avevo finito di sognare, nessuno rideva più e, anzi, ebbi l’impressione di non poter trattenere le lacrime.
L’uomo mi accompagnò fuori, perché doveva chiudere e mi indicò un posto non lontano dove stare fino alla mattina dopo, un’altro posto con un cartello colorato e lampeggiante, un po’ più piccolo, con una scritta che iniziava per H.
Non so leggere bene, non so nemmeno scrivere bene, solo il mio nome e qualche altra parola, ma l’H la riconosco subito. Mi ricorda Ms. Hallog che veniva qualche volta a trovare i ragazzi dell’istituto. Passava per i corridoi con quel suo cappello colorato e pieno di piume.
Ti guardava dritto in faccia. Lei poteva permetterselo, perché era normale, viveva fuori dall’istituto e viaggiava molto, conosceva tante cose e parlava e parlava.
Una volta venne anche da me. L’aspettavamo sempre Ms. Hallog, arrivava il giovedì e l’infermiera segnava sulla bacheca del corridoio il suo nome tra le visite del giorno, con una grande H e il resto.
Ms. Hallog, ci disse l’infermiera, verrà per qualche mese. È una persona anziana, perciò dovete trattarla bene, ma vi porterà un po’ d’aria fresca, dovete esserle grati.
Ma io l’aria fresca non l’ho mai sentita.
Forse Ms. Hallog entrava da una finestra che dava sul cortile e faceva corrente? Ma mi pare improbabile, perché le finestre hanno tutte le sbarre e sono molto in alto. Ci sarebbe voluta una scala.
Ms. Hallog mi sorrise, quella volta che venne da me, mi disse che ero un bravo ragazzo e che col mio fisico avrei potuto fare l’atleta. Chissà che voleva dire.
Anche il pugile, le rispose il dottore che la seguiva.
Io avrei voluto piuttosto fare il dottore per avere il dottore come mio paziente, dargli qualche puntura, fargli sentire cosa si prova ad essere infilzati in quel modo e avrei voluto dargli tutte quelle pillole amare. Ma non mi sarebbe affatto piaciuto farlo per troppo tempo, solo un po’, per dargli l’idea di cosa si sente.
Insomma, in quel posto che inizia per H alla fine non ci andai, perché all’entrata mi chiesero troppe cose che io non sapevo.
Il parco mi sembrò l’idea migliore, avevo dormito sotto al letto qualche volta, quando riuscivo a sgattaiolare fuori dall’abbraccio di cuoio, dalle cinghie e dal resto.
Mi pareva di essere più libero, là sotto. Nessuno avrebbe mai dormito così, era una cosa solo mia, solo uscita da me. E al parco, su una panchina, non era più scomodo che sotto al letto, appena un po’ più umido.
Mi attorcigliai nei vestiti, mi sentivo abbastanza confuso e inebetito, come se un martello battesse il tempo del mio cuore sulla mia testa e poi il sonno vinse.
Mi appisolai, prima con la sensazione che avrei finito per ammalarmi, poi con quella che non mi sarei mai più risvegliato. Magari sarei rimasto lì, come le farfalle che entravano in camera mia la sera d’estate e restavano chiuse dentro, attaccate alla parete, dormivano forse, ma la mattina dopo le trovavo sul pavimento a pancia in su. Anch’io mi sarei ritrovato a pancia in su la mattina dopo?
E poi era già quasi mattina, il bagliore del sole, poco poco, iniziava a riempire l’aria umida dei dintorni.
Gli alberi e gli insetti si stavano preparando alla colazione ed io non avrei forse nemmeno mangiato.
Ci volle tutta la mia forza, al risveglio, per sciogliere il grosso nodo che mi imprigionava nella posizione in cui mi ero messo la sera prima. All’inizio mossi i piedi che stavano ancora lì e con quelli mi aiutai a spingere le gambe e a raddrizzarmi. Avevo freddo, tanto freddo e attorno a me non c’era nessuno.
Dopo un po’ vidi un uomo, tutto scuro, con un berretto in testa, sembrava un corvo col becco lucido, ma non appuntito, un becco da papera sulla fronte. Si avvicinò.
Aveva un simbolo sul petto, luccicante, che mi piaceva molto. Mi sorrise anche lui, forse era parente del barista o di Ms. Hallog.
Mi chiese se stavo bene. Io dissi che avevo freddo, molto freddo e che non riuscivo a capire che ora fosse. Mi disse che erano le dieci di mattina.
Avevo dormito troppo e sicuramente lui era lì per sgridarmi. Gli chiesi se potevo avere comunque la colazione o se non la servivano più.
Lui sorrise di nuovo e mi domandò se avevo una casa. Una casa? Avevo un istituto, ma se glielo avessi detto mi ci avrebbe riportato. Preferii dire che vivevo lì vicino e che avevo litigato col dottore di casa.
Ma lui parve non capire. Il dottore di casa? Mi chiese.
Non sapevo cosa dire, dovevo scappare prima di mettermi nei guai. E così, dissi che sarei andato via e che non doveva preoccuparsi. Ma lui non parve capire e mi rispose che forse sarebbe stato meglio se lo avessi seguito.
Tremavo dal freddo e mi sentivo in pericolo, non sapevo che fare. L’uomo nero ad un tratto mi prese per un braccio. Io avevo paura, molta paura e non volevo tornare all’istituto. Non volevo proprio. Tirai via il mio braccio dalla presa, ma l’uomo parve irritarsi molto.
Mi disse con voce forte di stare calmo e di andare con lui senza storie. Io mi inquietai ancora di più. Stava succedendo qualcosa di grave, mi rendevo conto che dovevo fare qualcosa, ma mentre pensavo l’uomo mi riprese il braccio e tirò fuori da una tasca due tondi di ferro, attaccati da una catena.
No! L’istituto no!
Vidi le mie mani aperte davanti a me, spingere con forza l’uomo, come fa lo stantuffo di una siringa, bum!
L’uomo barcollò indietro e perse l’equilibrio. Cadde. Io scappai. Lui iniziò a fischiare e da lontano arrivarono altri uomini neri. Stessa tribù.
Mi raggiunsero e mi circondarono. Io mi sentii le ginocchia piegarsi e mi misi a piangere.
Lasciatemi stare! Lasciatemi!
Gridavo disperato e non potevo fermarmi.
Lasciatemi stare!
Gli uomini si avvicinavano sempre di più, erano tanti, erano minacciosi. Corvi-papere, forse non avevano ancora mangiato e volevano mangiare me. Corvi-papere neri e minacciosi.
Spintoni, botte, calci, più mi divincolavo, più mi saltavano addosso e picchiavano.
Basta! Lasciatemi!
Arrivò una scatola di metallo con le ruote, grande e nera anche quella. La scatola rombante dei corvi-papere.
Lasciatemi!
Mi fecero salire e appena dentro, capii che non sarei più stato libero. Più.
Ms. Hallog ora viene di venerdì, perché il giovedì si incontra con le sue amiche del cucito.
Ma non viene da me. Nessuno viene da me.
Io guardo dalla porta imbottita con la fessura di vetro, vedo Ms. Hallog passare davanti alla mia stanza, ogni tanto si gira e mi fa un sorriso.
Ed io le sputo!