Prima edizione 2001 • secondo classificato seconda categoria

Konduktora

Fabio Marcotto

IL RACCONTO

A San Pietroburgo mi muovevo soprattutto col tram. Andava piano e potevi guardare le case, le strade, la gente. C’era quasi sempre posto a sedere, non come nei bus o nella metropolitana. Non avevo fretta, salivo e viaggiavo anche per ore.

Erano tram sfiniti dal tempo, mangiati dal vento e dall’acqua e con le porte butterate di ruggine. Marciavano su monconi di rotaia sprofondati nell’asfalto o tra le pietre vive che rattoppavano le strade più lontane dal centro. L’urlo del ferro si alzava quando il tram era ancora dietro la curva, poi entrava nel viale e strideva incontro alla fermata fino a coprire ogni altro rumore. Si aprivano tutte le porte e si poteva entrare dietro, davanti e anche in mezzo.

Mi piaceva soprattutto salire sull’11.
Girava intorno al Marinskij, passava la Neva, scendeva sulla Vasilevskij e arrivava fino al Golfo di Finlandia. Mi piaceva perché si infilava anche dentro le strade più piccole e si vedeva la città cambiare fino ai mucchi di terra e alle massicciate di pietra sul mare. I palazzi imperiali, il Lungofiume dell’Università, la casbah attorno alla stazione del metro, i cortili scalcinati e sporchi della prima periferia, i grattacieli di cemento della Russia sovietica alla fine della città.

Quasi sempre scendevo prima del capolinea e facevo a piedi il viale largo e dritto che portava davanti all’Hotel Pribaltiskaja.
Poi dietro c’era soltanto il mare.
Un giorno che ero stato al Pribaltiskaja avevo scritto nel diario: “una concreta presenza metafisica”. L’avevo riletta e quella frase mi era sembrata letteraria. Qualche tempo dopo avevo letto qualcosa di Aldo Busi dove diceva che non c’era niente di peggio della letterarietà. Ero tornato in quel posto ma non mi era venuto in mente nient’altro.
Quello che si vedeva era un blocco liscio e scuro di cemento e finestre e intorno i grattacieli sovietici e davanti il mare e sopra il cielo. Tuttalpiù una sfinge senza testa o una base spaziale. Ma chissà cosa avrebbe detto Busi di due metafore così.

Era una geometria assurda e affascinante al tempo stesso.
Un giorno ci portai Sandro e gli chiesi cosa gli sembrava. Uno spettacolo irreale, mi disse. Che non mi sembrò una definizione tanto meglio della mia.
Perché andavo sul Golfo davanti all’Hotel Pribaltiskaja? Nessuno avrebbe potuto dire che quel posto era bello. Ma era così lontano da Rimini o dall’estenuata bellezza di Cala Gonone. Io mi sedevo in fondo alle scale al riparo dal vento, leggevo, guardavo, buttavo sulla carta un’idea e a quei tempi tenevo appunto un diario.

Mi sembrava di fare così qualche passo dentro una città che per me allora era soprattutto un muro.
Poi un giorno vidi la konduktora che sull’11 controllava i biglietti.
Salii davanti al Marinskij e mi sedetti. Lei iniziò il giro da in fondo, mi si piazzò davanti e allungò la mano. Alzai gli occhi su una faccia arcigna e grinzuta che dimostrava sessant’anni ma pensai ne ha cinquanta. Piccola e secca, tutta un osso e un nervo.

Tirai fuori un biglietto da dieci rubli e glielo allungai. Neanche preso, iniziò a maciullare una litania di imprecazioni dentro due labbra che si afflosciavano come una camera d’aria bucata. Capivo male il russo ma era chiaro che voleva moneta.
Mi frugai nelle tasche, non trovai niente e allargai le braccia. Lei alzò la voce e mi piantò addosso due occhi piccoli un bottone ma sbarrati tutti e due e molto cattivi.
Poi mi strappò la banconota di mano, la riempì di copeche da dieci e si girò tra sacramenti e bofonchi. Tornò in cima al vagone e si sedette su un sedile ricoperto con un telo giallastro. Sopra sgualciva una tendina rosso scuro e sotto c’era scritto: posto riservato al konduktor.

La rividi due tre viaggi dopo. Questa volta mi ero preparato due rubli esatti in tasca. Li afferò con un grugnito di approvazione, mi strappò un biglietto e tornò a sedersi sul sedile giallo. Poi il tram iniziò a riempirsi. Mi alzai per lasciare il posto a una vecchia ma si sedette la ragazza che stava in piedi davanti a me. Sul Srednij Prospekt ormai ci pestavamo i piedi l’uno con l’altro.

Fu quando vidi la konduktora infilarsi sotto l’ascella di un uomo e tagliare la massa fino in fondo al tram che capii quanto quella donna era grande. Arrivava dove voleva, si reggeva in piedi senza attaccarsi alle maniglie, incassava i soldi e staccava il biglietto. Ma soprattutto: si ricordava perfettamente tutti quelli a cui aveva già fatto il biglietto. Nella calca più fitta, non le sfuggiva un nano.

Nei mesi successivi avrei poi avuto modo di apprezzare queste figure che mi veniva solo da dire eroiche. Perlopiù donne, perlopiù anziane, sbrindellate e spesso unte di morchia e fetenti di tram.
Avrei visto scarpe pesanti sfondate dall’uso, scarpe da tennis squarciate sul lato, piedi saldati dentro ciabatte da spiaggia, pantaloni azzurri da tuta, maglioni verde pisello sotto incredibili giacche di pelle viola consunta, grembiuli blu officina scuciti di dietro.

Avrei visto un sacco di volte la divisa del konduktor del tram. E sotto questa divisa quasi sempre una donna che sul lavoro sapeva il fatto suo e il suo lavoro sapeva addirittura riempirlo di orgoglio. Gente povera e poverissima con una dignità solenne e un’energia che mi sembrava andasse oltre l’umano. Ore e ore nel caldo e nel freddo nei fiati e nel tanfo, tra curve e frenate.
E poi, dove andavano a fare pipì? Me lo chiedevo spesso quando dopo avere bevuto una birra tenevo duro fino davanti al water di casa e mi svuotavo con sofferente voluttà.
Ma la konduktora del tram numero 11 era qualcosa di diverso e di meglio.

Una volta, tornato dal Pribaltiskaja, mi sedetti due tre posti dietro di lei. Tenevo le gambe accavallate e guardavo la strada. Quando mi predisposi ad osservarla la colsi con gli occhi fissi sotto il mio sedile. Li alzava, poi fissava di nuovo con insistenza. La ignorai. Cercai in giro per il tram, tornai a guardare fuori.

Quando mi girai di nuovo verso di lei lei era ancora lì con gli occhi sotto il sedile. Cosa vuole?, pensai. La cosa andò avanti qualche minuto. Alla fine piegai la testa per cercare un qualche motivo lì sotto: dalla suola della mia scarpa destra penzolava un elastico di plastica impolverato e zozzo.
Messo a fuoco, era un preservativo srotolato per intero e gonfio di una bolla gelatinosa in fondo. Abbassai la gamba, strofinai la suola contro il pavimento e il preservativo si incastrò nella griglia di ferro del riscaldamento.

La konduktora non fece una piega. Tornò a perdere lo sguardo nel vetro di fronte e non cercò più niente. Non fece una smorfia, nemmeno un sorriso di scherno o un commento. Che stile, pensai. Quello sguardo mi avvertiva, con discrezione e rispetto. Mi aveva detto stai attento, non sta bene. Mi aveva detto corri il rischio di fare una brutta figura. Mi aveva detto qui in Russia non siamo abituati. E nessun passeggero aveva sentito niente.

Mi sembrò che con quello sguardo un pezzo di muro fosse caduto.
Così col passare dei mesi le mie gite al Golfo di Finlandia erano diventate più che altro i miei viaggi in tram con la speranza di incontrare lei e la sua borsa.
La borsa grigia che la konduktora teneva dietro il sedile giallastro da dove un giorno tirò fuori un sacchetto e poi un coltello e poi un termos e poi un tagliere e poi una boccettina e poi un bicchiere di plastica verde.
Aprì la boccettina, ci infilò il coltello, ne uscì con uno strato di smetana spesso un dito, lo spalmò su due fette di pane, affettò una cipolla, ce la sparse sopra e iniziò a triturare tutto con potenti colpi di mascella che le scavavano la guancia e subito la riempivano del prossimo boccone. Poi sbucciò una rapa e una mela.

Prima mangiò la mela e poi la rapa. Rimise tutto dentro la borsa e fu la volta del tè che avrei visto decine di volte scorrere dal termos al bicchiere e dal bicchiere alla gola, d’estate e d’inverno, di sera e di mattina.
Dentro quella borsa la konduktora si era organizzata tutto il pranzo e la cena e la sua vera passione era il tè, che sorseggiava nei momenti di fiacca e in ogni occasione, come del resto molte delle konduktore che avrei visto con gli anni nei tram, nei bus e nei filobus di San Pietroburgo.

Dentro quella borsa c’era gran parte dell’energia e della consolazione che serviva per quel lavoro disumano. E il tè non era sola consolazione ma anche piacere, il piacere delle babushke nei musei statali e nei cessi pubblici, nei negozi di dischi e nelle bancarelle di vestiti, negli spacci di birre e sigarette e nei chioschi di shaverma e blinj, negli sgabuzzini delle università e nelle portinerie dei grattacieli, nei guardaroba dei teatri e negli uffici della posta.

E queste cose io a quel tempo iniziavo a conoscerle in quel tram che accompagnava le mie domeniche stanche o le mattine buie della città in inverno. In quel tram di Pietroburgo ci sono i miei ricordi più forti e di quel tempo mi ricordo un sacco di cose. Ma soprattutto mi ricordo l’ubriaco.
Un uomo alto ameno uno e novanta, un pezzo d’animale lento e goffo con due mani grosse due martelli, sporche di unto senza unghie, e gli occhi rossi pieni di acqua e di alcol. Salì trascinando dentro i piedi e un tanfo che toglieva il respiro.

Franò sul sedile, piegò la testa e si addormentò di colpo. Un ragazzetto diede di gomito alla madre e si mise a sorridere. Iniziarono a sorridere anche alcuni passeggeri intorno. L’ubriaco si svegliò qualche minuto più tardi quando il tram sobbalzò su un binario più storto degli altri. Si svegliò, sbrodolò un lamento e alzò la testa. Poi sbarrò gli occhi e cacciò un urlo che riempì il vagone e spense ogni altro rumore. Tutti si girarono verso di lui.

Le palpebre gli scivolarono sugli occhi e la testa calò sul petto. La rialzò di scatto, tirando i muscoli del collo. Si guardò intorno e saltò in piedi. Si sedette subito dopo, schiantando sul sedile.
Fece per dire qualcosa, poi sorrise. Ridivenne subito serio e intonò una cantilena che rimbombava sorda dentro il ferro del tram. Adesso tutti tacevano. Una signora fece un passo indietro, il ragazzetto si attaccò al cappotto della madre.

L’ubriaco cantava, sempre più forte. Poi si interruppe all’improvviso, sbarrò gli occhi e sferrò un pugno bestiale contro lo schienale di ferro del sedile davanti. Esplose in una risata che gli morì in gola con un barbuglio di catarro. Si alzò in piedi, sbandò indietro, si appoggiò al sedile, trovò l’equilibrio allargando le gambe e riprese a cantare.
Quindi avanzò verso un uomo che stava in piedi davanti alla porta. Gli si piazzò davanti e cominciò a cantare più forte. L’uomo fece un passo indietro e andò a schiacciarsi contro il vetro del finestrino posteriore. L’ubriaco avanzò ancora e si piegò su di lui.

Gli stava a cinque centimetri dalla faccia e io pensai adesso succede qualcosa. L’ubriaco continuò a cantare addosso all’uomo paralizzato dal terrore. Vidi la mano dell’uomo afferrare la sbarra e sbiancare sotto i nervi che stringevano l’acciaio. L’ubriaco si fece ancora più sotto. Poi si alzò di colpo e barcollò verso l’altro lato del tram. Andò a sbattere contro una donna seduta, si raddrizzò e riprese a cantare piantato sulle gambe divaricate in mezzo al vagone.

Cantava e ruotava la testa fissando la gente. Cantava sempre più forte. Sbarrava gli occhi, le palpebre gli si chiudevano lentamente. Poi le sollevava di colpo. Il vagone era solo la sua voce roca e profonda mentre tutti lì dentro lo fissavano in silenzio. Tutti lì dentro guardavamo l’ubriaco e pensavamo adesso succede qualcosa.

Arrivò la konduktora. Avanzò decisa verso di lui. Gli si infilò quasi sotto quella testa grossa un macigno, lo guardò negli occhi e disse: “pazhaluysta”, perpiacere. Lui sgranò gli occhi, smise per un secondo di cantare e subito riprese più forte di prima. Lei non abbassò gli occhi e ripeté: “pazhaluysta”. Lui alzò la voce e si piegò sulla faccia della vecchia fino quasi a sfiorarla. La sua voce adesso era un canto sgangherato e accelerato che sussultava con le ruote del tram e si spezzava nei salti più bruschi.
La vecchia disse ancora “pazhaluysta”. Lui non si mosse di un centimetro, nessuno nel tram si mosse di un centimetro. Tutti lì dentro pensavamo adesso l’ammazza. Ma nessuno aveva il coraggio di muovere un dito.

La konduktora ripetè pazhaluysta, lui continuò a sbraitare, la konduktora ripeté pazhaluysta lui continuò a sbraitare. Andarono avanti per qualche minuto.
Poi la voce dell’ubriaco si fece più lenta, più bassa. Finché finalmente si spense. L’ubriaco alzò la testa, si guardò intorno, sorrise. Tornò a sedersi sull’unico sedile vuoto nel tram. Si alzò solo per uscire, due fermate più tardi.
E poi un giorno sul tram numero 11 la konduktora non c’era più. Ci ritornai la settimana dopo e ancora dopo un mese. Al suo posto adesso c’era un uomo sui quaranta con due basettoni a metà guancia.

Gli chiesi se sapeva qualcosa della vecchia. Lui mi fissò, alzò le spalle e proseguì a controllare i biglietti verso la coda del tram.