Il foglio tatuato
Sara PasseriniIL RACCONTO
Alle persone che lottano per smaterializzare invisibili barriere laccate di egoismo.
1.
Finito di comporre quella che lui considerava: "Una confessione in piena regola" si adagiò sul letto e si mise a meditare, accese la radio e decise di non sprecare le ultime ore che lo accompagnavano al mattino rugiadato, così si mise a modellare la creta rimasta inerte sulla formica.
Quando "creava" (a lui piaceva definirsi "un creatore d’uomini senz’anima") si sentiva libero d’essere ciò che era, si sentiva autorizzato ad esprimersi senza indugi, sentiva che lui era creta e che la creta non era altro che una parte dei suoi pensieri, e così in quella sera di settembre modellava, plasmava, creava mentre il mattino con il passare delle ore nasceva e mentre ancora la sua ingenuità lo portava a credere che tutto sarebbe andato per il meglio.
La notte passò, e così il giorno seguente iniziato con una mattinata solare e concluso con una tempesta tanto forte da preoccupare i genitori di Giacomo, il quale, ignaro del futuro che lo aspettava, lasciava vagare i pensieri nella sua stanza ed il loro susseguirsi disordinato acquietava il suo animo, ed il loro ritmico cambiamento d’intensità lo portava ad assaporare ogni attimo di quella tranquillità, ogni silenzio rotto solo dai tuoni che rimbalzavano nel cielo ma non nella sua mente.
Il giorno seguente si alzò presto, doveva andare al mercatino dei libri usati e lì aspettare il suo turno e sperare di trovare qualche libro in buone condizioni per l’anno scolastico che s’apprestava, fin troppo in fretta, a giungere. L’inutile ricerca occupò molto tempo e quando tornò a casa era da poco passato mezzogiorno.
2.
Maria aveva conosciuto il padre di Giacomo al liceo, era stato il suo primo ed unico uomo, si erano sposati quando lei aveva ventidue anni ed era stata costretta ad abbandonare gli studi a causa della gravidanza non prevista.
La sera precedente aveva litigato con il marito a causa del temporale che tanto lo spaventava, ma ora in quella mattinata di libertà (il marito era a pesca ed il figlio a cercare libri) si accingeva a pulire la casa con una strana ed inconsueta ilarità, si sentiva forte e sicura di se, si sentiva perfino pronta ad affrontare una visita dalla suocera, così progettò per il pomeriggio di andare a trovare la madre del marito che non vedeva da quando, alla fine dell’anno scolastico, era stata obbligata (dalla consuetudine, dall’abitudine, da quel continuo ripetersi di riti che nel corso degli anni l’aveva tanto disturbata) ad andare con il figlio per informarla dei risultati scolastici.
Quel giorno notò le nuove creazioni di Giacomo, lei lo amava molto e riconosceva in lui che ciò che non era mai stata, un’artista.
Sul liscio ripiano bianco ed azzurro si ergevano nuove persone dalle gambe molto lunghe, dal colorito legnoso e dalle braccia sproporzionate, si mise ad osservarle con ammirazione e curiosità e, mentre si chiedeva cosa suo figlio volesse comunicarle con quell’interminabile serie d’inconsuete persone, notò un foglio di carta piegato scrupolosamente su se stesso.
Questo catturò la sua attenzione, dopo un lungo attimo d’esitazione, incerta tra la curiosità e il rispetto prese il pezzo di carta, lo aprì prestando attenzione a fargli mantenere la piega desiderata ed iniziò a leggere, prima con leggerezza, poi a mano a mano che iniziava a capire sempre con maggiore attenzione, leggeva tentando di cogliere le emozioni del figlio, leggeva con l’ossessionante speranza che quelle parole ben allineate non fossero la realtà o perlomeno che non fossero state scritte da Giacomo, la creatura che lei aveva cresciuto, che aveva iniziato a vivere tramite il suo corpo, che aveva come prima cosa mangiato dal suo seno; ma riconosceva chiaramente la sua calligrafia e così presa da una vertigine si sedette sul letto.
La lettera (lo scritto che tanto aveva allarmato la madre era una lettera) appariva come una chiara dichiarazione d’omosessualità. Pensando a ciò che aveva appena saputo si sentì mancare ed un infinito susseguirsi di domande s’impossessò della sua lucidità lasciandola ansiosa, preoccupata, triste e sola nella pallida stanza che s’affacciava su un terrazzo piastrellato ed adorno di piante.
3.
Nel pomeriggio Giacomo aprì qualche vecchio libro di scuola, anche solo per rendersi conto che tra poco sarebbe iniziato il suo ultimo anno di superiori, il più impegnativo, quello che più conta.
Preferì iniziare con letteratura perché era la materia in cui riusciva meglio ed anche quella che preferiva, così, tre un autore e l’altro le ore scivolarono velocemente nel baratro del tempo lasciandolo stupito quando la madre lo chiamò per la cena.
Durante il pasto si respirava tensione, c’era silenzio, cosa insolita per una famiglia la cui unica occasione d’incontro è proprio la cena e nella quale sussiste l’abitudine di raccontare, anche se brevemente, la propria giornata; Giacomo si rendeva conto che qualcosa non andava, avevano litigato ancora?
Aveva forse fatto lui qualcosa di male?
Preferì non indagare e con un po’ di quell’antipatica tensione cenò ed andò a prepararsi. Quella sera sarebbe andato alla festa d’apertura di un nuovo locale con dei suoi amici, stava uscendo quando pensò di prendere la lettera per spedirla.
Gettò uno sguardo sulla scrivania ma non la vide, si mise a guardare meglio, magari era involontariamente caduta per terra a causa di una finestra aperta oppure non l’aveva messa sulla scrivania ma altrove; guardò a terra, niente, sul comodino, niente, nel cestino, niente, nel letto, niente.. l’ansia stava aumentando, come poteva verla persa? come poteva non sapere dove fosse la sua confessione?
Mille dubbi lo assalirono, decise di mantenere la calma e pensare lucidamente a quando la stava scrivendo, a dove poteva averla appoggiata, ci pensò e ripensò mille volte, era certo di averla appoggiata accanto alle sue creazioni, ne era convinto ma torturava la sua mente in continuazione, le faceva rivivere minuto per minuto la stesura e l’abbandono del manoscritto.
Ribaltò tutta la stanza ma perdeva solamente tempo, della lettera nessuna traccia.
Si convinse che forse l’aveva riposta in qualche tasca, così perquisì ogni capo scaraventandolo poi a terra. Il tempo passava e Giacomo si era dimenticato della brillante serata che fino a qualche ora prima occupava i suoi pensieri, erano le undici passate e lui era ancora al centro della stanza, ripiegato sui vestiti sparsi ed ormai sfatti, con le mani tra i capelli brillanti di sudore.
Ripensò al pomeriggio, se studiando letteratura aveva notato la mancanza o la presenza di quell’importante foglio tatuato. Si rese conto che, anche nel pomeriggio mancava ed un atroce dubbio, si insinuò nella sua mente, placò lo scorrere del tempo e lo angosciò: e se qualcuno lì a casa, entrando nella sua stanza, notando e leggendo i suoi segreti avesse appreso tutto? Si sentì mancare e si abbandonò con tutto se stesso a quel pensiero che lo accompagnò ben presto nel sonno.
Quella notte non passò velocemente e Giacomo sognò di incontrare il suo amico Daniele, il suo migliore amico Daniele per strada mentre leggeva il giornale; questi gli lanciava strane occhiate sbiadite poi alzava lo sguardo e fissandolo incredulo gli spiegava che c’era sul giornale un articolo che parlava della sua omosessualità e che questo articolo era stato scritto da suo padre.
Altri sogni turbarono il suo sonno inquieto e quando si svegliò gli parvero tanto veri da farlo stare male, si guardò attorno e si rese conto di essere anch’esso accasciato a terra come uno di quei vestiti ormai privati della propria intimità.
Questo lo riportò subito alla realtà, la lettera era scomparsa e lui doveva fare qualcosa, parlarne con la sua famiglia, tentare di mentire, confessare… con questi pensieri nella testa rimase immobile, gettato a terra con l’incertezza che si burlava di lui.
4.
Anche per la madre quella non fu una notte facile, gli incubi rapivano il suo sonno intermittente e lei riuscì ad addormentarsi quand’ ormai il cielo stava per albeggiare.
Si alzò verso le undici, con la stanchezza nelle ossa e i segni di una notte insonne sul viso, si guardò allo specchio, vide una donna vecchia, angosciata, con occhiaie profonde, con il viso carico di piccoli fossati attorno agli occhi, sulla fronte ed attorno alle labbra.
Si lavò il viso, andò in camera, guardò nel primo cassetto del comò, sotto la biancheria, era lì, la verità era lì, protetta dal candore della stoffa bianca e profumata, come una lumaca è protetta dal suo guscio, come un uomo è protetto dalle mura della sua casa.
Aveva deciso di tenere la lettera con sé nella speranza che il figlio, notandone l’assenza, andasse da lei e chiedendole spiegazioni, le confessasse il suo segreto, ma finora il figlio non aveva ancora agito ed era ormai passato un giorno intero.
5.
Con la chitarra in mano e l’inerzia nel corpo e nella mente, Giacomo lasciò trascorrere la giornata in un silenzio profanato solo da qualche debole nota. Sentiva il peso dell’omertà, il macigno che si portava sulle spalle era fatto di parole non dette, di frasi non sentite, di paura di essere ciò che non si è.
Quando arrivò sera decise che non poteva più tacere il suo segreto, aspettò l’ora di cena cercando le parole migliori per dirlo ma la sua mente sembrava parlare un’altra lingua, gli pareva che il suo vocabolario fosse tanto limitato da non poter trovare delle parole adeguate.
Lasciò perdere, avrebbe detto ciò che provava, senza tanti giri di parole, senza girare attorno al concetto, senza nascondersi, senza paura.
Con una strana forza della quale anche lui si chiedeva la provenienza entrò in cucina, tutti erano seduti al tavolo, camminò lentamente fino alla propria sedia, si sedette, respirò, respirò forte, aprì la bocca e disse con orgoglio misto a indecisione: "Io amo gli uomini".
Tutti smisero di parlare, si voltarono verso di lui, lo guardarono con stupore, la madre si mise le mani tra i capelli e chiuse gli occhi con tutta la forza che possedeva, quasi volesse con quel gesto cancellare le parole appena udite, il padre lo guardò, incredulo, con la durezza nello sguardo, contorse le labbra e con uno strano grugnito gli chiese di ripetere ciò che aveva detto.
Giacomo si fece coraggio ed ancora una volta disse ciò che aveva provocato tutto questo, il padre si alzò dalla sedia con la rabbia e la delusione nel corpo, guardò il ragazzo e con voce secca disse: "Tu non sei più mio figlio"; Giacomo si sentì come un pugile appena steso a tappeto, la forza che lo aveva spinto a confessare se n’ era andata ed aveva lasciato il povero ragazzo spossato, i suoi occhi gettavano lacrime di rabbia e tristezza, lacrime di infinita incomprensione.
Quegli occhi guardarono la madre in cerca di comprensione ma trovarono un muro, un muro fatto di pregiudizi, un muro laccato di egoismo.
Giacomo si alzò dalla sedia ed andò nella sua stanza, si mise una giacca ed usci di casa, come per cancellare gli ultimi dieci minuti della sua vita. La madre restò in cucina con gli occhi chiusi, il padre era nella stanza da letto e pensava.
6.
Era una serata fresca, Giacomo camminava lentamente, chiudeva gli occhi e respirava forte, sentiva il fresco invadere il suo corpo tramite quei respiri; non aveva una meta, voleva solo dimenticare ciò che era appena successo, sapeva che era solo la prima reazione che li aveva colti di sorpresa, con un po’ più di tempo avrebbero capito. Andò alla stazione dei treni, luogo che gli era caro per svariati motivi. Respirava profondamente, sempre più in profondo, quasi volesse lui stesso diventare aria, aprì gli occhi e guardò il cielo, era bello.
7.
La mattina seguente Maria andò alla stanza del figlio per svegliarlo e rassicurarlo per il comportamento della sera precedente, gli avrebbe spiegato che aveva reagito così perché non si aspettava tanta schiettezza e perché era confusa.
Bussò alla porta, nessuna risposta, bussò con più energia immaginando che Giacomo dormisse, ancora niente, decise di entrare ma appena aperta la porta vide che il letto non era stato toccato, la stanza era in disordine, tutti i vestiti erano sul pavimento, come cadaveri scomposti, si spaventò, pensò che il figlio fosse fuggito, urlò il suo nome molteplici volte ma non ebbe risposta, guardò se aveva lasciato una lettera o un messaggio ma niente, si allarmò, il marito non era in casa, era al lavoro, gli telefonò subito per sapere se avesse notizie del figlio, al telefono il padre si agitò molto, era scosso, confuso, disse che non sapeva niente ma che avrebbe chiesto un permesso immediatamente.
Maria si recò alla polizia per denunciare la scomparsa ma le dissero di non preoccuparsi perché a volte i figli se ne vanno per qualche giorno, perché a volte dormono da amici, Maria si sentì snobbata, angosciata da tanta freddezza e derisione e decise di andare a casa.
Arrivò il marito, con il viso alterato per lo spavento, per il dolore che la colpa fosse sua. Poco dopo giunsero degli agenti per chiedere la descrizione, i dati anagrafici, l’ultima volta che era stato visto, i genitori rilasciarono le informazioni chieste e gli agenti se ne andarono con il viso preoccupato e con il presentimento che Giacomo fosse il ragazzo della stazione.
L’ansia cresceva con il passare del tempo, i genitori erano tesi come corde di violino, non capivano cosa intendessero gli agenti con quell’affermazione circa un ragazzo della stazione, regnava il silenzio, la preoccupazione era notevole.
Suonò il campanello, con uno scatto Maria si gettò ad aprire la porta, con mani tremanti, con la fronte bagnata di sudore; era un agente, chiese di entrare, lo fece accomodare in salotto, l’agente iniziò il discorso con il viso contorto dal dolore parlando dei giovani, di sogni infranti, di liti in famiglia, i genitori interruppero il discorso chiedendo di arrivare al dunque, l’agente sospirò e disse con tristezza e compassione che era stato trovato un ragazzo morto nella stazione dei treni, che non era chiaro se fosse stato un incidente o un suicidio, che i dati da loro forniti del figlio corrispondevano purtroppo a quelli della vittima trovata.
Il silenzio si fece più forte, la madre iniziò a tremare forte, a gridare, a piangere, il padre si mise il viso tra le mani e delle lacrime caddero ai suoi piedi, l’agente disse che magari ci sarebbe stato bisogno del riconoscimento di ciò che rimaneva del cadavere, il padre alzò il viso scosso e bagnato e si propose per farlo. L’agente si scusò di essere portatore di cattive notizie e con viso affranto se ne andò.
Maria sembrava pazza, gridava frasi senza senso, pregava Dio che quel cadavere non fosse quello di suo figlio, il marito si abbandonò sul divano, si maledì mille volte per ciò che aveva detto al figlio la sera precedente, dette dei pugni sul muro, pianse in ginocchio, silenziosamente, prego perché non fosse lui ma dentro di se sentiva che era così, sentì che la vita del figlio era stata spezzata, la sua giovinezza conclusa.
8.
Qualche giorno dopo il funerale, Daniele il miglior amico di Giacomo, ancora incredulo di ciò che era successo vide tra la posta una lettera indirizzata a lui, senza mittente, la aprì, vide la scrittura e gli occhi divennero lucidi, iniziò a leggere:
Credo che ogni persona debba amare innanzi tutto l’essenza dell’altra persona, ciò che l’altro è e non come appare, non capisco secondo quali canoni questa società che si definisce post-moderna scelga le persone da allontanare, quelle da emarginare, quelle da giudicare sbagliate, quelle da trascurare. Qual è il limite da non superare se non si vuole entrare a far parte degli intrusi, il limite è il conformismo, la maggioranza diventa la normalità, chi non è come la maggioranza delle persone deve andarsene o subire, l’apparire della maggioranza è tutto per questa società, è molto più dell’essere dei pochi, questo è il limite, questo è il canone di giudizio, chi è sopra o sotto, o semplicemente vive in modo diverso va allontanato, è l’elemento che potrebbe intaccare, è l’elemento di disturbo, è l’elemento da emarginare. Le carceri sono disposte il più possibile lontano dal centro, come per non disturbare "i normali", i centri di povertà, come le favelas non sono al centro delle città, sono la periferia delle città, per non disturbare con il loro squallore, con la loro puzza, con la loro sporcizia; se fossero al centro non lasceremmo che fossero così perché ci renderemmo conto di ciò che vivono quelle persone, ma noi non vogliamo che succeda e continuiamo ad allontanare, ad esiliare, a escludere chi non ci piace, chi è diverso. Io mi sento l’abitante di una favelas nonostante la mia casa sia in centro, mi sento in una prigione dorata lontana da tutti nonostante io sia un cittadino libero, mi sento un diverso, un emarginato, mi sento solo con le mie creazioni. Sono solo un omosessuale circondato da eterosessuali, ecco cosa sono, ed è per questo che sono diverso, e per questo appena si saprà sarò emarginato, sono solo una persona che assapora il contenuto anziché guardare l’involucro, sono solo uno che si innamora di chiunque sia bello dentro e non m’importa se quell’anima è stata affidata ad un corpo maschile, non m’importa. Ed è da questa società piena di contraddizioni che verrò allontanato. Buttato via come del cibo avariato, come un oggetto guasto ed irreparabile. Caro Daniele lo voglio dire a te perché so che tu capirai, so che non mi giudicherai, è a te che lo faccio sapere, solo a te per ora, solo a te che mi hai capito quando ho manifestato senza consenso dei miei, a te che sei speciale perché non importa se condividi o no ciò che ti si dice, ma lo accetti per quello che è, lo capisci, te che mi conosci così bene da sapere che quando affermo una cosa lo faccio perché ci credo, te che mi appoggi quando tutti mi sputano addosso, ti prego, fallo anche questa volta, non lasciarmi soffocare tra i pregiudizi e i luoghi comuni, tendimi la mano, riportami a galla, stammi vicino ed apprezzami anche se tutto il resto del mondo mi lancia stupidi semi di mais, dolori intensi e momentanei che però feriscono e lasciano scivolare via la voglia di vivere. Accoglimi nelle tue forti braccia quando tutti mi spingono via perché non mi vogliono, non abbandonarmi anche se non sono come te. Sei l’unica persona su cui conto ora come ora, appena sapranno faranno ciò che ho scritto, ti prego, fai anche tu ciò che io penso farai.
Ti voglio bene, tanto bene
Giacomo