Il Dio ebbro nella notte
Francesco RossiIL RACCONTO
“Che fatica nuotare in un mare di noia …” Cesare quella sera non voleva bere. Ma a dirla tutta non avrebbe nemmeno voluto uscire di casa, tanto gli era andata di traverso quella vita notturna senza scopo che faceva da un paio di mesi a questa parte. Dove stava il divertimento vero? La gente, la musica, i balli … tutto era ancora distante ed irraggiungibile. Comunque c’era la Rosa che lo tormentava nei pensieri, c’erano gli amici insistenti e soprattutto c’era ancora aria d’estate, di libertà: sapeva che presto tutto sarebbe svanito, lavato via dalle piogge torrenziali di settembre, il mese del rientro.
Così alla fine s’era convinto anche lui; indossata la solita maglietta decente, i jeans, una passata di gel sui capelli … et voilà, ora stava seduto a un tavolino del bar, fuori, davanti a Gigi, uno della compagnia, e a una birra piccola, ancora per metà piena. Aspettavano gli altri.
“ Senza pinne, senz’aria, in un mare di noia…” La radio del bar, una vecchia radio da spiaggia inutilmente voluminosa, continuava a vomitare le solite dieci canzoni della hit del momento, che a forza di assediare ossessivamente i timpani e di riempire del loro suono le stanze dei locali fumosi, stavano perfino cominciando a diventare belle.
D’altronde quella era l’unica cosa viva a quell’ora nel paesino, perché dopo che l’ultimo spiraglio di sole aveva smesso di far capolino dalla sommità delle creste a occidente -e accadeva assai presto, perché in quel punto terminale la valle era molto stretta l’ ultimo occhio dei vecchi si chiudeva secco, assieme alle rustiche imposte che sbattevano, e si riaprivano all’alba.
Ed ecco che le case, poche, ammonticchiate attorno alla chiesetta sul poggio come pecore contro l’acquazzone, entravano in una stasi notturna simile ad un letargo, e diventavano tutt’uno con le montagne. Tutto così taceva, eccetto il piccolo bar : era lì dove il cuore della vita continuava a pulsare, dove i giovani iniziavano le loro giornate senza sole e partivano ansiosi di godersi la notte. Interminabili viaggi in moto fin su per le roste, inerpicandosi, tornante dopo tornante, lungo le pendici dei monti, in cerca dell’avventura. Oppure in cerca del sesso.
Ma Cesare quella sera proprio non ne aveva voglia, ed era da un po’ che non ne aveva; da quando lui e Stefano erano tornati dalla Sagra del paesino appena di sotto, sboccando violentemente ad ogni curva, e poi aveva dormito sul pavimento davanti casa, perché non riusciva a trovare l’ingresso. E inoltre pensava al giorno dopo, quando si sarebbe tirato su a fatica verso l’una con la testa pesante, dopo un sonno pieno di buchi turbinosi in cui, gli occhi sbarrati, sudato sotto le coperte, il soffitto avrebbe girato e girato sopra di lui pieno di ombre strane, quasi riflessi beffardi e deformati dei volti abituali.
Guardò Gigi: altro che volti abituali! Come al solito se ne stava estraneo a tutto e a tutti sul suo telefonino di recente acquisto.
“Ehi Gigi, quando arrivano gli altri? Li hai sentiti?”
“ Ho appena chiamato ora Stefano, e ha detto che dovrebbe esser qui a momenti”. Si guardarono, entrambi, con uno sguardo spento.
Si vedevano molto spesso,eppure era quello che conosceva meno e a cui meno pensava dei suoi amici.
In quell’ istante irruppe rumoroso (al solito) quel diavolo di Stefano, che per l’occasione s’era tirato dietro Pier. Dopo un sonoro “ ciao ragazzi, come va?” fu subito dietro al bancone della Marta, una donna robusta sulla trentina che gestiva il locale, alla quale, per propiziarsene la benevolenza o per suo spasso personale, faceva sempre mille moine e versi, ricorrendo al suo vasto repertorio di frottole e barzellette, che tanto divertivano la gente. Stefano era affabile ed intelligente, estroverso.
“ Fighette, stasera … ?” disse accompagnando le parole con uno sguardo che viaggiava fisso su ognuno. Guardò Cesare, che fece immediatamente una smorfia, quasi un abbozzo di sorriso sdegnoso, all’angolo della bocca, per far vedere che non ne sentiva il bisogno.
“ No, niente” rispose frettolosamente Gigi “solo la Jessica con il suo bècco, poi niente fino ad ora”.
Stefano indossava una camicia a quadretti azzurri dal collo ampio, sbottonato, che ondeggiava in libertà fuori dai bordi dei jeans; aveva lunghi capelli un po’ ondulati che gli cadevano fin quasi sulle spalle. “Sempre la solita storia” si disse, ma serbando comunque un certo ottimismo negli occhi. Poi aggiunse “sapete, la Rosa stasera ha chiamato e ha detto che verrà qui.” Tutto in lui esteriormente, tranne gli occhi accesi, denotava disordine e trasandatezza, ma c’era anche un non so che di spontaneo e misterioso che lo rendeva attraente, anche con le ragazze.
Al tavolino arrivarono nuove birre per la compagnia. I bicchieri furono presto sollevati: “Ai quattro cavalieri dell’apocalisse, cin …” fece Pier in tono buffonesco “… e alla Rosina” aggiunse qualcuno sghignazzando, e tutti risero di gusto. Anche Cesare, ma il suo era un moto forzato e tutto esteriore. Persino la Marta rise, sciorinando quei suoi dentoni che la facevano somigliare ad una cavalla. Nessuno rifiutò e bevvero.
L’allegria frizzante già cominciava a fare il giro del tavolino, e i quattro ragazzi bevevano, ognuno a modo suo, al calice di una giovane amicizia; lo spirito, i giochi, le parole sulla gente, i racconti e le chiacchiere non variavano mai molto, ma forse era quello il bello, perché ogni sera era come se fosse la stessa sera da sempre e per l’eternità. Il tempo così non passava.
Cesare per conto suo avrebbe preferito una notte attorno al fuoco di un bivacco, magari lassù in alto, dove la montagna acquista un senso: guardi il cielo dal suo stesso piano, e dall’alto vedi tutta la curva del mondo, che si ridimensiona e diventa piccolo, minuscolo, un’inezia. Assieme, stretti, e con una chitarra urlare canzoni alla luna: quello era il suo piacere, era la musica vera, l’intimità e la sincerità senza vizi, quelli i sogni.
Ma in paese non c’erano chitarre, non conoscevano altra musica se non quella della TV o della radio. Oppure quella della valle silenziosa.
Ridendo e scherzando passò un’ora. I ragazzi si stavano divertendo, ma solo in due aspettavano inquieti. Stefano e Cesare aspettavano l’arrivo di Rosa. A Cesare piaceva segretamente, ma tanto segretamente che forse non lo sapeva nemmeno lui: l’incontrava sempre nei suoi giri in motorino quando passava davanti al piccolo negozio di alimentari dei suoi genitori, perché lì lavorava come commessa. La sbirciava per qualche secondo e poi se ne andava.
Non scambiava mai più di due frasi di circostanza con lei, ma a lui andava bene così. Era il suo carattere, si vergognava. Stefano invece da un po’ di tempo gliela stava insidiando. Andava forte con le donne, e per di più erano stati visti insieme dietro il muretto della chiesa. Ma Cesare non ci credeva, o per lo meno cercava di allontanare da sé quest’ipotesi dolorosa per lui.
Pensava: Stefano non era solo affabile, intelligente ed estroverso: era anche un vincente. L’esatto suo opposto. Si autocommiserava, si chiamava perdente, ed odiava il rivale. Il quale per altro non sembrava neanche accorgersene.
Continuava infatti la sua sequela interminabile di battute e di discorsi. “ Non vedo l’ora di tornare in città, dove c’è la vita. Ne ho piene le palle di questo paesino perso. Voglio il sole, le luci, le donne vere, le discoteche … non certo questo surrogato pieno di desolazione, questa trappola gigantesca a imbuto fra gli alberi, questa vagina che inghiotte la luce dei pomeriggi ...” Il giovane figliol prodigo! Voleva finalmente uscire dall’utero della terra madre che lo aveva plasmato e nutrito: voleva il gioco, e voleva perdercisi dentro. “Sono qui con il furgone di mio padre” continuò “ e penso che la porterò su in casera, e poi … vedremo quello che si lascia fare”.
Non aveva la patente, ma tanto nessuno si sarebbe accorto di nulla, come al solito.
Nel frattempo irruppe Rosa, che quasi in silenzio giunse da dietro Cesare e, dopo i soliti convenevoli di saluto, si sedette raggiante di fianco a lui. A giudizio dei più era carina, e per di più quella sera s’era tirata, truccata in viso, e s’era messa una mini aderente vertiginosa, che ben presto fece girare la testa ai quattro compagni. Non prese nulla. Si fece solo offrire una sigaretta da Pier che fumò con classe. Cesare sogguardava eccitato un po’ la scollatura e un po’ gli splendidi occhi verdi che ad ogni tiro si socchiudevano in una calma espressione di voluttà. Lei però era tutta per Stefano quella sera: si notava dallo sguardo piantato con decisione su di lui, e dal modo in cui sorrideva alle sue provocazioni.
“ Vi state divertendo qui voi?”
“ Sì, non c’è male … fa solo un po’ freddo” diceva lei.
“ Io so un posto dove fa un caldo … vuoi che ti ci porto?” prorompeva Stefano con un sottile sguardo allusivo.
Cesare aveva provato ad intavolare un discorso con lei, ma ormai cominciava a rendersi conto anche lui dei fatti. Allora iniziò a vagare con lo sguardo fra i tavoli, ma vedeva solo coppie di passaggio per la città oppure vecchi che giocavano a carte. Erano ancora giovani, troppo giovani.
In quel momento si sentiva come uno che entra in un negozio e vede tanta bella roba che gli piacerebbe avere, ma non ha i soldi per comprarla. A lui mancavano le parole, mancava la fiducia.
Finalmente Stefano e Rosa si decisero. Fu lui ad alzarsi per primo, e lei a seguirlo, con dietro un coro di fischi d’incitamento. Gigi stava accennando ad una battuta pesante, ma il campione lo stese subito con un occhiata minacciosa. Guardò anche Cesare, e quest’ ultimo lesse nel suo sguardo il fulmine caratteristico del vincitore, che guarda i battuti un’ultima volta con compiaciuto disprezzo, prima di allontanarsi dal campo di battaglia.
“ Dammi tre parole: sole cuore amore …”. Ora che se n’erano andati anche l’allegria andava scemando. Sul tavolino ormai c’erano un sacco di bicchieri vuoti, vuoti come le emozioni quando scappano via. Gigi e Pier non ci misero molto ad andarsene, e così Cesare fu di nuovo solo. Aveva bevuto molto, e si sentiva stordito.
Ma era anche molto triste; pensava che tutto il problema della vita è come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri. Si sentì male, odiò Stefano con veemenza, maledicendone mentalmente il nome.
“ Dammi tre parole: sole cuore amore…” . Ad un tratto si decise: doveva sapere, doveva far sentire finalmente che anche lui esisteva, anche lui in fin dei conti era un essere umano come l’altro. E questo non solo nei confronti di Rosa, ma nei confronti di se stesso! S’alzò barcollando dal tavolino, e con mente ferma nei suoi ebbri propositi montò sul motorino e partì verso la casera dove i due si erano prima diretti. Il tragitto fu fantastico: i pini alti e neri ai lati della strada tortuosa la facevano sembrare un enorme scivolo proiettato verso le stelle, e l’adrenalina in corpo lo faceva sentire più veloce, come se lui ed il vento fossero una sola cosa. Gli avrebbe scoperti, oppure si sarebbe limitato a spiarli, e poi alla fine sarebbe saltato fuori urlando come un pazzo: così avrebbero preso una grande paura … ma ecco, era arrivato. In quell’istante avrebbe voluto essere morto.
In silenzio spense il motorino due tornanti prima, e raggiunse dopo dieci minuti di cammino il posto tanto desiderato, tanto temuto. Vide una luce accesa, e stette un’ attimo ad origliare contro il legno marcio della porta d’ ingresso: non un fiato.
Poi la spinse, ma dentro non c’era più nulla. Però capì che erano già stati lì: si sentiva ancora il deodorante di lei aleggiare per tutto lo stanzone, e c’erano due bottiglie vuote per terra. Se ne andò sconsolato, nel cuore della notte. Correva veloce sul sentiero stretto, senza sapere neanche lui dove stava andando di preciso. Sbatteva di qua e di là sui tronchi degli alberi, faceva rotolare slavine intere di sassi, ma solo così, nel vento, si sentiva bene. Era deluso, ma libero.
D’ un tratto si fermò,solo nella notte: in lontananza percepì delle sirene che si stavano avvicinando su per la strada, ed ebbe paura: continuò allora a correre, correre, correre, come un dio ebbro nella notte.
D’un tratto uscì dal bosco e si sentì come sollevato e proiettato verso il cielo: aprì le mani e levò gli occhi in alto, come per raccogliere una stella … una luce lo accecò sorda, senza rumore e lo travolse.
Vide Stefano, vide Rosa … poi ci fu solo il buio.