RICORDI
Fabio TabacchiIL RACCONTO
C’era silenzio nella camera dove io e mio fratello dormivamo. Solo a tratti, le voci dei miei genitori vi penetravano per poi subito dissolversi. Era una mattina d’estate, il sole entrava dalla finestra e diffondeva lentamente sulle coperte il suo tepore.
Ero sveglia da qualche minuto, distesa sul letto: dopo aver dato un rapido sguardo a Perhan, che ancora dormiva, cominciai a fissare il soffitto. Immaginavo che i miei sogni, come bolle, durante la notte, fossero volati su e che qualcuno più ingombrante non fosse riuscito a fuggire tra le fessure del tetto.
Avrei voluto afferrarne almeno uno, vederlo alla luce, capire se i sogni erano davvero così belli come apparivano di notte.
La voce di mia madre che chiamava: “Maja! Maja!” mi distolse da quei pensieri.
Il giorno che da mesi aspettavamo era arrivato e si presentava come ogni altro giorno: nulla per poterlo distinguere dagli altri, per riconoscerlo come unico all’infuori delle sensazioni che suscitava in noi. La voce di mia madre che chiamava si faceva sempre più forte e insistente. Le risposi che avevo sentito ed ero quasi pronta.
Mi alzai e cominciai a prepararmi, di sotto i miei genitori già faticavano e preparavano la partenza.
A ogni gesto che compivo, a ogni immagine, a ogni odore che mi giungeva tentavo di trovare un posto nella mia memoria.
Nonostante fossi molto giovane percepivo chiaramente cosa fosse il distacco. Capivo che era definitivo e il senso dell’irrimediabile non mi dava tregua. Scesa dal letto, i miei piedi poggiarono sulle tavole, grosse e polverose, che costituivano il pavimento.
Quella sensazione, ruvida e fredda, che mi accompagnava ogni mattina, mi giunse per la prima volta chiara e definita.
Qualche passo mi portò alla sedia sotto la finestra sulla quale riponevo i vestiti. Nell’infilarli ne uscì un odore di stoffa frusta e legno vecchio che era quello proprio della casa, quello che per lungo tempo avevo lasciato indecifrato ed ora era una parte di me che non sarebbe ritornata.
D’un tratto, tra un gesto e l’altro di quelli soliti che compivo ogni mattina, m’accorsi della neve. Era estate e nevicava! Incredula, m’avvicinai alla finestra e il sogno subito s’infranse.
Erano semi, soffici e bianchi come neve, ma non erano fiocchi di neve. Riempivano il cielo e scendevano lenti, portati dal vento. Pensai subito di svegliare Perhan per condividere con lui quello spettacolo ma non lo svegliai: mi vennero in mente la terra arida spaccata dal sole, la terra inospitale, le poche crepe che non avrebbero dato rifugio a tutti quei semi.
Guardai fuori ancora per qualche istante poi mi voltai. Non dissi nulla a Perhan, aveva solo sei anni e non capiva quello che ci stava capitando. Dormiva su di un lato, come sempre, rannicchiato su se stesso e con il bavero della coperta fin quasi sulla bocca.
Lo guardai per qualche attimo mentre dormiva e le coperte si alzavano e abbassavano seguendo il ritmo del suo respiro, poi lo svegliai. Lo feci vestire quindi scendemmo.
Quello era il giorno della partenza, il giorno in cui la vita che avevamo vissuto fino ad allora, entrava a far parte dei ricordi. Il viaggio che ci aspettava preoccupava mio padre, e così soffriva mia madre, e così stavo male pure io.
L’amico di mio padre, a cui avevamo venduto tutto, ci avrebbe portato in macchina fino al porto e di lì, per mare, saremmo arrivati in Italia.
I miei ricordi del viaggio sono pochi e confusi. Ricordo ogni particolare della casa che abbiamo abbandonato, ricordo giornate intere vissute dove sono nata ma del viaggio, ricordo quasi solo i miei pensieri.
Come se la mia memoria avesse decretato: la vita la si vive e i ricordi sono per ciò che è morto e per sempre definito.
Ricordo il porto, i suoi odori e l’amico di mio padre che ci portò dal capitano, ricordo la paura di mia madre quando vide quell’uomo e ci tenne dietro a sé.
Ricordo che ci imbarcammo di sera.
Il vento forte e le luci del porto, immerse nella notte, sono tutto ciò che mi resta della partenza. Il viaggio in mare mi sembrava non finire: ogni minuto si dilatava in un groppo di pensieri e sensazioni di cui mi resta poco o nulla.
Eravamo finiti su una nave mercantile. Ci dissero che dovevamo stare chiusi nella stiva finché qualcuno non fosse sceso giù a chiamarci. Erano duri con noi ma mio padre faceva sempre si con la testa e voleva che anche noi facessimo quello che dicevano.
Durante quelle lunghe ore in mare, pensai a molte cose.
Pensai a mio padre che vedevo accovacciato tra le casse, nel buio della stiva. S’era venduto tutto per comprare un sogno tanto fragile e incerto. Un sogno a cui possono credere solo i disperati.
Vidi mia madre consolare Perhan per quel buio e per quel caldo che pure lei soffriva tanto.
Ricordo anche me, persa in quei pensieri.
Ogni ora a domandarmi se avessimo passato quella linea immaginaria che divide in due l’Adriatico e cambia senso alle parole noi e loro. Anni dopo seppi che quella linea immaginaria è molto più vicina alle coste degli stati di quanto allora io credessi. Quello che sapevo e ora so è che tutto poteva finire, a poche miglia dalla costa, nel naufragio di una zattera.
Mi domando sempre quale sia il criterio nella distribuzione delle fortune e non trovo una ragione, penso al fatto che ci salvammo e che viviamo forse una vita un po’ migliore di quella che c’era destinata.