Mogli e buoi dei paesi tuoi
Alessandro GenoveseIL RACCONTO
Il mio condominio è un posto strano.
Ci sto da meno di un anno, da quando ho deciso che del caos della città non ne potevo più, e ho approfittato di questo appartamento che mio padre aveva deciso di non affittare più a nessuno.
Troppi casini, ha detto, al giorno d’oggi non si è mai sicuri della gente con cui si ha a che fare.
Meglio per me, ho pensato; e così, dopo un’escursione all’Ikea accompagnato da mia sorella, che si aggirava invasata tra enormi stanze arredate secondo la moda del momento, proponendomi di acquistare ogni strumento che potesse rendere la mia nuova vita da single il più confortevole possibile, e dopo aver assoldato due macedoni dall’aria truce per ridipingere l’appartamento, mi sono trasferito qui, a due passi dal lago.
Abita parecchia gente interessante, in questo complesso che d’inverno è semivuoto e ricorda certi giganteschi alberghi sulla riviera romagnola, bianchi di un bianco feroce, soli come elefanti abbandonati. Gente che è arrivata qui per le ragioni più diverse e dai posti più lontani, e che, passata la naturale diffidenza dei primi giorni, si annoda in un legame di strana e commovente solidarietà.
Quelli che vedo più spesso sono Nicola e Concetta, due siciliani sui trent’anni, che stanno sul mio stesso pianerottolo. Sono arrivati da qualche mese, e hanno una bambina grassa e dalla faccia abulica, che si aggira in ciabatte per il cortile alla ricerca di qualcosa che non sa dove ha dimenticato, mentre sua madre la chiama urlando a squarciagola dal balcone.
Lui è salito al Nord, come usa dire, per fare il muratore. Lo incontro quasi ogni giorno, quando vado a fare la spesa, seduto sulle scale a fumare, in jeans e canottiera, e lui mi fa un cenno che reputo d’intesa, forse per ricordarmi che anch’io, in fondo, ho sangue siciliano nelle vene.
Mio padre, infatti, è nato a Catania, e anche se abita qui da più di quarant’anni ed è un affermato imprenditore, si porta ancora addosso l’etichetta del terrone, e aver imparato il dialetto trentino non gli è servito a niente.
Nicola non lavora quasi mai, dice che è dura, che il suo capo gli aveva fatto un mare di promesse, ma le ha dimenticate quasi subito. È un gran figlio di mignotta, dice, e dà tiri famelici alla sigaretta, come se in quel gesto potesse trovare l’energia di cui ha bisogno.
Io lo ascolto in silenzio, ogni tanto sorrido, e nel frattempo l’occhio mi scappa sulla profonda cicatrice che gli parte dall’orecchio sinistro per arrivare fino al pomo d’Adamo. Lui se ne accorge, e con quel suo accento che mi ricorda certi sontuosi pranzi di Natale a casa di mia nonna, quand’ero bambino, mi spiega che è la conseguenza di una brutta caduta in moto.
Sua moglie Concetta è lo stereotipo della siciliana di provincia, bassa e scura e appesantita.
Dimostra almeno dieci anni in più della sua età, ha i polpacci gonfi e segnati da rigagnoli di vene varicose, e si lamenta di continuo dei suoi infiniti malanni e dello scarso servizio che ha trovato qui. Da noi è tutta un’altra cosa, mi confida, vai dal medico e quello ti fa una bella ricetta e ti rimanda a casa, e tu per un po’ ti senti meglio.
Qui al Nord, invece, ti fanno fare mille esami, visite su visite, ti rivoltano come un calzino e alla fine non ti danno niente!
Strilla sempre, Concetta, però in qualche modo mi piace, forse per via di quella sua parlata svelta e colorata, o forse perché cucina da dio. Ogni tanto bussa alla mia porta, l’unica blindata di tutto il condominio, e mi allunga qualcuno dei suoi manicaretti: lasagne al forno, melanzane alla parmigiana, polpettone.
Oppure mi regala chili di arance che le arrivano direttamente dal suo paese, nei dintorni di Acireale, un paio di volte al mese.
Queste sì che sono arance vere, altro che quelle che avete qua, al supermercato! Vedrai che se te ne mangi un paio al giorno, col cavolo che ti viene il raffreddore!
È fissata con il freddo, poveretta, e come darle torto? Prima di salire, non aveva mai visto la neve in vita sua, nemmeno in cartolina, e adesso la guardo dalla finestra della mia camera da letto, mentre spala il piazzale con il badile, e la sua fatica sale fino a me, che sono ancora in pigiama, indeciso se bere il the verde oppure quello nero africano, più forte e più adatto per la colazione.
Qualche sera fa sono entrato in casa loro. Ero rimasto senza cipolle, avevo una gran voglia di cucinarmi un sugo al pomodoro, e ho pensato di andare a chiedergliene un paio. Ho suonato il campanello, su cui era scritto il cognome a pennarello rosso, e appena Concetta mi ha visto si è aperta in un sorriso largo e generoso.
Il loro appartamento è grande esattamente come il mio, anche se disposto in modo diverso, ma sembra la metà, pieno com’è di cianfrusaglie di ogni tipo, di giochi e di vestiti sparsi in ogni angolo. C’è perfino una sorta di altarino, sulla destra, nell’ingresso, un mobile di finto noce con appoggiata sopra una vera e propria lapide in miniatura, completa di fotografia e con inciso il nome del defunto.
Nicola era inghiottito dal divano, imbambolato davanti alla tv, ma come si è accorto del mio arrivo è scattato in piedi e mi ha stretto la mano. Accomodati, fai come fossi a casa tua!, siamo della stessa famiglia, no?, ha detto entusiasta, e non ho nemmeno avuto il tempo di rispondere, che già stavamo brindando alla salute della nostra terra d’origine.
E dai, fermati a cena, non fare complimenti!, insistevano lui e sua moglie, ma io mi sono scusato, e in preda all’imbarazzo ho spiegato che mi serviva soltanto una cipolla, avevo ospiti e il sugo, senza il soffritto, che razza di sugo è?
Nell’appartamento accanto al mio invece, abitano delle ragazze che lavorano al night in fondo al paese. Vengono da tutto il mondo, dal Brasile, dalla Polonia, perfino dalla Tailandia, e sono una più bella dell’altra. Si fermano qualche settimana, un mese al massimo, e poi spariscono, e al loro posto ne arrivano di nuove. I primi tempi, ad essere sincero, non capivo molto bene questo andirivieni.
Avevo qualche sospetto, è chiaro, ma per carattere cerco di stare alla larga dai pregiudizi e tendo a farmi gli affari miei.
Poi, una mattina all’alba che rientravo da una cena con dei vecchi amici, la mente annebbiata da troppe grappe, ho incrociato una di loro sulle scale. Portava una minigonna di pelle nera, un pellicciotto e delle scarpe con la zeppa che la facevano alta almeno un metro e ottanta, ed era così truccata e sfatta che ho faticato a riconoscere la ragazza acqua e sapone che avevo osservato più volte mentre stendeva i panni, sul balcone.
Lei mi ha fissato per qualche secondo, e poi, forse rassicurata dal mio aspetto trasandato, mi ha chiesto una sigaretta. E mentre cercavo l’accendino nelle tasche della giacca, si è seduta sulle scale, proprio dove di solito sta Nicola, e ha piegato la testa tra le ginocchia, la lunga chioma bionda che sfiorava terra.
Mi ci sono seduto accanto e me ne sono accesa una anch’io, e sarà perché il sonno ormai se n’era andato, o perché era la prima volta che avevo l’occasione di fare due chiacchiere con lei, fatto sta che siamo rimasti su quei gradini per quasi un’ora.
Si chiamava Sofia, veniva da un piccolo paese della Croazia, e viveva in Italia da circa un anno. Prima Brescia, poi Modena, ora qui, tra le montagne. In fondo non si sta poi così male, da queste parti, mi dice massaggiandosi i piedi. La gente non è certo molto aperta, almeno all’inizio, ma si lavora bene, e i clienti mi hanno sempre trattato con rispetto.
Problemi non ne ho mai avuti, a parte una volta con un tizio grande come un armadio che voleva portarmi a letto senza nemmeno farmi finire il mio numero sul cubo, e continuava a toccarmi dappertutto, finché il buttafuori non l’ha afferrato per la giacca e l’ha preso a calci, urlandogli di non mettere più piede nel locale.
Ma è stato un caso, sottolinea, e mentre mi racconta che l’unica cosa che le manca davvero del suo paese è il mare, sento che una così potrei anche sposarla, un giorno, se mai la incontrerò di nuovo.
Ora Sofia è partita, diretta chissà dove, e quando ci penso mi vengono in mente i suoi zigomi alti e i suoi occhi venati di rabbia e di rassegnazione, mi dico che è un vero peccato che non ci sia modo di conoscerle sul serio, queste ragazze, visto che di giorno dormono o se ne stanno in casa, e di notte si guadagnano da vivere.
Ma prima o poi ne invito un paio a cena, ascoltiamo un po’ di musica e ci riscaldiamo un po’, magari al ritmo di uno di quei loro pezzi sudamericani che fanno imbestialire la vecchia del piano di sotto, una veneta con l’espressione arcigna e lo guardo da democristiana, che passa le sue giornate a spiare ogni movimento da dietro le tende della sua finestra.
Si chiama Carraro, abita qui da sempre, e ogni volta che mi vede non riesce a trattenersi, smaniosa com’è di condividere con qualcuno il suo disgusto per questo condominio che, a suo dire, è diventato un vero porto di mare.
Non danno fastidio anche a lei, tutti ‘sti disperati?, mi chiede con fare complice, confidando nella mia solidarietà, e poi si lancia in una delle sue invettive contro l’intero vicinato, che non se ne può più e che adesso è ora di finirla e che ne ha già parlato con l’amministratore.
Io la guardo con espressione neutra, ogni tanto faccio per muovermi verso la porta di casa, ma lei niente, ormai è un fiume in piena, e così mi tocca sorbirmi il suo campionario di razzismi d’ogni genere, di insulti a bassa voce nei confronti dei terroni sporchi e perdigiorno, delle prostitute che chissà quante malattie diffondono, dei pakistani del piano terra, con quei vestiti lunghi fino ai piedi e quelle facce scure, e quando finalmente prende fiato, cerco di cogliere al volo l’occasione, faccio finta che mi suoni il telefonino, e mi allontano tramortito.
Coi pakistani, a dire il vero, non sono mai riuscito a parlare, se non con Nissa, una splendida bambina di sei anni con un viso incantevole e un sorriso disarmante, gli occhi contornati di matita blu.
Passa le sue giornate a giocare nel piazzale, da sola o con Agata, la figlia dei siciliani, parla un italiano perfetto e fantasioso, e ogni volta che la incontro, mi chiede dove ho lasciato Stella, la mia cagnolina, se sta bene e se una volta o l’altra gliela lascio portare un po’ al guinzaglio, solo per provare.
Di quando in quando vedo suo padre tornare in scooter dal lavoro, mi saluta alzando la mano, ma non scambiamo mai una parola, anche se non so dire il perché. Dà proprio l’idea di essere una brava persona, con quei baffi sottili e quella giacca a vento verde scuro, la stessa da tutto l’inverno. La madre di Nissa, invece, la nostra lingua proprio non la conosce, raggomitolata com’è nel suo mondo fatto di silenzi e panni da lavare.
È una bellissima donna, questa giovane pakistana, ha una gran massa di capelli neri lunghi fino alla schiena e degli occhi fondi che guardano lontano, e una volta che tentavamo di comunicare, sottovoce per non turbare il sonno placido di Nafissa, nata da due mesi, che teneva in braccio avvolta in una coperta colorata, mi ha regalato uno dei braccialetti che si diverte ad intrecciare, e me l’ha messo al polso. Nissa, che faceva da interprete, mi ha spiegato che porta fortuna, e mi ha raccomandato di non levarlo mai, nemmeno quando faccio la doccia. Tanto è di plastica, ha aggiunto, e non si rovina.
Mancano due giorni a Natale, i miei sono in settimana bianca a Canazei, fa un freddo micidiale e mi accorgo che non ho nessuno con cui passare la vigilia, a parte Stella, che mi fissa dal divano con un’espressione malinconica, quasi mi leggesse dentro.
Potrei telefonare a qualche amico, ma scommetto che non troverò nessuno a casa, saranno tutti partiti; e allora mi viene un’idea che più ci penso più mi sembra geniale: darò una grande festa con i condomini, inviterò i siciliani, i pakistani e magari anche le ragazze dell’appartamento accanto. Mica lavoreranno anche la sera della vigilia, Cristo santo!
Faremo un gran casino, ognuno cucinerà qualcosa di diverso, mischieremo sapori lontani e balleremo la salsa e ci scambieremo gli auguri e ci ubriacheremo tutti insieme, alla faccia di chi crede ancora in mogli e buoi dei paesi tuoi. E se la vecchia Carraro avrà qualcosa da ridire, la inviterò ad entrare: che si senta straniera lei, per una volta!