Frontiere
Chiara De BastianiIL RACCONTO
Credo fosse una domenica d’estate con la maglietta a righe.
Non vorrei imbrogliarvi, ma di solito le nostre gite domenicali avevano una maglietta a righe.
La memoria è come la vecchia credenza che la nonna ha affittato ai tarli: ho fantasticato a lungo sottovoce sperando che l’azione inesorabile di quelle bestioline facesse crollare il grattacielo di cassetti. Non credo abbiano mai ascoltato le mie preghiere.
Mi sono dovuta accontentare di poche fugaci visite agli appartamenti del pianoterra: un mazzo di carte da gioco, la scatola dei bottoni, le foto in bianco e nero di cui imparai a memoria i dettagli così da poterli sciorinare davanti ai cugini più giovani.
Non sfiorai mai i cassetti abbarbicati sulle pareti più impervie del gigante di legno: quando la statura me lo avrebbe permesso, fece capolino una vocina lattescente e pudica, facile ai rossori, che sgattaiolava via nella sua tana non appena l’aculeo della curiosità affondava troppo in profondità nella pelle.
Penso che la maglietta a righe e quella domenica estiva siano rimaste a lungo ben piegate in un cassetto in alto.
Nel frattempo le braccia crescevano e potevano infilarsi fino in fondo al tunnel nero dei cassetti; le dita, ora più lunghe, inciampavano urtando maldestramente contro quelle minute cianfrusaglie, quei minuscoli ricordi. Raccoglievano avidamente, tastando qua e là alla rinfusa, fiutando gli angoli più fruttuosi.
Con le narici allargate aspiravano ricordi sfilacciati e stanchi, vischiosi nastri di bava secreti dalla vita.
Preferivo non farmi vedere.
Le mani bofonchiavano come la proboscide ingorda dell’aspirapolvere: mi chiedevo sempre cosa sarebbe successo una volta che l’ultimo ricordo fosse sparito dentro quell’insaziabile stomaco e la digestione bloccata dal sonno profondo che seguiva quegli opulenti banchetti.
Sfoggiavano, le dita, un fiuto incredibilmente fine: non mi stupii quando un giorno, spingendo la chiave nella toppa come, anni prima, il naso nel cassetto, mi impiastricciai le mani di un odore freddo e spigoloso.
Non impiegai troppo tempo ad identificarne la provenienza.
Fu un lampo. Un cortocircuito.
Riconobbi l’odore nitido e pungente dei sedili intirizziti dal freddo della notte, un profumo di lenzuola pettinate dal vento. Ricordai le irruzioni in garage di domenica mattina, all’alba.
I genitori in avanscoperta armati di tutto il necessario per una scampagnata. Li trovavo divertenti con quegli scudi variopinti che si sarebbero trasformati in altrettanti tavolini da picnic non appena avessimo trovato un torrente abbastanza loquace da mimetizzare i nostri schiamazzi.
Noi piccoli stavamo dietro, stremati dalla furiosa battaglia contro il sonno, ma già abbastanza desti per improvvisare un giaciglio di fortuna sui sedili e rimpiangere l’abbraccio soffice del letto.
La penombra del garage appesantiva le palpebre come la neve i rami più teneri: nel silenzio freddo che precedeva la risata fragorosa del motore i brividi disegnavano circonferenze perfette percorrendo i nostri corpi rannicchiati per il sonno o l’emozione della partenza.
Soffiai con forza sulla polvere argentata del tempo: non riuscii a sollevare altro che quella fragranza di sonno color pece e di viaggi.
Se al buio del garage quel profumo risvegliava in me soltanto ricordi spensierati, più tardi mi avrebbe attanagliato lo stomaco facendomi odiare il nastro grigio della strada che si srotolava davanti a noi contorcendosi in miliardi di tornanti.
La stanchezza e la nausea si appoggiavano agli occhi: un coperchio sulla pentola dal fondo blu dell’iride. Una carezza ipnotica.
Cadevo in un secondo sonno forse più profondo di quello che avevo appena interrotto: mi risvegliavo soltanto quando la nenia del motore taceva e un insolente colpo di vento mi schiaffeggiava costringendomi a porgere l’altra guancia scendendo dall’auto.
Ancor oggi la cartina dei miei viaggi pullula di cerchi e cerchietti, paesini e città nati dal nulla, escrescenze multiformi, tumefazioni della crosta terrestre che si addensano attorno alla cuspide di un campanile.
Non c’è traccia di strade a collegare quelle località: ci si arriva per caso, ci si trova lì senza averlo desiderato o voluto, sdraiati, come in sogno, su un tappeto volante.
A causa di quello stato di incoscienza, non imparai mai il tragitto verso quei posti e ben presto affondarono nella mia memoria liquefacendosi come i villaggi bianchi di formaggio che costruivo sulla sommità fumante delle montagne di purè.
La lancetta dell’orologio ingoiò poi ogni cosa deglutendo voracemente nomi edifici fiumi ponti chiese.
Dimenticai tutto. O quasi.
Qualcosa passò incolume tra le grinfie del tempo: erano quei giganti dalle sottili gambe metalliche che stavano di guardia sul ciglio della strada all’inizio e alla fine di ogni paese.
Dapprima i cartelli stradali divennero un comodo surrogato del mio abbecedario quando le scuole chiudevano i battenti per le vacanze estive: le ultime sillabe di quei nomi curiosi si dimenavano ancora in gola che noi già ci addentravamo tra i filari degli edifici.
Per quanto fossero scaltri i miei movimenti e imploranti gli occhi, quei giganti acefali non mi degnavano neppure di uno sguardo e mi voltavano le spalle. E mentre loro sparivano all’orizzonte, i pochi suoni strascicati che avevo rubato alla velocità rimbalzavano senza pace tra la lingua e il palato come la pastiglia indigesta che tarda ad acquattarsi in un angolo per aspettare la sua fine.
Col tempo la lettura si fece spedita e io smisi di irritarmi per la sfacciataggine di quella gente e gli sforzi a cui mi costringevano per colmare quei troncamenti innaturali.
Ma se le parole uscivano ora di bocca come le mani dai guanti davanti al fuoco scoppiettante, non avevo perso tuttavia la vecchia abitudine di girarmi di scatto per veder marciare verso l’orizzonte quei ciclopici omaccioni.
Quella domenica invece accadde qualcosa di insolito: mi girai, ma non fu di scatto, né con l’avidità delle altre volte.
Indugiai a lungo con lo sguardo, ammutolita dallo spettacolo sconcertante che mi apparve davanti. Cercai di tenerlo stretto come facevo con i fili dell’aquilone, ma quella visione sbiadiva come quando premevo il mio viso contro il muro giocando a nascondino.
Il motore canterellava allegramente; i grandi, davanti, ricostruivano la genealogia di un amico che avevano incontrato la sera precedente.
Ci sorpassò un pullman con la targa gialla. Mi distrassi.
“ Papà, perché non ne compriamo una gialla anche noi?”.
Mi dimenticai troppo in fretta della domanda: la mia attenzione era ancora incollata a quel cartello che ormai riuscivo a stringere tra il pollice e l’indice.
Non me lo spiegavo: dietro il solito tabellone non c’era la schiena grigia e scheletrita del gigante, ma una faccia solcata, come quella opposta, dalle rughe nere dell’inchiostro. Riconobbi lo stesso nome che avevo letto poco prima, ma con i polsi ammanettati da un’enorme croce nera. Un errore.
In classe quando prendevo il quaderno a righe sapevo ormai come fare per evitare che si aprisse sulla croce tracciata dalla biro rossa della maestra. “A me mi piace” non si dice. Questo lo avevo capito.
Provai vergogna per quello strafalcione esposto ai quattro venti: per un attimo pensai orgogliosa al mio quaderno che almeno se ne stava al caldo nello zaino.
Potevano almeno cambiare il cartello, potevano.
Sotto stava un altro nome. Forse quello corretto. Non assomigliava per niente a quello sbarrato. Non trovavo attenuanti a quella svista madornale.
Nel frattempo davanti parlavano d’altro: non ci capivo nulla di quei discorsi, ma la velocità con cui si susseguivano le parole era tale da darmi innumerevoli occasioni per intromettermi.
Approfittai. E’ il confine, mi dissero.
Ma per me restò sempre un errore. Una penosa svista, un lapsus raccapricciante. Qui finisce una regione e ne comincia un’altra.
Visualizzai quel fenomeno strano: mi ricordai che quando la matita incerta calpestava la macchia gialla del sole, nascevano per miracolo dei raggi verdi. Il blu e il giallo si spaRtivano una linea sottile. Né cielo, né sole. Quella scoperta mi rese impaziente: aspettai irrequieta il cartello successivo.
Osservai che tra i fili d’erba non correva il filo nero che mi ero immaginata di trovare. Eppure, adesso che ci pensavo, a scuola avevo visto un enorme stivale fatto di toppe cucite insieme con un filo scuro. Mi avevano detto che noi eravamo un puntino in alto. Chissà se si vedeva anche la mia casa… Non avevo osato chiederlo.
Cercai invano le cicatrici di quelle profonde feriTe: ma anche se esistevano da qualche parte, magari sepolte sotto la terra, mi chiedevo come due paesi potessero contendersi le fibre di quella linea sottile che correva tra loro.
La vedevo serpeggiare tra gli alberi, inerpicarsi per i costonI rocciosi, penzolare nel vuoto sopra un dirupo o una gola, infilarsi nelle finestre come nella cruna di un ago e trapuntare la superficie di broccato di un lago.
Quando mi scappò di mano quella gugliata di filo invisibile, cercai altrove una spiegazione.
Oltre il cartello, all’imbocco del villaggio, un bambino strattonava la madre per il braccio puntando il dito verso un’altalena che spazzava dolcemente l’aria. Non mi sembrava troppo diverso dai bambini che giocavano nel parco davanti alla mia scuola.
Avevo pianto anch’io per un’altalena.
La strada scivolava veloce sotto le ruote.
Di nuovo un altro cartello: sguinzagliai un’altra volta gli occhi alla ricerca di una traccia di confine. Forse l’avevano appesa in alto, tra le nuvole: una corda da funamboli che proiettava una linea d’ombra sulla terra. Segui con lo sguardo i tralicci della linea elettrica che avanzavano a zigzag tra i campi di grano: barcollavano come ubriaconi dimentichi di se stessi e preferii non attaccare bottone.
Quella notte sognai, come innumerevoli altre volte, di volare. Più tardi mi resi conto che non avrei avuto altro modo per sperimentare la libertà degli uccelli che popolano il cielo. Lassù, di cartelli, non c’era nemmeno l’ombra.
Una brusca frenata mi invitò a cercare una pista per far atterrare la mia immaginazione. Il paesaggio aveva smesso di esercitare su di me il suo fascino ora che collezionavo confini: al ritorno mi soffermai sui dettagli, fissai nella memoria i particolari più curiosi, mi interrogai sulla natura di quelle persone che abitavano in una casa costruita esattamente laddove correva, così immaginavo, la linea di confine.
Pensai alla nostalgia con cui avrebbero lasciato la camera da letto la mattina per fare colazione in terra straniera. Sperai che i bambini dormissero almeno dalla stessa parte dei genitori. Forse il letto stava esattamente nel mezzo e la testa riposava da una parte mentre i piedi sognavano dall’altra. Chissà se quella linea che fendeva il corpo come l’ascia il ceppo faceva male…
Sulla fotografia si vedevano boschi alle nostre spalle.
Com’ero piccola nella maglietta a righe!
Doveva essere la stessa che avevo trovato un giorno in soffitta. Le righe si distinguevano ormai a fatica: i colori sembravano essersi ribellati alla brutalità della lavatrice e il rosso calpestava sprezzante la linea che lo separava dal blu invadendone il territorio. Ricordai che in lontananza avevamo sentito il rumore dei tagliaboschi interrotto talvolta da un confuso boato.
Gli occhi sgranati dell’ultima abitazione si inchinavano gialli verso di noi. Sulla destra un cartello stradale recitava “GRENZ…”. Era stato tagliato, nella fotografia, per fare spazio alla casa a sinistra. Quel mozzicone di parola attizzò il ricordo di entusiasmanti gare di lettura. Sorrisi.
Per un attimo ebbi l’impressione di vedere una donna alla finestra di quella casa. Parlava con qualcuno che stava nella stanza attigua. Ma da lì giungevano solo suoni incomprensibili.
Tra di loro passava la linea del confine. Come tra me e la fotografia che lasciai cadere nel cassetto quando le urla dei miei bambini mi richiamarono in cucina per la cena.
Li osservai costruire case e villaggi nei loro piatti. La fame e l’entusiasmo dilatavano a dismisura quelle popolose città di formaggio.
Non dissi loro che quel mondo aveva per confini i bordi di un piatto.