Guerra di liberazione
Paolo CaroliIL RACCONTO
Questa musica, il dolce suono di un pianoforte che mi riporta alle onde azzurre di uno spumeggiante mare in tempesta che sbattono forti contro transatlantici dai leggendari nomi e gli emigranti sul ponte, tutti ammassati, con gli occhi vuoti di chi si sforza di dimenticare la strada del ritorno, per cercare nel bosco il castello incantato, un bacio, un abito di seta, la giovinezza che scivola tra le dita, un sogno perduto, le volte immense di una cattedrale.
E’ da tanto che non ascoltavo quella musica, l’avevo perduta dai tempi di Firenze, prima di conoscere Cesare, quando la mia vita si snodava tra dolci poesie, i visi immaginari di donne leggiadre e di amici fidati che si delineavano nel mio cuore ed ora il destino mi porta a riascoltare questo vecchio disco qui, in una vecchia baita in mezzo alla valle in una fredda sera d’inverno.
Come tanto tempo fa, i miei occhi viaggiano tra il legno nodoso delle pareti, le pannocchie appese fuori, il fuoco del camino. Una sensazione dimenticata invade il mio corpo, mi sento fresco e frizzante, una piccola candela si è accesa nel mio cuore e le mani degli angeli le stanno intorno.
Le cose che prima erano importanti ora passano pesanti sotto di me, mentre io volo alto e ansioso. Rivoli di sentimenti escono dai miei polpastrelli, le mie lunghe dita cominciano a muoversi. Mi siedo, prendo un pezzo di carta e scrivo. Così ho visto scendere il sole sulla valle. Poi ho ridato un’ennesima lettura ai libri di Mazzini, Marx e altri che sono accumulati sul mio tavolo e che da Firenze sono diventati la mia Bibbia. Poi mi capita sotto lo sguardo una vecchia illustrazione di Trento, la mia città.
Il suo duomo grigio dal tetto verde che possente ma allo stesso tempo amico emana le sue avemarie nella fresca aria d’inverno alla luce della luna. E’ per lei, per Trento che questa notte sono pronto a sacrificare la mia vita, ma forse non solo per lei.
E’ presto, mi spoglio nudo ed esco fuori nella gelida valle deserta dove mi sono rifugiato dopo che gli austriaci avevano esposto i cartelli della chiamata alle armi obbligatoria per questa assurda guerra in cui ora anche la mia amata Italia si è gettata. Fa freddo, un freddo pungente che ti entra nell’anima, ma non importa.
Nudo corro nei prati ed i miei piedi affondano nella terra umida. Arrivo al torrente, mi immergo. L’acqua è gelata, forse di poco sopra lo zero, non posso resistere un secondo di più, mi bagno in fretta ed esco. Resto per parecchi minuti sdraiato tremante sulla riva, ma dopo un po’ anche il freddo passa e penso.
Sono partito alle dieci ed ho dovuto camminare per un’ora prima di arrivare al paese dove gli altri mi aspettavano già da un po’. Insieme ripartiamo a piedi, appoggiando i nostri zaini su una bicicletta, abbandonata poi prima di arrivare al confine. Non è stato difficile evitale il controllo austriaco e nella prima mattina siamo arrivati in Italia e ad una stazione dei carabinieri, dove ci siamo arruolati come volontari nell’esercito italiano.
Ho ritrovato Cesare e altri che avevo conosciuto a Firenze. I nostri connazionali non si dimostrano tanto affettuosi, ci trattano come estranei, i loro sguardi ci assalgono come se volessero gridare “E’ per voi che stiamo facendo questa guerra!”. Cesare non se ne dà pace e sta sempre più da solo e scrive alla moglie. Penso ai miei amici a Trento, a quelli che non mi hanno mai capito, perché non gli è stata data la possibilità di capire. E’ anche per loro che combatto.
Combatto sì. Stiamo ammassati giorno e notte in una buca dove si entra e non si esce più, o dietro a un muro di terra e fango, in vallate tutte uguali, avvolti nella nebbia più profonda.
E’ alla nebbia che sparo, non al nemico. Colpi sprecati, penso io. Poi un giorno un austriaco attraversa la valle e rimane imprigionato nei reticolati proprio sotto di me, è bastato un pantalone incastrato nel filo spinato a togliergli per sempre la fama di eroe. Un nemico si sta avvicinando per ammazzarmi, per rubarmi l’Italia, così mi hanno insegnato e sparo, lo colpisco, cade.
E’ da allora che non combatto più, il mio rifugio è una vecchia quercia in un prato che, chissà per quanto, potrà dirsi italiano. Il mio generale mi crede morto lì sotto, nella valle, mentre io passo le mie giornate a piangere e a pensare, logorato dalla coscienza e dai pidocchi. Solo Cesare mi ha scoperto e mi ha parlato, forse è grazie a lui che ora sto meglio.
Sono scappato e sono tornato in città, di nuovo a Firenze, nascosto da un amico. Io, io, io che amavo la mia patria più di ogni cosa e per i miei ideali ero disposto a morire, disertore dell’esercito italiano.
Fu così che mi incontrò Laodice, luce della mia vita. Un tempo, quando studiavamo assieme all’università, lei era stata la fiaccola che illuminava le notti buie del mio cuore, la realtà in un uomo fatto d’immaginazione, la mia musa ispiratrice.
Mi guardano con pietà quegli occhi neri e mi sorride quella bocca rossa con la quale una volta amavo conversare di poesia, di arte, di vita. Parliamo, parliamo ancora e per qualche minuto ci illudiamo che la guerra non ci sia e non ci sia mai stata. Di fronte a noi una scuola elementare fa una mostra di disegni dei bambini sulla guerra. Stiamo insieme per un giorno, due, un mese, facciamo anche l’amore, ma niente è più come prima.
Ora la guerra è finita e gli eroi sfilano orgogliosi tra gli applausi e le urla nella mia Trento sotto il duomo amico. Loro sono eroi, ma io sono un assassino. Un assassino, sì e me lo ripeto una, due e cento volte. Sono ritornato in quella baita, mi sono spogliato nudo in una notte di luna, ma l’acqua del torrente non era più così fredda, forse perché il cuore di un assassino è riscaldato dal fuoco dell’inferno.
Esco fuori dal torrente e comincio a camminare, tornando alla baita incontro Laodice, la bacio, le mie mani carezzano il suo viso, facciamo l’amore lì, nel prato e camminiamo insieme. Chissà che farò ora che Cesare è morto, io sono diventato un italiano e un assassino. Non ci voglio pensare oggi e cammino.