Soglie, righe, minuti
Chiara San GiuseppeIL RACCONTO
La striscia di ottone, stretta tra due bordi di gomma nera, immersa nelle lastre grigie dell’atrio, luccicò al sole.
Bastò quello perché Alessandro, schiavo da anni di una studiatissima fobia, si fermasse.
Era arrivato fino all’ingresso della banca, il tragitto da casa sua era angosciante, doveva tornare sui suoi passi più volte per accertarsi di dove avesse messo i piedi. Sudava ancora per la fatica di tenere sempre gli occhi a terra, per la paura continua, per il senso di fallimento che non lo lasciava mai.
Oggi il suo confine invalicabile era quella riga lucida, cercò di darsi un contegno. Molti lo videro, l’unico che lo salutò fu Jabo, il nero che lavava i vetri, si fermò proprio con i due piedi a scavalco della striscia, che avrebbe potuto tagliarlo in due.
Alessandro lo invidiava, camminava dove voleva. Gli aveva raccontato come era riuscito a venire via da una Nigeria disperata e cattiva, aveva calpestato tante frontiere, tante strisce bianche, gialle, fili spinati e elettrici, ponti, traversine, stanghe, e lui era lì inchiodato ad una rifinitura da sede centrale.
Almeno non ci fosse stato il sole.
Erano le 8,54.
Pedro non avrebbe mai dimenticato quel giorno, quando suo padre lo portò a conoscere l’equatore. Era molto tardi, ma era ancora così eccitato che non riusciva a prendere sonno. Quella mattina suo padre lo aveva portato con sé a Quito, con una corriera verde, poi nel pomeriggio, con un’altra corriera, però gialla, erano andati alla “Mitad del mundo”, un posto stranissimo, con una specie di grande tomba grigia con in cima una palla, pieno di gente che fotografava una lunga striscia gialla che divideva la piazza ma che, come gli aveva spiegato suo padre, divideva anche il mondo.
Aveva cominciato a saltare e correre da una parte all’altra di quella magica riga, e ad ogni salto gli aumentava una gioia incontenibile e tutti avevano sorriso a un bel bambino di 4 anni.
Col primo salto capì che il mondo non era solo la sua baracca, col secondo che non era neanche la miniera in cui lavoravano tutti quelli che conosceva, poi seppe che le due persone che chiamava mamma e papà non erano il mondo neanche loro, poi sentì che qualunque cosa fosse il mondo certamente era suo, come ora lo era quel magico equatore, e questa certezza non lo abbandonò mai più.
Erano le 8,55.
Le tovagliette all’americana erano sempre apparecchiate anche se nessuno faceva colazione seduto davanti alla tazze blu, vinte con i punti di anni di biscotti che non gli piacevano. Sua madre appoggiata al lavello beveva il caffè, senza guardarlo.
Doveva dirlo adesso, il cuore impazzito e la vescica debole, fissò senza guardarla la fuga di una piastrella incrinata.
Enrico respirò, 38 anni di silenzio stavano per finire: «Sabato vado a vivere con Diego, stiamo insieme da quattro anni, io sono un omosessuale, al momento abbastanza felice. Mi dispiace».
Erano le 8,56.
Per un caso erano da soli. Era il momento giusto, da mesi Cesare diceva a se stesso che non si può dire a una moglie che la lasci, che hai un’altra, nel tempo di un caffè, senza dare spazio a spiegazioni, anche se inutili e dolorose. Più che altro alla scenata stavolta non avrebbero assistito i bambini.
Aveva un buco nello stomaco, dopo quella mattina la sua vita non sarebbe più stata la stessa, sarebbero finiti anni di bugie e depressioni, forse era l’ultima colazione in quella cucina, dal corridoio guardò la piattaia in legno della sua casa di bambino, gli veniva da piangere.
Lei si muoveva come al solito a scatti, sgraziata, rabbiosa, con quel sudore rancido che lui non sopportava più, entrò in cucina e non riuscì più a uscirne: «Monica….», «… non hai avuto tempo di andare in Comune… come al solito», «... no, devo dirti…», «che sei il solito stronzo», per un momento si sentì quasi rassicurato, ricacciato nel suo ruolo di sempre. Lei lo guardò con un tale gioioso disprezzo: in qualche misterioso modo, forse da come lui teneva la testa, sapeva che aveva vinto di nuovo. Senza forze Cesare prese dalla credenza la tazza blu vinta con i punti dei suoi biscotti preferiti, e a 47 anni si ritrovò ad ingoiare lacrime e caffelatte, con la paura nella nuca che da un momento all’altro lei diventasse anche manesca.
Erano le 8,57.
Le era parsa una grande conquista poter lasciare nell’armadietto del bagno il suo beauty, e poi un po’ di biancheria, lo spazzolino vicino al suo, in quel piccolo appartamento in cui si era trasferito dopo la separazione. Non ricordava neanche quanti anni lo aveva aspettato, ma quanta fatica, quanto dolore, quello sì, lui non era riuscito a farglielo dimenticare. Dopo tanti anni non si riconosceva più, sfinita e delusa, senza niente in mano, dopo la separazione era andata anche peggio, almeno prima c’era un obiettivo per cui sopportare, una speranza di felicità, ora il nulla.
Era entrato in bagno mentre lei si stava lavando, lo aveva visto riflesso nello specchio, e lo specchio le aveva rimandato un viso su cui affiorava un che di protervo e stupido di cui non si era mai accorta.
Lo guardò di schiena, davanti alla tazza, quell’intimità che le era sembrata così dolce, le fece venire la nausea, la sua vita le fece venire la nausea.
Pur sapendo che là fuori, da sola, senza neanche questo straccio di compagno, senza sms, senza di lui, le sarebbe parso di morire, raccolse le sue patetiche cose e, per la prima volta senza aver voglia di dirgli nulla, se ne andò. Chiuse la porta, attraversò il sagrato, il portale intagliato la accolse in una fresca e silenziosa umidità, si fece il segno della croce e con un nodo in gola chiese a un dio qualunque, diversamente dal solito, di liberarla.
Erano le 8,58.
Tutti facevano finta di essere allegri, sentiva sulla pelle il dolore e il senso di colpa di sua figlia, mascherato come al solito da una sfumatura di stupidità isterica. Solo sua nipote, la più piccola, che di solito non la sopportava oggi stava zitta con gli occhi sempre più lucidi. Uscì di casa, avrebbe voluto urlare, invece salutò gentilmente la sua portinaia.
In macchina ci volle un’ora, aveva il cuore praticamente immobile, ma vide la sua città, anche senza occhiali, con una chiarezza e una lucidità che la spaventarono, come chi sta morendo gode di qualche ora di benessere, anche lei non sentiva più dolore da nessuna parte.
Le portarono le valigie, ma nessuno l’aiutò a salire i gradini della casa di riposo, dalla paura non sentiva più i rumori, Andreina non capiva dove stava prendendo le forze per fare quella cosa, varcare quella soglia, adesso era in un atrio anni Sessanta coi fiori finti: ecco era finita.
Dopo la morte non c’era il paradiso, ma una stanza di formica grigia, da dividere con una che quando era in vita non avrebbe neanche mai salutato.
Sarebbero state le 8,59.