Seconda edizione 2003 • segnalato prima categoria

Appunti di viaggio

Paolo Callegari

IL RACCONTO

Attendo il volo di rientro

Lampi di luce proiettano le snelle ombre degli aeroplani, nere sul cemento illuminato dai lampioni esattamente allineati. Disegnano strade colorate e tingono le gocce di pioggia poco prima che si dissolvano a terra. La notte avvolgente e fredda scorre con le sue ombre sopra le luci della città, dei suoi palazzi, delle sue strade, dei suoi lampioni, delle macchine che si scavano con i fari un passaggio attraverso il buio. Buio e luce.

Nella sala d’attesa dell’aeroporto i neon bianchi riempiono lo spazio con il loro freddo bagliore, colorano i volti delle persone con un triste pallore. Nell’aria un silenzio opprimente in quei pochi secondi di pace tra un tuono ed il seguente. Silenzio e tuono. Tuono e silenzio.
Sul monitor appeso sopra le vetrate che si aprono sulle piste, il volo 8923, con destinazione Milano Malpensa, è stato cancellato a causa delle pessime condizioni metereologiche.
Risuonano ancora nelle mie orecchie quelle poche parole asettiche pronunciate dallo speaker, lo stesso tono con cui si saluta una persona che non si vorrebbe aver incontrato
Negli attimi di silenzio ascolto il suono dei miei pensieri. Immagini proiettate davanti alla tempesta, suoni che sovrastano i tuoni, odori e colori che riempiono la monotonia della sala d’attesa. Ricordi che affollano la mente di qualsiasi viaggiatore sulla strada di casa.

Le luci di Milano che si perdono nella notte. Il ronzio monotono delle turbine. L’oceano tratteggiato da linee di schiuma bianca illuminato al primo sole del mattino. La costa splendente con i suoi grattacieli, con i suoi alberi, con le sue macchine, le sue strade trafficate, con la sua gente in movimento. Il rumore del carrello che tocca il cemento in quel minuscolo momento di passaggio tra cielo e terra.

La Statua

Ero partito due mesi prima. Proiettato nella città che non bada al sole che scivola rapido sopra i palazzi di vetro e acciaio. Che non si cura del freddo e del caldo. Nella città che respira rumorosamente, che vive del calore di milioni di persone, che diffonde la sua forza attraverso le strade, i rumori, la luce, la volontà di andare oltre. Nella città di uomini e donne che costituiscono le minuscole unità di un sistema gigantesco; uomini e donne resi liberi da regole e leggi che sono le colonne di un sistema perfettamente progettato. Persone uniche nelle loro diversità, persone che riempiono di accenti e colori il cielo e fanno risuonare la terra al ritmo di milioni di passi. Persone che vengono da lontano, che hanno attraversato l’oceano, che hanno le radici altrove e lo sguardo volto verso luoghi ancora più lontani.

Persone che sanno di essere libere e che nello stesso momento sanno di essere limitate da schemi rigidi.
Libertà e senso del limite.
Sopra il mare è stato innalzato un grande simbolo. Una statua slanciata verso il cielo e profondamente ancorata alla terra. Una donna che allunga una fiamma nel cielo frizzante ed avvolgente, infuocato di sole durante il giorno e carico di bellezza e mistero nella profondità della notte. Una donna che si lascia accarezzare dal vento della baia, che si specchia nelle onde, che guarda le navi comparire all’orizzonte tra le nebbioline autunnali, che rimane immobile nelle notti più fredde incantata dalla luce delle stelle.

Sogno

Il temporale è sparito. Una notte serena, una notte d’estate simile a molte altre. Un silenzio carico di suoni. Il vento muove appena l’erba che sbuca tra le crepe del marciapiede.
Cammino nella città deserta, ai piedi della statua splendente sotto le stelle avvolte nella loro luce d’argento, una luce affascinante che rapisce verso una meta troppo lontana il lento camminare dell’uomo. Vorrei prendere il volo, sollevarmi dalla terra dura, ferma, scura, per lasciarmi trasportare dai venti che giocano con le nuvole. Libero nell’aria, dove tutto si trasforma rapidamente, dove non ci si può annoiare, veloce come le aquile e leggero come i colibrì.

La terra non è così scura vista dal cielo.
Splende di azzurro, si colora di verde, di bianco, di giallo. Profuma di fiori. Trae vita dall’acqua che scorre nei fiumi, nei ruscelli che si scavano una via fino al mare.
Si riempie del suono di miliardi di voci, di parole che si sciolgono nell’aria, che prendono vita sui libri allineati nelle biblioteche.
Comincio a camminare lungo la via deserta, tra le macchine parcheggiate distrattamente vicino ai marciapiedi spettrali nella loro vacuità. Improvvisamente il vento arriva dall’oceano, s’insinua tra i grattacieli, muove i lampioni, le cartacce abbandonate per terra, le nuvole nel cielo. Alle raffiche più forti l’aria si riempie di un ululato che sembra provenire da entità senza nome nascoste nella profondità della terra. I suoni del silenzio si sovrappongono al richiamo del vento.

Suoni che provengono da entità misteriose nascoste nella mente. Vorrei gridare, correre, far tacere le voci che mi stordiscono, che mi impediscono di sentire il dolce rumore delle prime gocce di pioggia che mi cadono addosso.
Volgo lo sguardo indietro verso l’oceano in tempesta, nero come le nuvole che lo sovrastano, verso la statua innalzata tra i fulmini come un supremo baluardo. Sento l’acqua che mi bagna i capelli, che mi riga il volto, che inzuppa i vestiti estivi.
Comincio a correre verso gli ultimi frammenti di cielo stellato che si scompongono e ricompongono tra le nubi. La strada scivola via al ritmo della corsa, il cielo scivola silenzioso alle mie spalle.
Il cuore pulsa nel petto, il sangue circola dando energia alle gambe, al corpo leggero sui piedi che passo dopo passo cercano la strada verso casa. Fuori dalle nubi della città, fuori dal cemento gelido d’inverno e rovente d’estate. Lontano dalla frenesia di una città che non dorme mai.
La statua appare lontana, persa nelle tempesta. Una vaga sagoma che non ha più le sembianze di una donna ma assomiglia ad uno spettro circondato da un pavido barlume biancastro.

Sono stanco di correre. Appoggio la schiena alla vetrina di un negozio, mi siedo sulla pietra levigata del marciapiede. Le mie orecchie avvertono i rumori della tempesta come un leggero ronzio che continua a riecheggiare.
Davanti a me due palazzi giganteschi. Due grattacieli identici. Due edifici di vetro e acciaio con le finestre illuminate.
Un altro tuono. Lo sento riecheggiare lontano. Un sibilo che si perde nella notte.
Chiudo gli occhi sconquassato dal terribile grido di migliaia di voci che si perdono nel silenzio. Piccole vibrazioni che improvvisamente scompaiono nell’aria carica di elettricità del temporale.
Un silenzio irreale. Non è rimasto nulla della tempesta. Non è rimasto nulla dei palazzi.

È già mattina

Seduto nella sala d’attesa dell’aeroporto socchiudo assonnato gli occhi. È già mattina. Osservo le piste colorate d’oro dai raggi di sole che si riflettono nelle pozze. Un aeroplano si stacca dalla pista riempiendo il cielo con il rombo delle turbine e la scia dipinta di rosa dal sole. Lontane, disegnate sull’orizzonte, le sagome dei palazzi della città. Al posto di due grattacieli giganteschi non resta che uno finestra sull’orizzonte. Scomparsi in quella tempesta che due anni prima ha fatto tremare l’intero pianeta.
Seduto sulla poltroncina guardo verso la città, immobilizzato sulla stretta linea tra sogno e realtà.
La mente persa nei ricordi della notte, nell’angoscia dell’incubo. Gli occhi persi nella finestra aperta sull’orizzonte che lascia passare i raggi del sole ormai alto sull’oceano.

Notizie dall’oriente

La televisione dello snack-bar dell’aeroporto trasmette il notiziario mattutino della NBC.
Mostra un aereo che si stacca dal ponte di una portaerei alle ultime luci del giorno. Il sole basso sul mare davanti al caccia perfettamente disegnato, davanti al pilota con il suo casco azzurro e la mascherina abbassata di lato. Un getto di fiamme dalle turbine, un rombo. Pochi istanti dopo il caccia è proiettato sul golfo, un’ombra nera veloce sulle onde. Un deserto arroventato dal sole. Soldati in uniforme che marciano sulla sabbia. Carri armati incolonnati che sollevano dietro di loro nuvole di polvere. Una tempesta nel deserto.
Gli uomini civili colpiti al cuore che rispondono, che reagiscono, costretti a risfoderare la spada.

Pace e guerra. Una pace complicata e una guerra ancora più difficile. Un confine debole. Pochi attimi per oltrepassarlo. Pochi attimi di incertezza, carichi di paura.
Oltre il confine la guerra tra uomini che si scontrano in una continua lotta tra Bene e Male.
Pochi Signori degli Anelli che hanno il potere di plasmare il destino di molti.
Soldati convinti di essere nel giusto contro soldati convinti di essere nel giusto.
Oltre l’oceano una nazione che vive, che guarda alla televisione i propri ragazzi lontani da casa. Una nazione che crede in loro e che non crede in loro. Piazze piene di gente che sogna.
Una vittoria scontata più simile alla penombra che precede l’alba di un sole che sembra non sorgere mai.

Ricordo

Seduto sul divano di casa guardo le riprese del viaggio. New York, Washington, i verdi campi del Tennessee, fino alle Rocky Mountains nella Virginia dell’Ovest. E poi il ritorno verso le città della costa lungo le strade cantate da John Denver. “Take me home, country roads”.
Il viaggio sfuma lentamente nella memoria mentre la macchina presa a noleggio percorre la strada verso casa. Sfuma nella malinconia del ricordo e prende vita dalla gioia del ritorno a casa.
Ricordo la bella sensazione del primo passo sulla pista dell’aeroporto di Milano Malpensa, la bandiera italiana affiancata a quella europea, tese nel vento della sera vicino al terminal degli arrivi.
Ricordo i due carabinieri del controllo documenti alla dogana. Ricordo il suono della mia lingua.
Una frontiera come tante altre. Una terra di nessuno e allo stesso momento di tutti.

Attraverso la porta che si apre sul mio paese.
Come quando tornando dalla Germania il rumoroso treno delle Ferrovie dello Stato ha oltrepassato con noncuranza una stazione ferroviaria coperta da un velo di neve, sovrastata dal cartello blu e bianco che indicava “Brennero – Brenner”. Un confine certamente meno suggestivo rispetto ai boschi canadesi presidiati dalle Giubbe Rosse a cavallo.
Un piccolo varco tra le montagne che si apre sul mio Paese. Allora ero solo un ragazzino di 13 anni che non vedeva l’ora di tornare dopo due settimane di studio trascorse a Monaco di Baviera.
Mi sono solo fermato un attimo a guardare quella piccola banchina ferroviaria, un po’ come Odisseo si chinò a baciare la sua petrosa Itaca.