Al vento
Miranda BruniIL RACCONTO
Dallo specchio, la foto vola sul pavimento a fianco del letto senza alcun rumore, il viso in su.
Stupita lei guarda il soldato con il casco coloniale, i grandi occhi ammiccanti. Quegli occhi strambi, uno grigio e l’altro verde, erano stati sornioni e simpatici. Simpatico era stato quel bel ragazzo, consapevole di quanto piacesse alle donne con le quali era pronto a scherzare galantemente. Sì, galantemente: era vissuto in un’epoca in cui gli uomini si distinguevano socialmente anche per la leggerezza del loro corteggiamento. Non doveva aver faticato troppo per raggiungere i suoi scopi, era naturalmente elegante. E poi sensibile, romantico, aperto, capace di esprimere senza ritrosie le proprie emozioni. Allegro, amava la musica, ballava bene.
« Sì, davvero un bel padre sei stato!» dice rivolta alla fotografia.
Sta stesa nel vecchio letto a barca, la vasta coperta bianca nella stanza bianca, ormai la sua residenza coatta. La malattia lascia sempre meno spazio intimo, visitata dalla premura degli altri. L’ordine da lei poco amato ha preso il sopravvento. Restano sempre le fotografie e le cartoline infilate nella cornice dello specchio dorato, i fregi ora accuratamente spolverati, e gli acquerelli con ogni genere di angeli.
Tra essi i suoi figliolini dipinti con le ali, nudi rosa opaco, incrocio irriverente tra un angelo e una farfalla.
La fotografia per terra le fa venire voglia di pensare a quanto per anni ha rimosso. Per anni, ma non per sempre, costretta dai suoi analisti a rimestare il passato. Certo, riottosa, aveva contrastato l’operazione con ambiguità, mezze verità e omissioni, perché, da brava figlia maggiore, riteneva i suoi genitori del tutto eccezionali per il loro tempo.
Ben altri erano i problemi da affrontare nel costoso tempo delle sedute. Appunto, ben altri e d’altro genere d’amore, ma in fondo da anni lontani anche quelli, e non per la soave opera dei suoi analisti, bensì per l'affievolirsi progressivo del rancore e l’assopirsi della sensibilità.
Ora neanche più quella palese e noiosa emotività: solo la tranquillità della sua mente chiusa, quasi un ottundimento nebbioso. Prepararsi agli addii con calma e pudore!
Guarda il padre negli occhi, con complicità e sfida, così come quando era vivo: «Allora sei qui, cosa vuoi che ti dica? Devo ancora pensare a te! Maneggiare con cura l’argomento! Lo sai che non è semplice per me, papà, perdonarmi la grande rabbia provata per te in gioventù, perché con gli anni sempre più ho capito le tue ragioni.»
Spesso, nei momenti più disparati, le torna l’immagine del padre: alto e bruno, vestito con il completo di tweed “pepe e sale”, i calzoni larghi, la giacca appoggiata come i divi anni Cinquanta, la camicia bianca che pretendeva, a scanso di brontolata, stiratissima, senza grinze, pronta al mattino sullo sgabello di velluto in camera da letto. Andavano al ristorante “Zur Sonne” nella cittadina dove lei era in collegio per imparare il tedesco, reciprocamente orgogliosi, eleganti e diversi dalla gente rubizza con il costume tirolese della domenica.
In questa stessa cittadina lui, Vento, fu messo – piccolo orfano di mamma – in collegio dai preti. Vi rimase per lunghi anni, ma i suoi ricordi erano belli, quasi allegri. Raccontava le cose in modo buffo. Non vi era nostalgia nei suoi racconti. Quale nostalgia avrebbe dovuto provare un bambino di pochi anni per un padre cupo, due volte vedovo, le mogli morte ancora ragazze? Meglio studiare e giocare in collegio. E poi pregare in tedesco era divertente, lui e i suoi compagni dicevano bestialità che li facevano scompisciare. Padre e figlia confrontavano ora le loro bestialità devozionali e ridevano insieme.
Passavano delle domeniche lievi. Quando alla sera la riaccompagnava in collegio, restavano nel cappotto blu l'odore del padre, sigarette e colonia, le carezze sui capelli e i dolci nell’armadio da consumare piano piano e la nostalgia. Sì, aveva tanta nostalgia della mamma e dei fratellini e della realtà reinventata della vita al paese.
La vita nel piccolo paese negli anni del dopoguerra era da reinventare. Non solo per la povertà, ma per la mentalità della gente.
Vento, si trasferì in quel paese minuscolo poco prima di sposarsi. Vi aprì una di quelle botteghe di “Generi Misti” allora diffuse, perché quello era il mestiere di famiglia. Suo padre, benestante e stimato, era commerciante in un paesone vicino. Ma ormai non c’era posto per lui nell’affetto del padre, e ancor meno nella sua attività. Gli anni di collegio avevano creato lontananza, estraneità. Finito il ginnasio era stato mandato in città per imparare l’arte a bottega. L’aveva imparata l’arte, eccome, e non solo quella! Se l’era spassata alla grande in quel periodo, il lavoro sì, ma anche tanti amici, il teatro d'opera, il ballo. Correva in bicicletta, a volte vinceva, e tanta era la soddisfazione.
Il servizio militare lo fece a Roma, nei granatieri di Sardegna in servizio al palazzo della principessa belga, bella e triste. Conobbero i suoi segreti, quei ragazzoni alti e impettiti.
Decise poi di arruolarsi volontario per la Guerra d’Africa. Come avrebbe potuto un ragazzo come lui non rispondere al richiamo della Patria?! Combatté in Eritrea agli ordini di un tenente Montanelli, toscano, aristocratico, che sarebbe diventato un giornalista assai famoso. La malaria e una grave otite, il congedo e l’avventura finì.
« Hai sempre tenuto sul comodino la fotografia di una ragazza nera dagli occhi enormi e dolci, il corpo leggero e morbido. Un segreto nel cuore e forse un fratello cioccolata in giro per il mondo, papà? L’ho pensato spesso con curiosità. Anche per questo ho odiato la tua morte prematura, avvenuta prima del quietarsi delle mie ribellioni, che mi ha privato del tuo vero raccontare, delle confidenze adulte.»
Lui mise in un baule in cantina la divisa, la sciabola con il casco coloniale, e i suoi bambini andavano a frugare, immaginando la guerra. La sera facevano domande, volevano le storie e certo lui non si faceva pregare per raccontarle. Prima controllava i compiti, poi faceva qualche predicozzo, si sistemava la più piccola sulle ginocchia e ricordava. Erano belli quei dopocena nel salotto con la stufa bollente, tutti insieme stupefatti come cuccioli. Sul grammofono suonavano, a basso volume, le canzoni guerresche ormai proibite. Raccontava ai suoi figli la guerra d’Africa, guerra rivisitata di avventure senza crudeltà: traversate sul mare, Ascari e cammelli, deserto e oasi, canti di eroi. E i suoi occhi strambi grigi e verdi erano altrove.
Era soddisfatto di sé e della sua famiglia. Della sua donna, quella ragazza piccola e bruna che lo amava da sempre. Dieci anni di attesa, romanticamente compromessa da quell'amore urgente e infelice. Aspettare cartoline e lettere, aspettare che tornasse finalmente placato nella sua voglia di avventura. Quel ragazzo inquieto, dalla fantasia smisurata, cresciuto spaesato senza madre, lei lo avrebbe amato cocciuta, e lui le avrebbe riempito e sfasciato la vita.
La vita al paese era per altri versi avventurosa. La gente vedeva con malanimo l’attività di un forestiero, uno da tenere alla larga. Certo era simpatico, generoso, ma sempre uno di fuori era. E poi parlava come usavano in città, vestiva bene e portava al dito un anello, non beveva, non bestemmiava, era chiaramente troppo diverso. Ma non lo era per le donne, che lo aspettavano la sera nelle strade buie o lo cercavano di notte, incuranti dei fidanzati o mariti. E poiché lui – per prudenza più che per virtù – non ci stava, diventavano maligne e coi loro pettegolezzi aumentavano l’ostilità.
Ma gli affari non andavano male e quando lui portò sua moglie al paese migliorarono ancora, giovani e pieni di speranze lavorarono insieme. Quando vennero i bambini, quattro uno dopo l’altro, presero una tata per accudirli. Lui doveva spesso recarsi nei centri vicini, per rifornimenti ed altro. Usava la bicicletta, ora non più la sua leggera bicicletta rossa da corsa, ma una pesante, nera, da trasporto. In inverno, per le strade bianche ghiacciate, pedalava, forte e gelato, carico come un asino. Poi comprò una Fiat Balilla e tutto divenne più facile. Unica macchina in paese, nel cassone telato furono molti i trasportati di corsa all'ospedale. Ma i suoi figli vi ebbero un posto privilegiato, su panchetti di legno, alla domenica girarono contenti.
« Ti ricordi, papà, le gite in montagna, le grandi merende e i canti? E il rito annuale del giro del Lago di Garda in taxi, fermandosi a mangiare la trota per cena? Quando andavamo a raccogliere fragole, nel bosco bruciato di agosto, ti sedevi su un tronco e guardavi orgoglioso i tuoi bambini. La sera mangiavamo le fragole con la panna fino a scoppiare, mai furono posti limiti alla nostra ingordigia.»
La gente al paese, lo faceva sentire sempre in terra di nessuno, sempre in un guado, e vi erano dei momenti in cui se non fosse stato perché i bambini andavano ormai a scuola, avrebbe voluto andare via, tanto era avvilito. Si era adattato alle abitudini dei paesani, ma voleva pur vivere con meno pregiudizi e grevità, mantenere ai suoi figli un certo livello di distinzione e istruzione: in fondo non erano contadini, ma commercianti!
Eppur tanti erano quelli che andavano a comprare alla sua bottega, perché il credito era illimitato. I libretti della spesa venivano riportati di anno in anno e le cambiali rinnovate senza interessi, o perché a uno moriva la vacca o perché gli veniva la polmonite. E lui le scontava in banca come fosse stato un gran signore, con risorse infinite.
« E proprio il fatto di sentirti rampollo di una famiglia di commercianti fu la tua completa rovina, papà! Il voler realizzare il tuo sogno, un bel negozio grande, il più bello del circondario. Tu avresti dimostrato a tutti quanto eri bravo, come prendevi a morsi la vita inseguendo la tua ambizione, malgrado l'incomprensione e i torti subiti da tuo padre. Ma la Buona Ventura per l’ennesima volta non ti fu vicina. Al tuo destino non bastò non aiutarti, dovette bastonarti con annate di gelo, grandine e altri disastri, metterti in ginocchio davanti alle banche che non scontavano più le cambiali dei tuoi clienti insolventi, aggiungervi gli imbrogli palesi di coloro che mai ti avevano accettato nella loro comunità. Tu allora, ormai sconfitto e senza più sogni, decidesti di cercare un altro esilio e altra fortuna.»
« E pochi anni dopo, sempre più straniero a te stesso, in fuga da un dolore senza limiti, te ne andasti per sempre altrove.»
Lei guarda la coperta bianca, ormai il solo vasto orizzonte delle sue giornate, e pensa che forse in quell’altrove rivedrà il suo sorriso sornione e si prenderanno per mano, insieme ancora stranieri.