Il lato giusto delle cose
Feliciano Casanova de MarcoIL RACCONTO
L’aria della sera è umida e fresca, ed è bello stare qui, all’aperto, sulla panca di legno costruita con amore e pochi attrezzi da mio padre, così tanto tempo fa. Sembra ancora di sentire la voce di mia madre chiamarlo per il pranzo, più e più volte, in un crescendo di volume e di stizza, perché lui non sapeva mai staccarsi dal lavoro nella piccola stalla adibita a falegnameria... alla fine toccava a me, ragazzino dai modi suasivi, andare da lui e dargli dei piccoli strattoni alla giacca, sì da convincerlo a posare gli arnesi e ad afferrare la mia piccola mano, che quasi scompariva nella sua, enorme e ruvida.
Le mie mani, invece, non si sono mai irruvidite. La vita è stata buona con me, almeno dal punto di vista della professione, ed i miei trentacinque anni di servizio come guardia forestale non hanno piegato la mia schiena o indurito le mie articolazioni, né mi hanno riservato altre simili cortesie, alle quali nessuno dei miei antenati, fino a mio padre – tutti operai edili a prestito oltre confine – aveva potuto sottrarsi.
Tutto questo, naturalmente, ha avuto un suo prezzo. Stretto tra il senso del dovere e quello di appartenenza ad una piccola comunità – spesso dedita, per ovvi motivi di sopravvivenza, alla caccia di frodo ed al contrabbando – non ho mai potuto svolgere i miei compiti professionali fino in fondo a cuor leggero, sapendo che ogni mio intervento finiva col pugnalare padri di famiglie già al limite della sussistenza. Dall’altro lato, i superiori sempre alle calcagna, tesi a rafforzare in me il senso dello Stato, nonché pronti a ricordarmi, ad ogni pie’ sospinto, la provenienza del mio pane quotidiano.
Così, con un colpo al cerchio ed uno alla botte, si finisce al solito per non accontentare nessuno: non sono riuscito a fare carriera, mentre – in ogni caso – mi sono inimicato mezzo paese, ottenendo come ricompensa la diffidenza della rimanente metà. In questo campo, penso di aver siglato il mio capolavoro all’epoca in cui, giovane aitante in cerca di moglie, soffrivo della mia divisa, piuttosto che utilizzarla come arma di seduzione nei confronti delle ragazze del posto.
Quando passavo per la strada in uniforme, non potevo non notare come molte di esse mi lanciassero sguardi di fuoco, non esenti comunque da una certa soggezione; ero altresì certo che molti dei loro genitori si sarebbero concessi con gioia una discendenza confortata da un robusto stipendio statale, di ben altra sostanza rispetto alle loro abituali magre entrate. Ebbene, io di queste cose non volevo saperne; desideravo che una ragazza mi amasse per quello che ero, e non per il verde del mio involucro o quello dei miei biglietti di banca.
Quanto a questo, la figlia del mio vicino era veramente perfetta. Modesta e sorridente, dalle forme graziose e dalla vivace intelligenza, mi conosceva fin da bambino, e sapeva con quale sforzo svolgessi il mio incarico di cerbero della selva locale; mi confortava e mi incoraggiava nei momenti di depressione, e sapeva leggere le emozioni sul mio viso prima ancora che proferissi parola. I suoi genitori aprivano volentieri per me l’uscio della loro casa, e molte furono le serate trascorse in compagnia di quell’accogliente famiglia.
Tutto questo fino al giorno in cui, convocato assieme ad un collega del paese vicino, fui costretto a dirimere una contesa tra colui che già consideravo mio suocero ed un altro paesano, suo confinante. La questione era semplice: un albero del confinante si era schiantato a terra invadendo parzialmente il campo vicino, di proprietà del padre della mia amica, il quale aveva avuto l’infelice idea di trascinare il tronco per intero sul proprio terreno per rivendicarne la proprietà. In più, il suddetto padre si rifiutava di accettare l’evidenza della scia prodotta dal trascinamento del tronco, tralasciando volutamente il piccolo particolare delle radici rimaste saldamente al loro posto, nel bosco del vicino.
Con la morte nel cuore – sapevo quanto questo mi sarebbe costato – fui costretto a restituire il maltolto alla parte lesa e ad infliggere una multa piuttosto salata a colui il quale – non più tardi del giorno dopo, ne ero certo – avrebbe costruito un robusto steccato tra me e la figlia, confinandomi nuovamente nell’amara realtà del celibato.
Il matrimonio della mia innamorata, l’anno successivo, con un maestro elementare di passaggio in paese, mi convinse che in zona non avrei mai potuto trovare l’amore della mia vita, stretto com’ero tra il peso dei desideri insoddisfatti e l’incomprensione della gente. Iniziai così a spostarmi sempre più di frequente oltre confine, cercando all’estero ciò che la patria mi negava.
La frontiera si trova poco distante da qui, a non più di un’ora di cammino; oltre la cima del monte, una verde, accogliente vallata accompagna agevolmente il viandante fino ad una serie di piccoli villaggi ordinati, tranquilli, costituiti quasi interamente da case in legno scurite dagli anni. Tutt’attorno, campi dai colori variamente sfumati si estendono in geometrie di precisione irreale, che giungono ad accarezzare i boschi alle pendici delle montagne circostanti. E’ sempre stato un piacere infuso di mistero aggirarsi per le viuzze di questi abitati, e magari infilarsi in qualche locanda per tentare qualche approccio con la gente locale, con un entusiasmo quasi subito frenato dall’incredibile ostacolo della lingua.
Nessuna sfacciataggine può compensare una scuola non frequentata, od un accesso alla cultura negato dalla troppa miseria e dall’isolamento geografico. La buona volontà non mi ha mai impedito, nel corso delle varie visite in questi luoghi, di sentirmi, di fatto, un alieno, nonché – spesso – di essere trattato da tale. La disponibilità pur fattiva delle persone usciva sconfitta dalla lotta impari con una diversità culturale pressoché totale, sorta di frontiera non certo valicabile con una semplice ora di cammino.
Mi sono sempre chiesto cosa renda i popoli così diversi tra loro: non sono certo le distanze, visto che è solo lo spazio di una montagna a separare i nostri villaggi; eppure queste persone hanno una carnagione molto meno scura della mia, ed i loro occhi chiari come l’acqua sembrano squadrarmi da mondi lontanissimi. La foggia dei nostri vestiti è diversa, nemmeno le strutture delle abitazioni coincidono; per non parlare degli strumenti e delle tecniche per la coltivazione della terra. La mia fantasia, poi, esce stremata dal tentativo di decifrare la provenienza ed il nome delle magiche spezie che rendono così unici quei cibi profumatissimi, che mi sono sempre concesso in abbondanza ad ogni mia visita.
Il fascino che le stelle hanno sempre esercitato sugli uomini è legato – ne sono certo – alla loro lontananza, al senso di alterità che da esse promana. Chi non ha mai sognato di afferrarne una e condurla nel segreto della propria casa, distante dagli occhi di tutti? Un qualcosa di unico, una fonte di energia inesauribile per il cuore pulsante della vita. Una limpida promessa per un avvenire diverso, migliore.
Questo fu per me Inga, ragazza dal sorriso luminoso, magra come un giunco e flessuosa come un animale dei boschi. La dolcezza della sua voce superò le asperità della lingua, e tra noi si instaurò una comunicazione spontanea, fatta inizialmente di sguardi, gesti e delle poche parole condivisibili; la gioia dello stare insieme spinse l’uno ad accettare – o forse a non considerare – le diversità dell’altro.
Non è questo, ad ogni buon conto, il sentiero che ogni coppia, o aspirante tale, deve percorrere? La via dell’accettazione vicendevole, degli ostacoli da superare, delle barriere da infrangere; la necessità di riconoscere i propri limiti, per permettere all’altro di attraversarli. Con Inga fu un gioco, un’esplorazione reciproca che spalancò di fronte all’uno e all’altra nuove prospettive, come porte a schiudersi su un futuro carico di promesse.
La portai con me al paese, certo di poter trascorrere assieme a lei anni ed anni di una serenità finalmente – anche se faticosamente – raggiunta.
Avevo dimenticato, per mia sfortuna, molti degli aspetti presenti nella realtà quotidiana di un piccolo villaggio. La mia compagna, vuoi per le origini straniere, vuoi per la sua realtà di moglie della guardia, non fu mai accettata dai miei compaesani, e la loro diffidenza iniziale si tramutò, a poco a poco, in autentico ostracismo. Niente saluti lungo la strada, ultima ad essere servita al negozio, financo le battute e le risate di scherno dei bambini per le vie del paese.
Questa situazione pesava su di lei e su di noi, e l’armonia iniziale andò ben presto logorandosi, per tramutarsi infine nel suo esatto opposto: i litigi si susseguivano, crescendo quotidianamente in rabbia ed intensità; la magia primeva si dissolse come neve al sole, e ben presto mi ritrovai di nuovo solo.
Ora sono trascorsi molti anni da quando Inga mi ha abbandonato per tornare sul lato giusto della montagna, o delle cose. Quell’esperienza mi aveva sfiancato. Non ho più cercato di innamorarmi da allora, e certo non lo farò adesso, con le ossa che cigolano quanto la panca dove sono seduto; lanciare sguardi sul passato e riflettere sulle molte amarezze della vita è ormai il destino dei miei giorni, e temo mi accompagnerà fino alla morte; ogni tanto, trovo sollievo nello scrivere qualche piccola poesia, come questa:
Se fossi un cigno
Me ne andrei via
Se fossi un treno
Sarei in ritardo
Se stessi dormendo
Potrei sognare
Se fossi un uomo buono
Capirei la distanza
Che separa le persone