Piccoli addii
Minu GhedinaMinu Ghedina
1959: Nata a Klagenfurt, cresciuta a Innsbruck
1977: Maturità, studi universitari in germanistica e storia, studi di arte drammatica
1981: 1° premio al Concorso di drammaturgia del Tirolo
1982: Diploma professionale “Bühnenreifeprüfung”, inizio dell’attività di attrice
1985: Trasferimento a Berlino
1986: Prima rappresentazione dell’opera teatrale “Mondsüchtig” a Berlino
1990-1995: Trasferimento a Vienna, corso di studi di scultura all’Università di Arti Applicate con Alfred Hrdlicka
1993: Patrocinio della città di Berlino e prima rappresentazione dell’opera teatrale “Essiggurken”
1997: Nascita della figlia Lea, lavoro in qualità di artista freelance
1999: Trasferimento nel Nordreno-Westfalia
2008: Trasferimento a Innsbruck, lavoro in qualità di artista freelance
- Diverse pubblicazioni sulla rivista letteraria austriaca “STERZ”
- Letture sceniche
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
La storia è ambientata in una notte d'inverno. Come in una coreografia, i due amanti si avvicinano e si allontanano e si avvicinano ancora, finendo poi per separarsi. Un passo a due filmico-drammatico con esito elegiaco, quasi conciliante. Potrebbe essere la storia di una grande liberazione.
IL RACCONTO
Eppure, girovagare per le strade al principio di quella sera del cinque gennaio era stato piuttosto casuale. Avevo sbrigato delle commissioni e sfioravo con lo sguardo le facciate degli edifici, senza lasciare niente dietro di me, tranne gesti muti. Registravo le vetrine con scarsa partecipazione.
Faceva già buio e freddo. Poi, il tacito accordo tra gli eventi mi gettò di punto in bianco in un brulicare di persone. Non avrei voluto essere coinvolta, ma qualcuno mi ci aveva trascinato nel bel mezzo, ed ecco che mi ritrovai lì, leggermente spaesata, a guardarmi intorno. Nei calici di spumante si rispecchiava la luce tenue delle candele e in quel fioco chiarore tutti camminavano un po’ chini in avanti per riconoscere i visi degli altri. Rimanevano dritti soltanto quelli che inseguivano i propri pensieri. Tutti erano in vena di festeggiare. Lo spazio riecheggiava di auguri, vasi di fiori venivano riempiti, si rideva e si beveva.
Mi feci largo tra le persone perché mancava l’aria. Ondeggiavo, spingevo, premevo e cercavo una via di fuga in avanti, verso l’uscita, quando fui colpita dal suo sguardo. Così inaspettato che dovetti chiudere per un attimo gli occhi, per riprendere fiato e orientarmi di nuovo. Esplorai a tentoni lo spazio intorno a me e arrivai a toccare un tavolo al quale mi aggrappai barcollante. Quando riaprii gli occhi lui era ancora lì che mi guardava. Frastornato come me. Mi feci strada a gomitate e spintoni come un guerriero. Dovevo avanzare, andare da lui. Poi fui lì, le mani protese lontano dal mio corpo, per non toccarlo, per non riuscire a sentire il suo corpo attraverso il giaccone invernale e il maglione e la camicia e tutta quella moltitudine di gente. Arrivai senza fiato e a fatica spiccicai un ciao. Lo regalai al suo sorriso, che da settimane stava in agguato, abbarbicato dentro di me con dolorosa tenacia, e che in quel momento mi penetrò facendomi vacillare, un istante appena, percepibile solo da lui. Ci guardammo e in quello stesso attimo capimmo che i mesi di rinuncia erano trascorsi invano. Non avevano portato a nessuna liberazione. A nessuna guarigione. L’amore bruciava ancora. Ci bruciava sempre di più. Al punto da sgretolarci.
Qualcuno mi spinse da dietro, caddi leggermente in avanti e lui mi afferrò, e in quella frazione di secondo tornò a galla tutto, tutte le parole, tutti i contatti del nostro amore. Lo fissai come un partigiano che lotta disperatamente per la sopravvivenza. Non c’era stato alcun progresso. Per quanto ci fossimo torturati, eravamo rimasti impantanati.
Ti chiedo, abbiamo fallito?
Mi guardò e nei suoi occhi tutto si ripeté ancora una volta. Di più non era possibile. Sprofondammo nel nostro mutismo. Gettammo sguardi orfani di gesti finché qualcuno lo affiancò e gli mise in mano un calice di spumante. In modo leggermente distratto, forse percepibile solo da me, lo prese e scambiò qualche parola con la persona che aveva di fronte. Il suono della sua voce fu insopportabile. Mi voltai. Il mio petto fu oppresso da un senso di confusione. Già una volta ero arrivata a quel punto. Per la seconda volta in quella sera iniziai a spintonare le persone e farmi largo verso l’uscita. Se avessi potuto mi sarei strappata i vestiti di dosso per riuscire a respirare, quasi rantolavo, ma era inverno e quando aprii il portone che dava sulla strada fui investita da un freddo pungente. Ma dava sollievo, perché qualcosa si opponeva al dolore. Lo sfidava. Continuavano a passarmi davanti persone che entravano in casa con fiori o regali. Per fortuna non conoscevo nessuno e per diversi istanti potei godermi il freddo con il cappotto aperto e gli occhi chiusi come se fosse un bagno di sole. Come ci riduciamo quando amiamo.
Il freddo era pungente. L’immersione nell’inverno mi ustionò le guance. Qualcuno aveva acceso un falò di benvenuto in un grande paiolo davanti al portone, come un segnavia per chi cercava la casa. Mi avvicinai di un paio di passi e fissai il calore. Com’era vicino e come faceva presto a scacciare il freddo. Ancora un altro passo e mi avrebbe bruciata.
A un certo punto me lo trovai accanto. Me ne accorsi subito. Il cuore mi batteva forte e avrei dato tutto per potermi appoggiare a lui come se niente fosse, per sentire il suo respiro. Ma il non poterlo fare allignava ormai dentro di me e faceva congelare i gesti ancor prima di accennarli. A volte morivano già nel pensiero. Come si diventa limitati, e silenziosi.
Il fuoco produceva squarci di immagini sempre nuove. Facciate di case spuntavano dal nulla e si rispegnevano. Come in un giardino magico il mondo si avvicinava per poi ritrarsi. Ora, in quel preciso istante, seppi esattamente che sensazione trasmetteva la sua pelle, il suo odore, il suo sapore. Con gli occhi chiusi iniziai a ricordare.
Bello il fuoco, disse una donna che si era avvicinata a me. Io annuii senza guardarla. Sì, fa bene.
Già provato il buffet?
Risi. Veramente no.
Vale la pena.
Con la coda dell’occhio lo vidi imboccare il vicoletto e un attimo dopo scomparire alla mia vista. Contai in silenzio tra me e me. Arrivata a duecento rivolsi alla donna un gesto del capo: ora vado a provarlo, e presi la stessa strada che aveva preso lui, e mi spaventai quando dopo pochi passi mi tirò a sé. Forte e stretto.
Le settimane più insopportabili della mia vita, mormorò e mi strinse a sé così forte che quasi non riuscii a respirare. Io lo strinsi ancora più forte.
Ci baciammo. Sentii il mio corpo interrompere il processo di necrosi e la pelle tornare a pizzicare. Iniziò a scongelarsi. Era quasi insopportabile. Faceva male.
Lo risucchiai dentro di me. Nelle ultime settimane ero soffocata, morta di fame e di sete. Avevo solo finto di vivere.
In quel momento infilai la mano sotto il suo maglione per poter sentire il suo calore. Al riparo da tutto riemerse il coraggio.
Ma ogni contatto ci impresse nella carne nuove ustioni. Come ci riduciamo quando amiamo.
Poi rimanemmo in silenzio, ci appoggiammo l’uno contro l’altra, annusammo la nostra pelle e facemmo finta che andasse tutto bene.
Cosa dovremmo fare?
Dimmelo tu.
Il buio ci avvolse. Iniziò a cadere una neve sottile, che immerse il mondo nel silenzio. I fiocchi di neve ci avvolsero del tutto, in modo così lieve e delicato da farci credere che il mondo appartenesse solo a noi e tutto fosse semplice. Strinsi la sua testa contro di me. Nient’altro. Era sufficiente a essere felici. La neve addensò la nostra confusione. La tenerezza di quel momento aprì crepe nei pensieri. Disegnò una ninnananna. Quando sentimmo passi leggeri nella neve, sussultammo. Ma era ridicolo. Non tutti erano nemici.
Quanto lo amavo.
Come ci riduciamo, mormorò e mi appoggiò sul viso la mano calda. Diventai cieca. Tutta olfatto. La sua mano diventò casa. Ogni particella della sua pelle mia confidente. Aveva l’odore del ricordo.
Rimanemmo in piedi così, per non so quanto tempo. Il mondo intorno a noi era piombato completamente nel silenzio. Forse eravamo rimasti solo noi. Tornammo a respirare con maggiore leggerezza. Noi, figli della neve.
Sentii il suo cuore contro la mia guancia.
Ascoltai quel cuore per minuti. Immobile. A un certo punto sentii anche il mio di cuore, con un ritmo leggermente sfalsato, ma altrettanto intenso. Il suo suono si espanse dentro di me, fino a penetrare nelle mie ustioni. Chiusi gli occhi. Quel battito ora pulsava ovunque, più forte del suo.
Disorientata, aprii gli occhi.
Mi apparve davanti il motivo a coste del suo maglione scuro che riusciva a coprire l’immagine della sua pelle, ma non l’odore. Ero malferma sulle gambe, stavo già per infilare la mia mano sotto la sua maglia, la alzai, armeggiai col rosso della lana, impaziente, perché mi ero impigliata da qualche parte, lasciai avanzare ancora un po’ la mano, finché il gesto finì per congelarsi. Disorientata, feci per riappoggiare subito il mio viso contro di lui, ma tentennai di nuovo, mi fermai e poi con delicatezza, con una delicatezza con cui non ho mai fatto nulla in vita mia, iniziai a staccarmi da lui. Vidi il motivo a coste rosso allontanarsi da me, perdere nitidezza, persi l’odore della sua pelle, a un certo punto non sentii più il suo cuore, il calore si estinse in fretta. In fretta. Provai di nuovo freddo, esitai ancora una volta, ma infine mi staccai dalle braccia, dalle mani, millimetro dopo millimetro, finché non rimase attaccato a lui soltanto lo sguardo. Ebbi la sensazione di impiegarci ore. Come al rallentatore alzai le braccia per un ultimo gesto, ma sfumò nel turbinio della neve. I soffici fiocchi mi avvolgevano, sussurravano piano parole d’inverno, mi indussero a restare un istante in ascolto perché emettevano un suono melodioso, forse cantavano. Sorvolai il suo sguardo.
Molto lentamente e con delicatezza, come se dovessi imparare di nuovo a muovermi, mi voltai, guardai lungo la strada per sincerarmi che fosse percorribile, alzai il piede destro e iniziai a lasciare impronte nella neve, fresche e immacolate. Come il primo uomo.