Ottava edizione 2015 • segnalato sezione inediti

Grassfinger

Andrea Dallapina

Andrea Dallapina

Andrea Dallapina è nato in val d'Ossola nel 1972 e vive a Verbania sul lago Maggiore. È giornalista professionista e dirige il bisettimanale Eco Risveglio. Ha pubblicato il romanzo "Heidi non lo sa" (2010, con Renato Brignone). Suoi racconti sono comparsi in diverse raccolte. Ha vinto il concorso per miglior racconto del Cavedio di Varese (2014), il premio GialloMiele di Castel San Pietro (2014), il premio Testore- Salviamo la montagna di Toceno. Quattro volte finalista al premio GialloStresa-GialloLaghi

IL RACCONTO

“Scemo chi legge”. Era scritto sul portacenere di un vagone di seconda classe. Lo lessi mentre viaggiavo verso Grassfinger. Non mi ricordo il suo vero nome: Castel Qualcosa o Borgo-vattelapesca, era un piccolo centro con un castello ai piedi delle Alpi, a pochi chilometri dal confine, ma nell’ambiente letterario per una settimana diventava Grassfinger. Nessuno si ricordava chi aveva inventato il nome, né tanto meno il significato. Ma gli ultimi sette giorni di luglio molti scrittori si ritrovavano là, e io ero sempre stato curioso di sapere cosa vi succedesse.
Un bicchiere di sangria italica: barbera più aranciata. L’unica cosa buona era la sua temperatura: bello ghiacciato. Me lo stavo scolando solo, e con la faccia da pivello, al Bardellapiazza: si chiamava veramente così.
Un naso irregolare, due occhi da satiro e quei capelli che sembravano pettinati dalle mani di un arrotolatrice di foglie di tabacco: di certo un sessantenne invecchiato senza risparmiarsi molto. Sedeva due tavoli a destra del mio e non fumava. Il fatto che non fumasse non si addiceva alla sua immagine da personaggio letterario; mi alzai e glielo andai a dire.
“Mi scusi, potrebbe infilarsi un toscano in bocca e avvolgersi di una nube di fumo? Sa, anche gli stereotipi vogliono la loro parte.”
Alzò lo sguardo, mi fissò interrogativamente.
“Mi spiace, ho smesso di fumare. Sto aspettando una persona, per favore se ne vada”.
Io al suo posto avrei risposto così. Lui, invece, senza emettere suono, mi fece cenno di accomodarsi.
Mi sedetti.
Mi sorrise e disse: “Come scusa è molto originale. A chi devo fare la dedica?”
Leo Sparanzi mi stava di fronte, l’autore di “La notte con gli stivali” aveva pensato che fossi un suo ammiratore in cerca di autografi. Quando si presentò balbettai: “Le giuro che non l’avevo riconosciuta. E a dirle il vero, io, “La notte con gli stivali” non l’ho mai letta. Ho letto su qualche antologia quel suo racconto…eeee… “Approfittate di me”. E poi, e poi ho seguito sui giornali la querelle tra lei e Mengotti. Quella a proposito dell’opera del Piccalata. Io, sa, non è che conosca bene il Piccalata, ma il suo modo di affrontare la questione, quel riferimento al contesto prealpino come radice della sua volontà di mostrare…”
M’interruppe.
“Ma davvero hai letto tutte quelle boiate? - sorrise e continuò -. Caro ragazzo quelle cose si scrivono per avere i richiami in prima pagina, per far circolare il tuo nome. Io, Piccalata, l’ho conosciuto solo come bevitore di grappa, e dei suoi scritti al massimo mi ricordo le copertine e i frontespizi con le dediche. E Mengotti lui lo conosce solo perché è nel catalogo del suo editore”.
La classica situazione in cui resti spiazzato. Quando non sai se l’interlocutore è serio o sta girando una candid camera. Dovevo fingermi sorpreso? dovevo abbozzare un sorriso di complicità? O dovevo tirare fuori una battuta che lasciava indeterminata la mia credulità sulle cose dette, del tipo:  “Potrebbe  essere  il soggetto  per un racconto”? 
La dissi. Ora era lui che mi guardava con la faccia di chi non aveva compreso quello che io avevo capito. Sospettoso, mi prese alla larga:
“Cosa fai? Studi?”
Era il mio terzo giorno a Grassfinger, Sparanzi mi portò alla fattoria dei Pizzi. Lì sorgeva un enorme tasso e l’ultimo giorno della settimana degli scrittori ci si trovava là; gli ammiratori leggevano alcuni brani e l’autore li commentava; i colleghi, alla fine, intervenivano complimentandosi con frasi di circostanza. Poi tutti attorno al banchetto allestito dai Pizzi, la notte la si passava ebbri, solitamente sull’erba, possibilmente in compagnia, e non ci si scambiavano soltanto opinioni.
La mia presenza era dovuta all’iniziazione che Sparanzi cominciò la sera della sangria italica al Bardellapiazza. Ogni anno gli scrittori decidevano di introdurre un neofita della scrittura nel loro giro. Quell’anno la scelta toccava a Sparanzi, e cadde su di me. La sua scelta e anche lui. Inciampò in una radice del tasso. Colpa della labirintite.
Quel giorno giurai di non rivelare mai a estranei il segreto degli scrittori,  spergiurai sulla lettura. E ovviamente anch’io avrei dovuto comporre qualcosa per la giornata sotto il tasso. Avevo tre giorni di tempo. Scrissi “Grassfinger”.
Raccontavo spudoratamente il segreto degli scrittori, recitavo la parte di un autore che, deciso a spifferare tutto, non viene creduto dai suoi lettori. Anzi, questi lo osannano ancor di più come genio letterario, facendogli fare palate di soldi.
Avete capito qual è il segreto? Per diventare scrittori bisogna giurare di non leggere più opere altrui. Ovviamente si può parlarne, nella speranza che gli altri facciano altrettanto con le proprie. Perché? Immagino che, dovendo già passare parte del loro tempo seduti a scrivere per poter campare, se dovessero anche leggere i conati di parole dei loro colleghi, quando potrebbero andare alle cene mondane, e soprattutto con le mondane?
Siccome non avevo ancora nessun ammiratore, alla giornata sotto il tasso, fui io a leggere il mio racconto.
Leggere le proprie opere non era vietato agli scrittori, ma potendo essi ne facevano volentieri a meno. Quando finii la recitazione guardai subito i visi dei colleghi: erano tesi, ma l’ovazione che seguì da parte dei lettori li rasserenò subito. Come il mio personaggio non ero stato creduto.
Al banchetto sedevo tra una ragazza, gran pezzo con il fisico da prima serata anni Ottanta, e un ragazzo, giovane bronzo levigato. Devo dire che di fronte alla bellezza dell’esemplare ebbi seri dubbi sulla mia eterosessualità. Per evitarmi di scegliere iniziarono a strusciarmisi addosso entrambi; mi sentivo una centrale di testosterone e già mi pregustavo un esercizio di triangolazione senza compasso. Ci spostammo tra l’erba. Oltre a strusciarsi i due facevano finta di adulare il mio stile, o almeno così credevo, sennonché dopo che ebbi loro parlato del mio rapporto con la science fiction e l’opera di Derrida, i due, coperti nella mia immaginazione unicamente da un velo di bava, dopo essersi fatti autografare sul pube glabro, se ne andarono lasciandomi con i miei porno-pensieri e un’erezione difficilmente gestibile. Seduto nell’erba cercavo di distrarre i miei ormoni dalla delusione lisciando il pelo a un soriano molto disponibile. Pensai  che ero troppo  ingenuo  per fare  lo  scrittore. Aveva ragione Platone? i poeti sono degli appestati da tenere fuori dalle mura? Ma soprattutto, c’era un muro dietro il quale masturbarmi?
Arrivò allora la professoressa Guerina Perovich. Era famosa nel giro per essere stata sospesa dall’insegnamento per “accanimento didattico”: si narrava che richiedesse agli alunni di riconoscere al tatto i versi dell’Adelchi. Esonerata dalla docenza, scrisse un testo sui rivoluzionari metodi pedagogici da lei usati, cosa che le valse il diritto a frequentare Grassfinger. Inorridii all’idea di passare la mia notte sotto il tasso a disquisire con la prof del rapporto tra la mia opera e il Manzoni cristiano. Ma, quando mi fu a mezzo metro, la Perovich si aprì lussuriosamente la camicetta, e allora capii che il suo cognome non indicava solamente un’origine slava e che il mio umorismo non è molto raffinato.
Il giorno seguente ero sulla strada del ritorno. Da allora non leggo più libri, li compro per riempire gli scaffali, per far colpo sugli ospiti e, splendidamente ipocrita, tengo la Bibbia sul comò, limitandomi ogni sera a spostare il segno. E poi continuo a scrivere per ritornare ogni anno a Grassfinger: puro dal dover piacere e impunito dalle critiche.