Dall'altra parte
Mario RumorMario Rumor
Sono nato a Feltre (BL) nel 1973. Ho studiato al DAMS di Bologna cominciando a muovere i primi passi nel mondo dell'editoria scrivendo articoli e recensioni. E ho continuato a farlo, svolgendo numerosi incarichi e collaborando con riviste italiane e straniere. La passione per la scrittura si è mescolata a quella per il cinema: ho pubblicato saggi, scritto centinaia di articoli e interviste per periodici quali "Empire", "Just Cinema", "Widescreen Magazine". Dal 2009 sono uno dei critici cinematografici e televisivi dello storico mensile "Il Mucchio selvaggio", dove talvolta mi occupo anche di libri e fumetti. Lo scorso giugno ho vinto il Premio Letterario Nazionale "Trichiana - Paese del libro" con il racconto "Notizie da un uomo vecchio".
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
Con il dono della fantasia figurativa che un buon racconto sa mostrare, "Dall'altra parte" è parso alla giuria meritevole anzitutto per l'ambientazione. Il mondo descritto è rarefatto, quasi onirico. Un mondo dove "la gente schiva le emozioni più semplici". Vi si aggira, smarrito, un indiano trapiantato in Italia, pedalando una bicicletta da donna. È silenzioso, dubbioso. Intorno a sé tutto quel che vede sono "simulazioni" di felicità; dentro di sé, ciò che prova forte è la nostalgia della sua India, troppo lontana e molto rimpianta. Tutto è solo accennato, in questo apologo mite che ci parla di solitudine e spaesamento, senza che le tinte tenui dell'atmosfera mai divengano violente. Perché ogni dettaglio parla senza troppo dire, in un elegante equilibrio tra sogno e realtà, speranza e resa.
IL RACCONTO
Di solito ci si arriva con la bassa marea. Asim però lo ignora. Sa ancora ben poco di quel luogo e del Palazzo Cremisi che svetta in lontananza. Mentre muove alcuni passi dalla spiaggia al piazzale deserto, la brezza leggera lo sospinge dolcemente in quel senso. Il cielo è sgombro di nuvole. Si mostra nell’azzurro d’ordinanza. Ma osservandolo meglio, si potrebbe obiettare che nel suo tessuto teso all’infinito si inoltrino addirittura striature dorate. Il giovane uomo si stringe nelle spalle. Non si sente minimamente angustiato, eppure non ricorda gran parte dei momenti precedenti la sua presenza sul litorale. Tenta di trattenere i pensieri, ma questi fuggono in ogni direzione. Ha quasi l’impressione di vederli crescere fuori da sé su quella spiaggia silenziosa. La marea non ha ancora raggiunto il suo culmine, e il vento si infila sotto le vesti regalandogli una sensazione di tranquillità.
Questa è pressappoco la situazione: Asim ha trent’anni e sta sognando. È giunto dall’India in Italia in cerca di una nuova vita. Ha gli stessi occhi tristi di quando è partito. Ma un uomo come lui non può cedere alle lusinghe delle lacrime. Lo ha detto sua madre, un attimo prima di mettergli in mano la striminzita borsa da viaggio. Divide un bilocale con alcuni connazionali e fa un lavoro strano: distribuisce volantini pubblicitari. Gironzola per le vie delle città a bordo di una bicicletta da donna con le ruote piccole e infila i volantini nelle cassette delle lettere. Talvolta urta la sensibilità della gente che non gradisce accumulare tutta quella cartaccia. Allora si scusa e pensa che il suo lavoro forse è soltanto inutile. Il più delle volte, però, è invisibile agli occhi delle persone.
Quando si lascia la spiaggia alle spalle, il vento ha smesso di soffiare. Con estrema riluttanza getta uno sguardo intorno per vedere se è solo. Davanti a lui si diramano viali scoscesi che conducono dappertutto. La folta vegetazione si stringe attorno a essi in un brulichio confuso di tante tonalità di verde. Asim non sente più il rumore del mare. Con pochi passi ha già fatto parecchia strada. La cupola del Palazzo si erge non troppo distante ed è certo di raggiungerla. Quel posto ha l’aria di casa, eppure non è casa. Asim è all’oscuro di cosa debba succedere. Si sente leggerissimo mentre pone un piede dopo l’altro. Non ricorda di aver scelto un verso in particolare: era già in cammino prima ancora di accorgersene.
Asim adora la “sua” bicicletta. Pedala veloce e si ritiene un uomo libero. Sul momento non ci pensa, il lavoro viene prima. Ci rimugina la sera, quando sprofonda la faccia nel cuscino. Non osa confessarlo ai suoi connazionali per timore di essere deriso. Alcuni di loro svolgono il suo stesso lavoro e sembrano automi con una carica meccanica infilata dietro la schiena. Smaltito il plico di carta, ne caricano un altro sul cestino e ripartono. Macinano chilometri ogni giorno, smontando dal velocipede e risalendo dopo aver depositato i depliant. Lui invece cavalca il vento, percorre il reticolo carrozzabile senza tener conto di dove finirà. Si gode ogni momento. Perdersi in quelle piccole città di provincia è addirittura eccitante. Tanto sei invisibile, pensa Asim.
Si sorprende, quando varca l’ingresso del minuscolo villaggio. Il terreno è ocra. Un colore familiare che incita la nostalgia. Le casupole sono costruite ai margini della giungla: così vicine e storte da sembrare un’escrescenza di mattoni e fango della foresta stessa. Asim sente un colpetto sulle spalle. Un vecchio lo osserva e gli sorride con la bocca sdentata mentre tenta di riferire qualcosa. Il giovane gli legge le labbra screpolate: Asim, dice. È il suo nome, ovvio, ma vuol dire anche “senza confini” ed è ciò che intende l’altro. Il vecchio scuote allora il bastone che tiene con sé e si mette a incidere il terreno scuro. Per un attimo, il ragazzo crede di veder apparire un mandala che raffigura la sua intera vita animata da incontrollata irrequietezza. Non è forse la ragione per la quale ha lasciato il villaggio? Invece il disegno assume la forma di qualcosa che Asim già non ricorda più (è una cupola, naturalmente). Con un cenno gentile, il vecchio gli ingiunge di proseguire il viaggio. Non appena si volta per ringraziarlo – Namasté – il paesaggio è però mutato.
Ha davanti a sé mezz’ora di tempo libero ogni volta che riesce a pranzare. Asim scarta l’involto con dentro un panino e cerca sempre rifugio dove l’asfalto esaurisce la propria corsa e incontra il soffice manto erboso di un giardinetto. L’uomo si libera delle basse scarpe sportive e siede composto sull’erba. La prima sensazione che lo coglie è la serenità; sono sempre di più le persone che sgusciano via da luoghi come quello per irrompere in attività e situazioni socialmente più caotiche. Brunch, aperitivi, pranzi al volo inseguendo le discussioni del proprio capo. Asim ama stare in mezzo alla gente ma, in questo momento, la solitudine non gli pesa. Nemmeno in quel Paese così distante da casa. Però ci ha fatto l’abitudine: lui è zero. Difficilmente diventerà un numero primo. Quando si osserva fiero allo specchio, dichiara: io sono Asim l’indiano. Qualcuno se ne accorgerà prima o poi?
Il Palazzo Cremisi in realtà ha il colore della panna. È un luogo remoto, ammiccante e bellissimo. Ormai è quasi l’imbrunire. Il sole si porta rapidamente alle spalle del sontuoso palazzo e i contorni perfetti si affievoliscono, svanendo nel suo abbraccio. Ad Asim sfuggono i particolari arabescati, le guglie minori che premono per mettersi in evidenza. Trascorre un tempo infinitesimale e di colpo si trova ai piedi dell’edificio. Una folla venuta chissà da dove lo travolge come una burrasca. È un andirivieni frenetico e festoso di persone che marciano, piegano il bacino a destra e sinistra, rubandogli uno sguardo per poi riprendere il travolgente sabba. Asim viene risucchiato in quella danza. Gli occhi gli lampeggiano estasiati e tenta di recuperare un movimento tutto suo, indipendente, ma la segreta energia della folla ha già deciso per lui. Lo conducono all’interno del Palazzo.
L’ideale per Asim sono le giornate in cui non fa troppo freddo. Indossa un leggero kurta, il camice scuro che gli scende fino alle ginocchia, sopra un paio di salwar neri che si chiudono aderenti alle caviglie. Ha il turbante rosso in testa. Gli occhiali tondi e una barba rigogliosa. Ci sono momenti in cui il suo aspetto esotico incuriosisce i bambini: alcuni lo affiancano con la bicicletta e lo scortano sorridenti. Sorridono ganzi quando prendono a gareggiare a chi pedala più veloce. I più audaci gli battono il cinque con la mano, prima di lasciarlo proseguire nel suo giro di lavoro. Ci sono altri momenti invece in cui le strade sono deserte e Asim si sente in minoranza rispetto a quel vuoto. Il mattino di buon’ora, soprattutto, quando il silenzio preme sulle orecchie come un tappo. La scoperta di questo nuovo mondo in cui è finito a vivere e nel quale quasi ogni cosa talvolta scorre in maniera irrazionale, e la gente schiva le emozioni più semplici, gli comunica un senso di smarrimento. Fortuna che i suoi coinquilini ogni tanto riescono a recuperare film hindi o bengalesi scaricati da Internet per trascorrere le serate. Non è come essere a casa. È solo una vaga simulazione di felicità che cancella tutto il resto.
Dentro il Palazzo devono aver vissuto i giganti. Le sale sono immense, alcune protese verso l’alto. Lassù, le divinità maliziose galleggiano in un oceano di colori e stanno a guardare. In basso la folla non si è ancora dispersa ma si confonde in un abbraccio fluido che trattiene il giovane sognatore. Le dolci musiche che si diffondono, annunciano che presto la festa giungerà al suo culmine. Come la marea, che ha condotto il ragazzo fin lì. Ma Asim si comporta come se non stesse affatto sognando. Attende pazientemente che qualcuno chiami il suo nome per destarlo. Gli ospiti agghindati fanno dondolare la testa, assecondando le melodie. Riconosce alcune facce del suo villaggio, altre no, mentre la folla ora si divide lasciandolo proseguire verso il centro della sala. Avvicinandosi, Asim scorge la figura minuta e sottile della madre. Regge in mano un turbante dorato. E glielo porge. È vestita in un elegante sari rosso e verde, i capelli grigi raccolti all’indietro. Non appena Asim accetta il dono, il soffitto lascia cadere un milione di coriandoli. Asim si rende conto che è la cartaccia che distribuisce ogni giorno. I festeggiamenti continuano in mezzo a sconosciuti e volti familiari. La musica è una creatura immortale la cui voce sovrasta le altre, anche quella della madre mentre tenta di confidargli qualcosa. Il ragazzo non reagisce: lascia che ogni cosa prosegua e sente battere forte il suo cuore.
Dall’altra parte, Asim l’indiano si desta dal sonno. Gli basta aprire gli occhi. Tiene la schiena appoggiata a un vecchio albero, si sporge in avanti e si guarda intorno. Soffoca uno sbadiglio. La pausa pranzo è finita da un po’, ma non se ne cura. Dopo essersi rimesso in piedi, raccoglie la bicicletta da terra e riparte.