La ballata dei ragazzi tranquilli
Sibilla De StefaniSibilla De Stefani
Sibilla C. De Stefani è nata a Lugano nel 1987. Dopo la laurea in Lettere, ottenuta a Ginevra nel 2011, si trasferisce a Zurigo, dove nel 2016 ha conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura italiana e dove tutt’ora risiede. Nell’ottobre del 2016 ha esordito con L’ultima innocente, romanzo familiare edito dall’editore ticinese Salvioni (Bellinzona).
IL RACCONTO
Il gatto l’hanno buttato in pasto ai pittbull. Hanno preso il micio (miagolava, era terrorizzato) e l’hanno fatto volare sopra la staccionata, fin dentro al recinto dei cani. La scena è stata immortalata con il telefonino (come quegli altri, divenuti famosi per il selfie con il cane dalle orecchie mozzate, e quelli che preparavano il cibo agli scoiattoli, ai margini dello strapiombo, e quando la bestia veniva a mangiare la facevano volare di sotto con un calcio, e dopo ridevano).
Ne hanno parlato anche al TG. Io, però, non ho voluto guardare la barbarie in differita.
Avevano tra i dodici e i quindici anni, non si rendevano conto. Non intendevano compiere il male. Uno di loro lo conoscevo così, di vista. Aiutava la nonna a portare le borse della spesa.
La parte di luce, la parte di ombra.
Quanto dolore devi provocare, prima di essere giudicato come un uomo?
Il gatto si chiamava Felix. Era il gatto di mia figlia. Il nome glielo avevamo dato io e Riccardo, il padre della bambina, il mio fidanzato storico dei tempi del liceo. L’avevamo preso al gattile.
Al gattile?
Sì, quello comunale. Ci siamo andati una domenica mattina. Era aprile. C’era un cielo blu di quelli che ti tagliano il respiro e odore di erba appena tagliata. Una mattina priva di angoscia. Siamo andati con il tram, perché non avevamo ancora la macchina e l’idea di comperarla non ci sfiorava nemmeno, perché avevamo ventidue anni, bevevamo troppo e a me piaceva la musica rap, anche se la trovavo sessista. Abbiamo appoggiato la gabbia sul pavimento e lui è corso dentro. Miagolava. Dopo non ha più voluto uscire. È lui che ci ha scelto, in un certo senso.
Erano ubriachi?
Non lo so. Fa una differenza?
Erano in tanti. Le cattive influenze, si sa. A quell’età non si conosce la differenza tra il bene e il male. Il gatto li avrà incontrati al momento sbagliato.
Felix dormiva con noi. Anche se all’inizio Riccardo era contrario. Così giovane, e già con l’animo di un vecchio! «Le bestie non sono fatte per dormire con i cristiani». Aveva comperato una cesta di peluche per Felix. Una cesta zebrata con orecchie appuntite. Gli è costata uno sproposito, ma la cosa non lo disturbava (come quando mi compera le fragole fuori stagione, e poi mi dice: «Però questa è l’ultima volta, amore, che costano una cifra!». Ma poi, ogni settimana, porta a casa «una sorpresina per te, che lavori tanto, amore mio!», e io lo bacio sulla bocca e rido, e lui ride, e saltelliamo per la cucina come due ragazzini).
Felix ha dormito nel «cuscino letto per gatti con le orecchie e i colori della zebra» durante tutta la domenica pomeriggio. La notte, però, è venuto da noi. Riccardo mugugnava di no («Eh no caro micio, così non va. Ce l’hai un letto, tu!»), ma poi ha guardato la mia faccia e c’era il miagolio di Felix in colonna sonora e ha detto «Okay, dai, per questa volta! È la prima notte, si sente spaesato!». Così Felix ha sempre dormito con noi. Almeno finché è nata Gabriela. Adesso a volte dorme con lei. Lo troviamo dentro il lettino con le sbarre, che ronza felice, rumoroso quasi quanto un aspirapolvere, e noi stiamo lì come due scemi a guardare il gatto e la bambina, e siamo i trentenni più felici d’Europa. Felix e Gabriela dormono e noi sorridiamo e facciamo un video con il cellulare, da mandare a nonni e padrini. A volte ci osservo dall’esterno, noi quattro dentro la stanzetta di Gabriela, e penso che siamo teneri e un po’ ingenui, e faccio finta di crederci, e mi sforzo di non guardarci da fuori, come fossimo estranei.
Felix quando lavoro da casa sta con me. Sta lì, sdraiato sulla scrivania, con il suo sorriso sornione di gatto domestico. Quando vuole qualcosa si alza e passeggia sulla tastiera del laptop. Mi fa arrabbiare quando fa così, soprattutto quella volta che mi ha cancellato un paragrafo della tesi, proprio quello del capitolo su Zaratustra che mi ha fatto sudare sangue. Ma con Felix mi arrabbio sempre un po’ per scherzo, perché lui mi guarda con quei suoi occhi rotondi e felini e mi viene da ridere, perché lui è al di qua del bene e del male, ed è questo che lo rende davvero innocente. Me lo metto sulle spalle e andiamo in cucina. Mangia tonno all’acqua, salmone e yogurt alla fragola (a volte penso che Felix è il solo gatto europeo ad avere una predilezione per lo yogurt alla fragola, ma forse non è vero).
Gabriela cresce, e dichiara che Felix è suo. «Il mio Felix dorme con me» afferma, autoritaria, dall’alto dei suoi tre anni, mentre Felix fa le fusa e ci guarda con la coda diritta e gli occhi ironici. E suo padre ride, e io rido, e mentre leggo a Gabriela la storia della buonanotte Felix mi guarda, Riccardo mi guarda, la bambina mi guarda, e io per un attimo sono felice di avere trentatré anni, un lavoro precario e una famiglia meravigliosa.
Felix ci guarda vivere e noi raccontiamo a tutti del giorno in cui lo andammo a prendere al gattile, prima di Gabriela, quando ci piaceva andare a letto all’alba e giocare a Texas Hold’em anche se il giorno dopo bisognava alzarsi presto per andare all’università, e fumavamo troppa erba e bevevamo troppo vino cattivo e altra robaccia.
Anche Felix giocava a Texas Hold’em. Stava lì, immobile, a fissare le carte con i suoi grandi occhi gialli, e Riccardo diceva che era imbattibile nel bluff, e ci faceva ridere.
Quando Felix spariva per più di qualche ora − felino selvaggio lungo la scala di corda che avevamo appeso al balcone per lui! − sentivo il cuore in gola e chiamavo Riccardo e lui alzava gli occhi al cielo e mi diceva «Ti preoccupi troppo, amore! Che vuoi che sia? Sarà a caccia di topi, poveretti!» ma in realtà lo vedevo che si angosciava, e zitto zitto andava a cercare Felix, perché aveva il cuore tenero e amava quel gatto quasi quanto amava me.
Perché l’hanno fatto?
Per niente, come avviene per le cose davvero crudeli. Perché sono giovani e privi di pietà e non sanno quello che fanno.
E poi: chi lo ha detto che devi avere diciotto anni, per conoscere il male?
Io non li perdono.
Riccardo ha pubblicato le loro foto su Facebook. Ha avuto ragione di farlo. Bisogna che le famiglie sappiano cosa fanno i loro ragazzi tranquilli a chi non può dare loro niente in cambio.
Felix è un gatto anziano adesso. I suoi lunghi baffi si tingono di bianco e lui esce meno spesso. Sonnecchia sul divano di pelle del soggiorno (eredità familiare di lontane origini: appartenne alla prozia, e poi a mio cugino che infine fece carriera e ammobiliò casa sua senza passare dall’Ikea, così quel divano lo ereditammo Riccardo e io), sdraiato a pancia in su, con le zampe che danzano in aria e il collo magro e grigio poggiato sul bracciolo.
Riccardo ha segnato i nomi e i volti, anche se crede che io non lo sappia. Prima di agire, però, verrà da me, e io gli dirò di fermarsi (forse).
Chi consolerà Gabriela? La mia bambina non dorme la notte, e chiede «Felix quando ritorna» e io non ho il coraggio di dirle la verità, perché alla sua età la morte mi faceva piangere e la crudeltà la ignoravo. Le racconto che Felix è in cielo, che ci guarda tutti da lassù, che quando dorme, di notte, veglia ancora su di lei, anche se deve smettere di affacciarsi al balcone per chiamarlo, perché da lassù non si può ritornare.
La morte appartiene alla vita. Questa morte, invece, non appartiene a niente, non dovrebbe essere di questo mondo.
Erano bravi ragazzi, tutti cresciuti qui, figli di gran lavoratori! Forse avevano bevuto troppo, forse avevano bisogno di sfogarsi.
Così hanno preso Felix.
Cosa pensa un animale che sta morendo?
Solo gli umani hanno coscienza della propria fine. A loro soltanto è concesso il privilegio di guardare l’ultimo istante, l’angoscia sublime di vedersi morire.
Cosa pensava Felix mentre volava nelle fauci dei cani?
Forse pensava a Gabriela. Al ronzio del computer sulla mia scrivania. Al cuscino zebrato comperato da Riccardo una vita fa. A noi tre, che cercavamo di essere una famiglia.
La parte di luce, la parte di ombra.