La corsa delle linci
Daniela RaimondiRevoca del primo premio dell'edizione 2011 a Daniela Raimondi
3 dicembre 2012
La Giuria del Premio letterario Frontiere – Grenzen ha deciso di revocare il primo premio attribuito, nella sesta edizione, a “La corsa delle linci” di Daniela Raimondi, sezione racconti inediti.
Una decisione certamente non facile, ma necessaria per rispetto alle centinaia di persone che hanno partecipato, e parteciperanno, al Premio e per far sì che il credito raggiunto in tutti questi anni da “Frontiere Grenzen” non possa essere intaccato in alcun modo, men che meno con palesi violazioni del regolamento.
La Giuria ha infatti ravvisato – al di là di ogni ragionevole dubbio – che il racconto premiato nel dicembre del 2011 non avesse le caratteristiche chiaramente richieste dal regolamento, vale a dire essere – per quella sezione – un racconto inedito mai premiato in altri concorsi.
È invece risultato, da una serie di controlli e verifiche che hanno coinvolto anche le giurie e le organizzazioni di altri premi letterari, che quello stesso racconto – con altro titolo e con insignificanti aggiustamenti - era già stato pubblicato nel 2007 e aveva vinto altri due premi.
Di qui la decisione, ratificata all’unanimità dalla Giuria, di procedere alla revoca del Premio.
La Giuria del Premio letterario Frontiere – Grenzen
Auszeichnung des 1. Preises 2011 an Daniela Raimondi wird aberkannt
03. Dezember 2012
Die Jury des Literaturwettbewerbs „Frontiere - Grenzen“ hat beschlossen, den 1. Preis, der zum sechsten Mal in der Kategorie Unveröffentlichte Beiträge an Daniela Raimondi für „Das Laufen der Luchse“ (it. „La corsa delle linci“) verliehen wurde, zurückzuziehen.
Diese Entscheidung war mit Sicherheit nicht einfach, jedoch notwendig aus Respekt gegenüber den hunderten Bewerbern, die am Wettbewerb bisher teilgenommen haben und in Zukunft noch teilnehmen werden. Darüber hinaus gilt es sicherzustellen, dass das Ansehen, das „Frontiere - Grenzen“ in all den Jahren erfahren hat, in keinster Weise und erst recht nicht durch offensichtliche Regelverstöße, beschädigt wird.
Die Jury hat zweifelsfrei festgestellt, dass der im Dezember 2011 mit dem 1. Preis ausgezeichnete Beitrag nicht die gemäß dem Regelwerk notwendigen Bedingungen aufweist, d.h. bezogen auf seine Kategorie noch nie veröffentlicht und ausgezeichnet wurde.
Durch verschiedene umfangreiche Überprüfungen, die auch andere Jurys und Organisationen anderer Literaturwettbewerbe mit einbezogen haben, wurde jedoch festgestellt, dass der gleiche Beitrag mit anderem Titel und geringfügigen Anpassungen schon im Jahr 2007 veröffentlicht wurde und bereits 2 Preise gewonnen hatte.
Daher hat die Jury einstimmig beschlossen, die Auszeichnung abzuerkennen.
Die Jury des Literaturpreises "Frontiere – Grenzen"
IL RACCONTO
“Quello che vogliamo è sempre altrove.” Me lo diceva mia madre. Me lo ha detto anche poco prima di morire. Cosa volevo io, allora? Non me lo ricordo più. Forse una casa più grande, un vestito di seta, un amore importante; o forse solo le focacce di lardo e cipolla che vendevano al mercato il giovedì. Non c’era la guerra, allora. D’estate dormivamo con le porte di casa aperte. Sognavamo insieme al latrare lontano dei cani, alla corsa delle linci dietro l’orto. Eppure, anche allora, quello che desideravo era altro.
Non so più cosa volevo a vent’anni, né a trenta, o a quaranta. Ora l’unico che voglio la sto toccando con le dita. La respiro fra le mani, come un fuoco. Ti guardo. Accarezzo la tua testa che dorme sul mio grembo come facevo tanti anni fa con tua madre. La paura si addensa di colpo nelle dita insieme all’amore. Non volevo svegliarti, ma ecco che apri di colpo gli occhi. I tuoi occhi neri contro il nero della notte. I tuoi occhi aperti nei miei, come un grido.
“Shhh… Non è niente. Dormi…”
Mi guardi. Poi richiudi gli occhi e ti addormenti di nuovo. Il tuo fiato lascia un’impronta dolce nella mia mano.
I fari del camion illuminano la strada. Fuori c’è solo il freddo dell’inverno, la ghiaia sporca ai bordi dell’asfalto. C’è il freddo del cielo, l’ombra dei pini, il tonfo delle ruote dentro a ogni buca. Chi direbbe che domani è Natale.
Il camion frena di colpo. Tu sussulti ma poi continui a dormire. Guardo fuori: c’è un cinghiale in mezzo alla strada. Resta immobile, colpito dalla luce rotonda dei fari. L’autista bestemmia, suona più volte il clacson. L’animale si scuote, fugge nel buio. Voglio correre anch’io dentro a quel buio. Dimenticare questo orrore; dimenticare gli occhi immobili di Snezana.
Il tempo si sbriciola nel ronzio del motore, nel ghiaccio che geme sui campi. Ti guardo: hai la bocca di tua madre, lo stesso broncio di Snezana quando aveva la tua età. Sarebbe bello continuare così, all’infinito, in un viaggio che ci porti a una terra così lontana, Mihrija, così lontana e bella che non riesco nemmeno a pensarla. Andare a vivere in un piccolo paese con, le case bianche, i campi di grano, i gerani alle finestre.
Gli occhi si chiudono. Ciondolo la testa a destra e a sinstra. Sogno un paese nel sole, una terra fertile, il suono di una campana. La voce di Snezana.
All’alba il camionista ci sveglia:
“Siamo arrivati. Più avanti non si va.”
Non ci sono case bianche qui intorno. I segni dell’odio sono inchiodati ai muri sfatti, ai vetri rotti, ai mucchi di calce lungo le strade.
Scendiamo dal camion con le ossa indolenzite.
“Nonna, ho fame.” Mi guardi, e mi chiedi la vita.
Ti do un pezzo di pane. È raffermo ma tu lo divori.
“Ho ancora fame”.
“Forse è solo sete. Vieni.”
C’è una fontana. L’acqua che esce sa di ferro e di terra. Ci scorre rossa dentro la bocca.
Saranno le sette. Non c’è nessuno in giro. Solo un vecchio che cammina contro un muro: la schiena curva, la testa bassa:
“Dov’è la strada per il confine? – gli chiedo.
Lui indica con un dito la montagna. Ha gli occhi di chi ha pianto per qualche figlio morto, o per una figlia violentata, o forse per la moglie fucilata. Ci sono dolori che si portano sulla faccia come un marchio a fuoco. I segni del male impressi per sempre sulla pelle, nitidi come in una fotografia appena fatta.
Il vecchio guarda lontano, come se non mi vedesse. Poi abbassa lo sguardo su Mihrija:
“Lascia perdere – mi dice. Non puoi arrivarci a piedi. C’è la neve alta lassù e con una bambina piccola non ce la farai mai.”
Gli giro le spalle. Ti prendo per mano e ti porto via da questo orrore, via da questa guerra. Su, verso il sentiero, verso la montagna. È quella laggiù, la vedi? Così alta. Riempie il cielo a guardarla.
Riesci a malapena a seguirmi. Inciampi di continuo. Ti aggrappi alla mia mano. Ti trascino con più forza. Sono solo le otto e se camminiamo di lena raggiungeremo il confine prima che faccia buio.
“Nonna, ho freddo”
“Il freddo passa quando si cammina svelte.”
Camminiamo per ore. Avanziamo a fatica fra le rocce del sentiero in silenzio. Nemmeno una parola per salvare il fiato, per fare più in fretta.
“Devo fare pipì.”
Ti sei accovacciata sulla neve. La sciarpa gialla che ti ho legato sulla testa ti circonda il viso. Guardi in su, verso di me. Hai gli occhi grandi, le guance arrossate. Sento il cuore fermarsi. E so che la grazia e la bellezza vivono anche fra la violenza, fra la bruttura di una guerra dove parole come sonno, pane, cielo, non hanno memoria.
Nevica forte. Il sentiero è bianco. Scivoliamo sulla lastra di ghiaccio che si è formata sotto lo strato di neve.
“Nonna, quando arriviamo?”
“Sei molto stanca?”
“Sì. Ci fermiamo?”
Guardo indietro: intravedo a malapena il paese in mezzo alla neve che ci soffia intorno. Vedo bianco. Solo bianco.
“No. Dobbiamo arrivare prima del buio”.
Ripeti che sei stanca ma io non ti rispondo. Ho paura. Se solo parlassi questa paura la sentiresti tutta dentro la mia voce. Così sto zitta e ti tiro più forte. Gli strattoni ti fanno male e tu cominci a piangere.
Quasi non mi accorgo del corpo riverso al bordo del sentiero. Lo schivo a malapena. Lo guardo di sottocchio. È solo un ragazzo: ha un buco nel petto, una pozza piena di neve e sangue rappreso. Gli occhi sono spalancati. Ha il viso devastato dall’acne e dal gelo. C’è un cane lì vicino. Cammina su tre zampe, lo annusa.
Ti sollevo fra le braccia e voglio solo correre via, via di lì! a gli stivali affondano fino al polpaccio. Dov’è il sentiero?
Dove
Dove?
*
Quante ore sono passate? La neve non ha smesso di scendere. Siamo lontane dal paese e lontane dal confine. Vedo solo bianco.
Il vento si è fermato. Ascolto il silenzio che c’è intorno. Il silenzio fa paura più di ogni altra cosa. Ti parlo per farmi coraggio:
“Quando tua madre aveva la tua età la spingevo sull’altalena. Su e giù, su e giù, fino a raggiungere il cielo. Lei stringeva forte la catena. Aveva paura, ma io la spingevo in alto, più in su, fin dentro l’azzurro.”
Snezana… Fatico a parlare di te, anche se so che devo. Lo devo alla sua memoria, e alla sua bambina.
Avevo sentito gli spari quel giorno. Poi sono corsi tutti da me, e gridavano soltanto due parole:
“Tua figlia, tua figlia!”
Sono corsa nei campi così com’ero: in ciabatte e col grembiule bianco di farina. Correvo tra i fuochi, fra il granoturco maturo che crepitava nell’aria. Persi una ciabatta. Inciampai. Vidi per terra la scia del sangue e poi...
...poi sentii il tuo odore, Snezana. Il tuo odore in quel sangue impastato alla terra. Buttai via la ciabatta che mi era rimasta e mi trascinai a corponi lungo quella scia rossa. La seguii strisciando per terra, avanzando sulle mani e le ginocchia come avrebbe fatto un animale. Fino alla fine. Fino a che il filo di sangue mi portò ad incontrare la tua testa. Non trovai il tuo corpo. Solo la tua testa.
La avvolsi nel grembiule e corsi indietro. Senza fiato, coi piedi feriti e quel peso stretto al ventre che era il mio peso, che era ancora mio. Come prima di figliarti. Correvo con la bocca chiusa, il grido stretto dentro.
Arrivai dal prete e aprii il grembiule insanguinato:
“Padre, si può seppellire una testa? Solo la testa? E lì che risiede la sua anima?”
Non disse niente. Mi abbracciò e si mise a piangere.
Ti seppellimmo io e quel prete. Scavammo una buca al camposanto e ci mettemmo dentro la tua testa e il tuo violino.
*
Ci siamo perse. Non so più dove sono. Dove sia il Nord o il Sud, il confine o il paese. C’è poca luce ormai, è quasi sera. Faccio un passo e affondo fino al ginocchio. C’è solo neve qui intorno. Neve e alberi. Alberi e neve.
Ti sollevo, ti carico sulle spalle come un agnellino. Muovo un passo, poi un altro. Le gambe cedono al bianco. Non ce la faremo mai. Ora lo so. Questa frase mi rimbomba nella testa. Non ce la faremo mai. È inutile continuare.
Ci sediamo sotto un pino. È buio. La neve scende ancora. Ti do l’ultimo pezzo di pane, poi pulisco il barattolo vuoto che ho in fondo alla borsa. Lo riempio di neve e ci metto sopra un poco di zucchero.
“Tieni. Senti quanto è dolce.”
Lo porti alle labbra. Ti riempi la bocca e sorridi.
Mangi, poi ci stendiamo sotto l’abete.
Penso che la paura è come la neve: senza confini precisi, senza suono.
Saranno passate un paio d’ore, forse meno. Non sento più le dita delle mani. Provo a muovere i piedi ma non ci riesco. Guardo in su: nevica ancora. Non ci sono stelle stanotte. Non importa, le stelle sono fredde nel cielo di dicembre.
Stai stretta a me, accovacciata come un gattino contro il mio ventre.
I nostri corpi abbracciati. I nostri corpi legati all’inverno, scolpiti nel bianco di questo spazio doloroso e lieve. I nostri corpi coperti di neve.
Non sento più il freddo adesso. Chiudo gli occhi. Vedo soltanto i campi di granoturco bruciati, sento nell’aria l’odore del fumo.
“Nonna, domani è Natale?”
“Sì Mihrija. Non senti le zampogne?”
“Io no.”
“È perché non ascolti bene. Prova ancora.”
Stai in silenzio.
“Io non sento niente”
“È perché è cambiato il vento. Bisogna aspettare, ascolta meglio.”
Stiamo zitte. Sento che controlli il respiro per non far rumore, per non perderti il suono della gioia.
“Le hai sentite le zampogne?”
“No, ma…”
“Come suonano bene, Mihrija… Ascoltale. Le senti?”
“Non so, forse… e i bambini aprono i regali adesso?”
“No, più tardi. Prima devono dormire.”
“Io non ci riesco a dormire. Ho troppo freddo.”
“Shhh…. Ascolta le zampogne.”
Ti sento tremare contro di me e ti stringo più forte. La tua respirazione è faticosa, poi piano piano si calma. Sento il tuo corpo abbandonarsi al mio.
La neve mi scende sul viso insieme al silenzio della notte.
Non riesco nemmeno a riaprire gli occhi. Ho sete. Lecco la neve, l’annuso. Che buon odore ha la neve. Sa di arance e di giacinti.
Non c’è più dolore adesso. Sento i cani latrare alla luna e là, nel campo, è la corsa felice delle linci.
Stai tranquilla, Mihrija. Il mio ventre è ancora caldo. Qui riposò tua madre. Riposa, adesso. Dormiamo ancora un poco.