Al campeggio senza mare
Paola CeredaL'autore
Psicologa, è specializzata in Cooperazione internazionale e diritti umani. Ha lavorato in teatro con Moni Ovadia come assistente alla regia e ha maturato esperienze in ambito sociale in diversi Paesi del mondo, tra cui Egitto, Colombia, Argentina, Spagna e Romania. È autrice di racconti e del romanzo Della vita di Alfredo, ed. Bellavite, finalista al premio Calvino 2009.
LE MOTIVAZIONI DELLA GIURIA
Il campeggio senza mare in cui è ambientato questo racconto è un campo
nomadi sulle rive della Stura, in Piemonte. È un luogo abitato da
persone dai nomi inusuali (Sterlina, Ionica…), dove si vive all'aria
aperta, dove le pareti delle roulotte e i muri delle casette a un
piano non sono frontiere, dove anzi gli esseri umani sono "carne in
perenne comunicazione", e dove vengono raccontate storie incredibili
ma vere, come quella di nonno Dimitru, suonatore di fisarmonica, morto
perché abbracciato con eccessiva energia dall'orso che faceva ballare.
La giovane protagonista e narratrice del racconto, nata da un padre
rom e da una madre gagé (cioè non rom), soffre la contraddizione di
appartenere a due mondi che non dialogano. E se la città della madre,
una distesa "di palazzi dagli occhi chiusi", è il luogo della scuola e
delle norme borghesi, il campeggio senza mare nel quale il padre la
conduce in visita una volta al mese è per lei una delle forme più a
portata di mano di quella che si potrebbe definire senz'altro la
felicità.
IL RACCONTO
Mercoledì, giovedì, venerdì... contavo i giorni che mi separavano dal campeggio, dove mio padre mi portava una volta al mese. Mamma gridava: “Basta!”, e papà sbuffava. Noi però partivamo lo stesso. Uscivo senza salutare, per non sentire i singhiozzi che arrivavano dalla camera da letto.
Ero fiera del campeggio senza mare perché i miei compagni di classe non ci potevano andare. Cosmin controllava l’ingresso. Quando ci vedeva arrivare, faceva un gesto con la mano e parlava attraverso il finestrino: “Misto avilean”.
“Misto arachlemtu”.
Mio padre doveva essere una persona importante, pensavo, altrimenti Cosmin non ci avrebbe fatto entrare. Il campeggio senza mare era una distesa di roulotte e di casette a un piano. Vicino all’ingresso c’erano i giardini con un’altalena e uno scivolo rotto dove, per salire, dovevi fare tre gradini alla volta. La primavera era la stagione più bella. I gelsomini e i gladioli fiorivano attorno alle verande e il loro profumo arrivava insieme al vento. In quel periodo, anche la Stura aveva il sole dentro e i sacchi della spazzatura si nascondevano in qualche anfratto in compagnia delle bottiglie di plastica. Sarebbero ricomparsi in autunno e avrebbero ricominciato a scorrere insieme al fiume, mentre le foglie di platano cadevano sul campo e i primi capricci della nebbia confondevano le idee e le direzioni.
La nostra roulotte era parcheggiata accanto a una vecchia Mercedes senza padrone. Decine di ventagli ricamati erano appesi alle pareti, alcuni azzurri e bianchi, altri color dell’oro. Sopra il fornello a una piastra, c’erano due immagini di santa Parascheva, “la luce della Moldavia”, e un lumino sempre acceso. La signora col culo grosso aveva ricoperto il pavimento di tappeti troppo grandi. Siccome i bordi erano arrotolati, bisognava stare attenti a non inciampare nelle pieghe.
Al campeggio senza mare si viveva all’aria aperta. I muri non esistevano perché gli esseri umani erano carne in comunicazione perenne. Le uniche barriere tra le vite della gente erano lamiere così sottili che invitavano alla profanazione. Gli uomini ascoltavano Petru che suonava la fisarmonica sotto la veranda mentre le donne, colorate e zitte, sostavano ai bordi di quella scena tutta maschile. La signora col culo grosso serviva il caffè insieme alla grappa di prugne: “Ţuică!”, ordinava papà, e la signora appoggiava la bottiglia sul tavolino, in mezzo alle tazzine sporche.
Nella roulotte viveva Sterlina, una ragazza dai capelli lunghi e neri. Sua madre l’aveva partorita a Londra e aveva scelto per lei un nome che voleva essere un augurio.
“Che lavoro faceva tua madre?”, le avevo domandato un giorno.
“Previsioni del tempo”, mi aveva risposto, “Oggi pioggia e solitudine ma, se mi dai una sterlina, domani pioggia e amore!”.
Sterlina si sedeva sotto il gladiolo e raccoglieva la gonna in grembo. Era bella come una Madonna. Aveva pochi anni più di me, eppure era già una donna. L’avevano fatta sposare a Ionica, un vecchio con tre denti che le regalava fiori di plastica e braccialetti d’oro. Sterlina infilava i fiori tra i capelli e faceva tintinnare l’oro davanti a chiunque passasse davanti alla roulotte: che vedessero bene, gli altri, che aveva fortuna e ricchezza e che suo marito sapeva badare a lei. I figli non arrivavano e gli invidiosi mormoravano che Ionica fosse buono soltanto per vendere e comprare. Sterlina doveva ancora compiere sedici anni, però il figlio di uno straniero – lei – lo aveva già portato in grembo. Lo aveva partorito un mattino di dicembre e lo aveva visto il tempo necessario a dirgli addio. Ionica aveva sposato Sterlina nonostante la vergogna, e le offerte a santa Parascheva non bastavano a far rifiorire il ventre della giovane. Lei non se ne preoccupava: “Vedi bambina”, mi spiegava accarezzandomi le tempie nelle notti senza sonno, “i vecchi non sono buoni a niente. Servono solo a darti da mangiare”.
Quando il marito rientrava, Sterlina si toglieva di dosso l’aria sufficiente e correva a scaldare la ciorbă* e gli avanzi del mezzogiorno. Gli uomini la guardavano, anche papà la guardava: “Quando mi spunterà il seno, sarò femmina come lei”, pensavo.
Eppure il mio seno non cresceva.
“Mangia più carne”, consigliava Sterlina.
Io tornavo a casa e, per cena, chiedevo due bistecche di maiale: “Ecco cosa ti mettono in testa quegli animali”, urlava mamma, allungandomi una porzione di pesce senza carattere.
“Non ti preoccupare”, mi consolava Sterlina. “Hai il sangue buono, ed è ciò che conta”. La mattina, Sterlina si lavava con l’acqua della Stura e mi porgeva una spazzola di avorio: “È preziosa”, diceva, “me l’ha portata mio marito Ionica dalla Romania”. Le spazzolavo i capelli e restavo seduta con lei all’ombra del glicine, tra i cani e i gatti che riposavano sotto gli ombrelloni. D’estate, ci bagnavamo con il tubo dell’acqua e ci sdraiavamo sull’erba ad asciugare. La signora con il culo grosso preparava il fuoco e papà e gli altri uomini mettevano a cuocere le salsicce. Potevo bere il vino e anche la ţuică, solo un dito, però, e di nascosto, altrimenti mia madre se ne sarebbe accorta.
Di solito dormivamo al campo almeno una notte. Papà, Ionica e la signora dal culo grosso russavano nella roulotte, mentre Sterlina mi abbracciava su un materasso buttato in veranda, tra i cani e il tavolo senza una gamba. Se c’era la luna piena non avevo la paura di morire, quella che mi stringeva la gola se mi affacciavo dal balcone di casa. Da lassù, vedevo il cortile dove non si poteva giocare perché era “pieno di spacciatori e malintenzionati”. Davanti a me c’erano distese di palazzi dagli occhi chiusi. Sopra la mia testa, la vicina si lamentava perché mi esercitavo con la fisarmonica.
Detestavo la città. A me piaceva il campeggio senza mare e non capivo perché mia madre non ne volesse sapere. Quando rientravo dalla vacanza, il suo naso mi invadeva la bocca, i capelli, i vestiti: “A lavarti!”, ordinava. Mi obbligava a usare un disinfettante che lasciava addosso un alone da ospedale. Al campeggio mi lavavo poco perché c’era solo un bagno, un edificio che puzzava di piscio vecchio. Il Comune lo aveva fatto costruire sulle sponde della Stura e poi se n’era dimenticato. La mattina ci andavo soltanto se mi svegliavo presto, altrimenti la signora con il culo grosso mi dava una bacinella. Potevo farla lì e poi dovevo buttarla nel prato dietro la roulotte: “Per forza vengono le malattie”, sbraitava la mamma, che non veniva mai in campeggio e si ammalava sempre.
La domenica sera Sterlina chiedeva a mio padre: “Vuoi lasciarla qui un altro po’? Può accompagnarla mio marito quando torna”.
“No!”, dicevo io. Non volevo essere riaccompagnata da Ionica perché era vecchio e aveva soltanto tre denti d’oro. Lavorava su un camion di dolci e pupazzi che la domenica sostava davanti allo stadio. Una volta mi aveva regalato una bambola alta come me, con un vestito a balze e una rosa tra i capelli. Tra le mani aveva una fisarmonica e i suoi piedi erano forti e nudi. Era il giocattolo più bello che avessi mai visto: “Posso imparare a suonare?”, avevo chiesto alla mamma.
“Ti mando a nuoto. È uno sport completo e fa bene alla schiena”.
Fu papà ad accompagnarmi alla scuola di musica: “È troppo piccola”, disse l’insegnante. “Dovrà aspettare almeno l’anno prossimo”.
“La prego, la faccia provare. Suo nonno era musicista, e prima di lui, lo erano la madre di suo nonno e lo zio”.
Tutta gente che non avevo conosciuto. I miei genitori non mi avevano mai parlato della famiglia. Soltanto Sterlina lo aveva fatto, durante il battesimo del primogenito di Cosmin, dopo aver tracannato di nascosto un liquore dal sapore amaro. Sterlina mi aveva chiamata a sé per mostrarmi una fotografia che teneva tra le pieghe della gonna: “Questo signore è il nonno Dimitru. Vedi come sorride?”.
L’immagine mostrava un uomo con i baffi, che teneva a catena un orso molto più grande di lui: “Dimitru suonava la fisarmonica e faceva l’orsaro in una compagnia di giro che viaggiava per tutta la Romania. Il nonno suonava al centro della scena e l’orso gli ballava attorno, con addosso un gonnellino verde e blu”.
Dimitru accudiva l’orso e lo istruiva come fosse un figlio. Ma la natura, si sa, non è fatta per essere riconoscente. La natura porta rancore: “Un giorno, durante uno spettacolo, l’orso si avvicinò a Dimitru e lo strinse al petto. Forse era un abbraccio, chissà, o forse una vendetta. I bambini cominciarono ad applaudire, gli adulti agitarono i cappelli. L’orso strinse Dimitru, lo strinse fino a farlo crepare. Povero nonno, è morto stritolato e contento”.
Stritolato e contento, era una fine possibile?
Masticai la domanda fino ad ingoiarla, e mi accontentai dell’unica certezza del periodo: la signora con il culo grande e mio padre riuscivano a capirsi senza bisogno di parlare. Quando si incontravano, facevano tre segni della croce a santa Parascheva. Poi papà diceva: “Ţuică!”, e la signora metteva sul tavolo la bottiglia e un paio di bicchierini da grappa.
La signora dal culo grosso non parlava: aveva scelto il silenzio per punire il figlio che si era sposato con una gagé**. Io ero il frutto di quell’affronto e, quindi, ero un essere a metà, al confine tra l’affetto e l’indifferenza. L’avrei capito molti anni dopo, quando era troppo tardi per diventare chi-e-che-cosa, o non diventarlo affatto.
La domenica sera lasciavo il campeggio senza mare. Cosmin salutava con la mano e l’auto di papà tornava al ritmo regolare dell’asfalto e del mondo. A casa, mi aspettavano le lamentele della vicina, i palazzi con gli occhi chiusi e le recriminazioni di mia madre: “Se lo avessi saputo, caro mio, ti avrei lasciato dov’eri”, urlava al babbo, che si chiudeva in bagno a fumare una sigaretta senza filtro.
“Papà, dov’è che eri?”
“Sono sempre stato qui”.
“Insieme alla signora grassa?”
“Sì”.
“Quella con la gonna lunga?”
“Le donne della sua età si coprono le gambe.”
“Perché la sua gonna è gialla a fiori rossi?”
“Le piace.”
“Perché non parla mai con noi, sta seduta e mi guarda?”
“Sta poco bene. Non hai visto quanto è grassa? Non si può muovere. Andiamo a trovarla perché è anziana e malata.”
“Chi è?”
“È una signora che mi conosce da quando sono piccolo.”
“Le vuoi bene?”
“Sì.”
**Gagè: persona non rom.