Il Berto, mio padre
Patrizia Emilitri RuspaPatrizia Emilitri Ruspa
Patrizia Emilitri è nata e vive nel varesotto, a Vedano Olona con il marito Marco, due figli, Martina e Lorenzo e due cani, Giadi e Mac. Appassionata lettrice ha cominciato a scrivere parecchi anni fa e ha frequentato corsi per affinare la tecnica della scrittura. Ha partecipato a concorsi letterari con molte soddisfazioni, non ultima, ha vinto il Premio Chiara sezione inediti con la raccolta di racconti Il conto della serva. Ha pubblicato con Macchione editore il romanzo La volta del Bricolla premiato al concorso Garcia Lorca e Il testamento della maestra Elma, è in procinto di pubblicare un nuovo romanzo e il suo primo romanzo giallo.
IL RACCONTO
Ci vorrà ancora un po’ prima che la luce del sole illumini il giorno, sempre che riesca a bucare questo strato di nebbia. L’aria calda nell’abitacolo del furgone sbrina i vetri.
Altri lavoratori sono già in strada, probabilmente iniziano presto, come me.
La dogana è appena a dieci chilometri e l’ospedale poco più avanti. Mezz’ora di percorso, eppure, oggi mi sembra si sia allungato e il tempo scorra più lento.
Mi fermo all’incrocio: il cartello blu indica a sinistra Varese, a destra Como e il confine.
Sto proprio nel mezzo. Giro a destra e proseguo. Binago, Solbiate Comasco e poi a sinistra, verso Valmorea.
Il panorama alterna gruppi di villette a grandi prati, fino al limitare dei boschi e già appaiono le creste delle montagne svizzere.
Montagne, boschi, sentieri.
Mio padre quei sentieri li conosceva e conosceva il modo di attraversarli per arrivare dritto in Svizzera senza essere visto dalle guardie di confine. Aveva cominciato da ragazzo, la bricolla in spalla, la paura in testa e la notte nei piedi, trasportava centinaia di pacchetti di sigarette da scambiare con manciate di banconote.
Ogni percorso aveva il suo nome e me li aveva raccontati tutti: il sentiero del ballo, chiamato così perché le note della balera di Mendrisio lo riempivano per un tratto, la via del Bracco, dal nome di uno dei compagni morto proprio lungo quel sentiero, la strada del Verdone, la più veloce ma la più pericolosa perché il posto di guardia ci guardava dentro, il nastro della Ginestra che arrivava dritto al crotto dove la signora Ginestra, nel retro della sala grande del ristorante, stivava stecche di sigarette per un padrone di Lugano e riusciva a far spendere ai contrabbandieri i soldi guadagnati perché il suo vino era buono e le sue ragazze bellissime.
Mio padre però non lo fregava mai.
Mio padre i soldi li portava a casa tutti e li conservava. E non aveva mai dovuto mollare la bricolla, non era mai stato scoperto. Aveva occhi da gatto e gambe di cervo.
«Il buio del bosco» – raccontava – «copre ogni cosa come un enorme manto nero e spegne i rumori, persino gli animali aspettano il nuovo giorno in silenzio. Ma le guardie le luci le avevano e se te le puntavano contro erano guai. Un avvertimento e poi bang, sparavano in aria e gli uccelli, addormentati sui rami urlavano per lo spavento. Noi no, noi in silenzio ci nascondevamo nei cespugli e ce la facevamo sempre a riempire il baule della macchina del Bepi che partiva dietro quella del Nando. Il Nando con il centoventisette faceva strada con i fari accesi e il Berto, dietro, con l’Alfa che aveva il motore modificato per scappare più in fretta, lo seguiva a luci spente, quando arrivava sulla strada di Varese accendeva i fari e via, filava fino a Milano.
Quelli di Como le sigarette le caricavano sulle barche e addirittura nel lago c’era un sommergibile e non è una balla, quando l’hanno trovato l’hanno scritto su tutti giornali».
Io gli avevo chiesto perché rischiare di farsi sparare per uno zaino pieno di sigarette e lui aveva risposto che non era uno zaino, era una bricolla, «perché a ogni cosa bisogna dare il giusto nome».
«La bricolla era una sacca di iuta che cucivamo noi prima di metterci le sigarette e una bricolla piena ne teneva anche ottocento pacchetti e pesava anche quaranta chili, mica uno scherzo, ma ti faceva guadagnare come un mese di lavoro in fabbrica, beh, non proprio un mese perché il più dei soldi se li tenevano i capo spalloni, ma più di quanto guadagnasse un manovale».
Mio padre era un manovale, girava la malta per la stessa impresa per cui lavoro io e che da anni porta il suo nome. Lui l’aveva rilevata quando il vecchio padrone era andato in pensione.
Mio padre girava malta di giorno e scavalcava la rete di frontiera di notte.
«Non la rete» –diceva- «la ramina, perché a ogni cosa bisogna dare il giusto nome».
Chissà se le guardie di confine di oggi sanno quanti buchi mio padre aveva fatto in quella ramina.
«Bastava una cesoia e zac, zac, aprivi abbastanza da passarci, ma non in piedi, da sdraiato, come fanno i soldati quando strisciano sul terreno. All’inizio ci avevano messo le campanelle sulla ramina, pensavano che i contrabbandieri non sarebbero riusciti a passare senza farle suonare. Le campanelle sparivano più in fretta di quanto loro ci mettevano a rimetterle , così, le hanno tolte».
Un giorno gli avevo chiesto se sua madre, o mia madre, lo sapessero.
«Mio padre faceva lo stesso, in tempo di guerra ci portava le scarpe dall’altra parte e le scambiava con farina, zucchero e sale. Per mangiare, bisognava fare così. E tua madre, anche lei lo sapeva. Quando ci siamo sposati mica pensavamo di fare cinque figli, ma siete arrivati e quasi tutti insieme».
Mio padre e i suoi amici erano dei fuorilegge. Il contrabbando è un reato e glielo avevo detto.
«Fuorilegge ma non delinquenti. Non abbiamo mai fatto del male a nessuno. È vero, portavamo sigarette senza pagare dazio ma non ci sembrava poi un gran crimine e non sembrava nemmeno ai finanzieri che con noi avevano finito per fare amicizia e qualche pacchetto di sigarette glielo regalavamo. Ragazzini con la divisa. Ne ho conosciuti diversi. Avevano nello sguardo il panorama della loro terra, venivano dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Sardegna. Uno di loro un giorno davanti a me si leccò un polso e mi disse: - non sento più il sapore del mare sulla pelle, questo freddo e questa nebbia me l’hanno tolto-. Giovanotti lanciati come sassi con la fionda dalle spiagge alle cime delle montagne, isolati in caserme che erano poco più che baracche con il compito di spiare ogni notte il bosco e fermare chi, come loro, cercava un futuro. Prendevano di stipendio il valore di tre delle nostre bricolle. Un finanziere non poteva accumulare soldi come ho fatto io, denaro sufficiente a comprarsi un’attività. Li rispettavamo e loro rispettavano noi. Ogni tanto qualcuno ci finiva in gabbia, solo qualche giorno e poi ricominciava».
A mio padre si accendeva il volto quando parlava della sua vita da “sfrosatore” e i suoi occhi tornavano quelli del Berto, il suo nome da contrabbandiere, perché lui si chiama Giovanni, come mio figlio. Per un po’ lo rimproveravo, poi lo lasciavo raccontare e godere del suo passato e del suo presente, la sua impresa di costruzioni, il suo nome scritto a chiare lettere sulla portiera dei furgoni, il suo orgoglio.
E il suo passato tornava anche quando ci invitava al ristorante da Erminio, che i soldi per quelle sale e quella ruota di carro come insegna li aveva fatti allo stesso modo, o quando arrivava a casa il giardiniere Augusto o l’imbianchino Vittorio e lui li salutava con il vecchio nome scelto per attraversare il confine.
-Contrabbandieri per sempre eh?- gli avevo detto un giorno mentre rideva al ricordo di un paio di scarpe dimenticate dall’Aurelio davanti alla ramina.
-Ancora me le ricordo. Non le ho più ritrovate- diceva l’Aurelio.
«Contrabbandieri per sempre?»- aveva risposto mio padre –, «no, quello era un mestiere da disperati, rischioso, faticoso. Sai quanta fatica ci vuole per imparare ad attraversare un bosco di notte? E mica per il sentiero. Dovevi riconoscere l’aria che soffiava tra i cespugli per sapere da che parte andare e poi, che male facevano le cinghie della bricolla sulle spalle. Strisce di corda che ti si piantavano nella carne anche se indossavi tre maglioni e ti venivano certe piaghe che ci volevan giorni perché smettessero di spurgare. Tutti i contrabbandieri sapevano dall’inizio che non poteva essere per sempre. Qualcuno ci ha guadagnato bene poi, dopo gli anni settanta, non c’era mica più tanta convenienza a portar bricolle. Lo sfroso serviva per guadagnare soldi abbastanza per fare altro e quando ce li avevi, ringraziavi Dio perché ce l’avevi fatta a restare vivo, libero e non galeotto, salutavi i compagni con un giro all’osteria e la promessa di rimanere amici senza mai svelare il nostro passato. Tu ne conosci qualcuno ma io li conosco tutti e nemmeno ti immagini che nomi si nascondono dietro il Fusello o il Portina o il Lucetto e non te li dirò mai perché una promessa è una promessa e poi, dire che sono stati contrabbandieri macchierebbe la loro fama.
Uno è seduto in Parlamento, quello sì che è andato dal sentiero alla strada maestra.
Non si può essere contrabbandieri per sempre ma quelle emozioni te le porti per sempre nel cuore.
Quando ero un ragazzo e con tua madre ci piacevamo ma le famiglie ancora non lo sapevano, prima di partire per il bosco, andavo di nascosto a salutarla, lei mi dava un bacio e mi legava il suo fazzoletto intorno al polso, ci teneva tanto perché era di seta. Io sorridevo e lei mi diceva: - te lo presto, domani me lo devi riportare-. Era il suo modo per dirmi che mi voleva bene e che un po’ aveva paura quando attraversavo la ramina».
Eccoli, in quei pochi discorsi gli occhi del Berto sfrosatore. E io in quei momenti lo amavo profondamente e avrei voluto esserci stato, almeno una volta nei boschi con lui.
Non c’è coda alla dogana di Bizzarone, solo un paio di auto. Attraversiamo legalmente il confine perché ci andiamo a lavorare, a prendere soldi “puliti”. Io vado a controllare che i lavori di sistemazione dei muretti dell’ospedale procedano come da contratto. Finiremo tra un paio di mesi ma avremo un buon guadagno. Gli svizzeri pretendono un lavoro ben fatto ma pagano bene e subito.
È il mio turno, il finanziere di guardia mi fa cenno di passare, il mio cartellino sul vetro mostra a caratteri ben visibili la frase “Nulla da dichiarare”.
Io però mi fermo e abbasso il vetro, lui si avvicina sorridente.
-Buongiorno- dice cordiale con l’espressione perplessa.
-Due giorni fa è morto il Berto, mio padre- gli dico.
Lui mi guarda e il sorriso si spegne. Non sa chi è il Berto o chi è stato e di sicuro non sa chi è mio padre.
-Mi dispiace, condoglianze- risponde e mi porge la mano.
-Grazie- gli dico, poi metto la prima e passo la frontiera.