La bambola di pezza
Mario RumorMario Rumor
Ha la stessa età di American Graffiti ed è dello stesso segno zodiacale di Michael Douglas. Divorato dalla passione per il cinema prova a smaltire la sbornia cinefila studiando al DAMS di Bologna nei primi anni '90. Nel frattempo, inizia a scrivere per riviste specializzate di cinema, fumetti, libri. Per quasi dieci anni è uno dei critici cinematografici dello storico mensile Il Mucchio Selvaggio e ha scritto per importanti periodici come Empire Italia, TelefilmMagazine e Lettera43. Attualmente collabora con Artribune e Fumo di china. Autore di una monumentale monografia sul "papà di Heidi" dal titolo Un cuore grande così. Il cinema di animazione di Isao Takahata, tra le altre cose ha preso parte ai volumi Joe Dante, Master of Horror e Joker, Il clown nero pubblicati dall'editore Weird Book. Nel 2015 ha vinto il premio letterario Trichiana paese del libro con il racconto Notizie da un uomo vecchio e il Premio Speciale Casse Rurali Valli di Primiero e Vanoi all'8^ edizione di Frontiere-Grenzen con il racconto Dall'altra parte.
BegrÜndung der Jury
Unter den vielen wertvollen veröffentlichten Texten, die an dieser zehnten Ausgabe von "Frontiere / Grenzen" teilgenommen haben, hat die Jury beschlossen, Ich muss Deutschland vonMario Rumor auszuzeichnen – eine Geschichte aus der Sammlung Der Nabel der Welt aus dem Jahr 2017. Der Ich-Erzähler von Florescus Geschichte ist ein junger Grenzbeamter, der in einem an Serbien angrenzenden Gebiet Rumäniens arbeitet. Am Höhepunkt der Geschichte zieht der Polizist seine Schuhe aus, schenkt sie dem syrischen Flüchtling, den er verhaftet hatte, während er barfuß und blutend illegal die Grenze überschreiten wollte, um nach Deutschland zu gehen, und lässt ihn entkommen. Der Gipfelpunkt der Szene, vorbereitet von Seiten, auf denen man einer schmerzhaften, jedoch widerstandsfähigen Menschheit begegnet (zu den besonders bemerkenswerten Figuren gehören unter anderem die Großmutter des Protagonisten und der Busfahrer), erinnert an die Schlussszene der neapolitanischen Episode in Rossellinis Film Paisà. Florescus lange Geschichte ist in der Tat eine Art konzentrierter "neorealistischer" Roman, in dem das Europa von gestern und das von heute mit seinen Dramen, seinen Schließungen und Mauern hervorkommt, aber auch mit den Gesten der individuellen oder kollektiven Rebellion gegen den Leitgedanken und die Angst vor dem anderen.
ErzÄhlung
Due mani mi afferrano gentilmente. Non riconosco il posto in cui mi trovo. L’odore di detersivo mi solletica le narici. Si direbbe un ospedale dal silenzio ovattato che risale lungo il corridoio. Addosso ho un pigiama azzurro, ai piedi delle pantofole grigie. Mi trascino a piccoli passi, e mi stupisco della mia lentezza. Con lo sguardo supplico il mio accompagnatore dal camice bianco di liberarmi da ogni dubbio. Per farlo però, devo parlare.
«È già arrivato mio marito?», chiedo sprofondando in un tono lagnoso.
«Non ancora», è la risposta. Non c’è convinzione nella sua voce.
Smetto di camminare di punto in bianco e quello mi guarda con tenerezza. Non ci mette molto a ripetere le stesse parole, come se ora ci credesse davvero. La sua mano posata sul braccio si fa un po’ più stretta e io riprendo a muovermi come se avesse girato un’invisibile chiave d’accensione. I capelli che di solito tengo raccolti sulla testa, si riversano come una cascata grigia sulle spalle. Ho voglia di specchiarmi ma il suono della parola “specchio” mi è scivolato giù in gola. Le dita di una mano raggiungono il mio volto. La pelle è solcata da rughe sottili come rivoli. Dubito dei miei anni. Mi guardo le mani e scorgo le mani di una donna vecchia, non le mie.
«Quand’è che sono diventata vecchia?», domando in preda all’ansia con la voce che raschia le corde vocali.
Il mio angelo custode non risponde subito; poi dice: «Non ci pensi. Venga di qua», e mi scorta in una stanza dove un paio di letti sono addossati contro la parete. Mi ritrovo a sedere su uno di essi, floscia come una bambola di pezza.
«Si metta qui tranquilla che poi torno», dice l’angelo custode.
Decido di osservare un comodino impeccabilmente lustro. Quindi, con un leggero balzo scendo dal letto e raggiungo il vicino armadio. Dentro c’è una borsa con alcuni abiti. Sono gli abiti di una vecchia. Torno a sedere e dopo pochi istanti ripeto la mia piccola prodezza guardando ancora dentro l’armadio. La borsa è sempre lì. Sbircio al suo interno e ci trovo sempre e solo abiti da vecchia. Sono i miei vestiti, quelli? domando incredula. La stanza è deserta, nessuno può rispondere. Rivolgo uno sguardo alla finestra. Resto sdraiata sul letto finché la luce del sole non si affievolisce. C’è un albero là fuori, il vento accarezza le foglie. Deve essere primavera: mi sforzo di conservare questo pensiero nella testa.
Pochi giorni dopo mi pungono il braccio con un ago. Se non dormo, il pomeriggio mi fanno chiacchierare. Davanti a me, una donna con piccoli occhi azzurri annota qualcosa su un foglio, e intanto mi parla. Si comporta come mia figlia, che quando ti parla vicino si copre la bocca con una mano, quasi imbarazzata; gli occhi della donna sprigionano una luce buona. Puoi leggerci dentro tutto in occhi come quelli. Mia figlia si chiama… mia figlia si chiama… Fisso le labbra in movimento della donna. Mi dico che se rispondo bene, potrò tornare a casa.
La mia casa è dove sono nata. A vederla ora, con i ricami di edera sul muro, direste che è una piccola dimora accogliente, l’ultima casa prima che il sentiero si infili nel bosco. Un tempo si innalzavano degli ontani accanto a quel sentiero. È buffo ma mi sembra di riassaporare la sensazione di allora, quando ci passeggiavo la sera. E perfino sotto la pioggia. Tornavo dal paese spingendo la bicicletta, reggendo il cesto della spesa, e vedevo spuntare la mia casa oltre la curva. Dove una volta sorgeva la stalla, adesso abbiamo la legnaia e il garage. I miei genitori erano contadini e ogni giorno percorrevano quel viale per andare nei campi. Oggi al paese nessuno fa il contadino. E pure gli ontani sono svaniti.
Seguendo i solchi delle mie giornate tutte uguali, mi ritrovo a pattugliare il corridoio. Non faccio che lanciare occhiate alle finestre. Piove. Lo dico al primo individuo che mi passa accanto. Non è di qui, l’ho notato subito – cosa credete? – , non indossa il pigiama e non è uno degli angeli custodi. L’albero che staziona fedelmente fuori dalla mia finestra ormai pare un uomo calvo. A volte il vento si scaglia con rabbia contro il vetro, come se volesse afferrarmi. Quando accorre uno dei miei angeli custodi per abbassare le serrande, lo sento dire: «Ha visto che vento lì fuori, Antonietta?».
Così, mi chiamo Antonietta. Che strano, fino a un istante fa non ricordavo il suono di questo nome: An-to-niet-ta. Ieri era primavera e oggi è già autunno. Attendo l’arrivo di mio marito. Non ho premura. So che prima o poi varcherà quella soglia con qualcosa in mano, un regalo, come il giorno in cui ho dato alla luce mia figlia. Avremmo potuto pensarci prima a mettere su famiglia. Ma tra il suo lavoro, e il mio come donna di servizio, gli anni sono volati. Ieri, per esempio, c’erano da lavare lenzuola, federe e rifare le stanze degli ospiti perché la mia signora, che mi chiama sempre Tonia, attende l’arrivo dei figli.
La mia signora mi conosce da quando ero ragazza. Per tale ragione mi chiama Tonia. Che, poi, è il nomignolo affibbiatomi da mio marito. Le cose che so sul prestare servizio in una grande casa, me le ha insegnate lei. Forse pensa che resterò qui fino all’ultimo dei miei giorni. È gentile la signora a non obbligarmi a indossare la divisa da cameriera. Anche perché non sono sul serio una cameriera. Di tanto in tanto, la mia signora si avvicina con aria desolata mentre preparo il pranzo e inizia a raccontarmi le sue giornate malandate. Dietro gli abiti di sartoria, le buone maniere e le parole sempre cortesi ma parsimoniose, si nascondono donne fragili come chiunque altra. Così la penso io. Quando erano piccoli, i suoi figli venivano a cercarmi spesso non avendo altra compagnia. Attraversavano il salone, si piantavano in cucina e con solennità attaccavano discorso: «Ma lo sai Tonia che…».
Un giorno mi sveglio, e fuori nevica.
Ho sentito mio marito trafficare in cucina con la caffettiera. Si è alzato prima di me, questo mese non lavora e probabilmente si metterà a spazzare la neve. Gli piace spalare la neve davanti casa. La mia piccola sta ancora dormendo. Scommetto che non impiegherà molto a raggiungerlo in cortile.
«Ha visto che sorpresa, Antonietta? È arrivata la neve!». La voce di uno degli angeli custodi mentre trascina un carrello. Gli restituisco uno sguardo tutto nero e gli ordino di far piano. «Schhh, che la bambina sta dormendo!», dico con la voce impastata. «È domenica, lasciala riposare ancora un po’. Se esci fuori indossa gli stivali, altrimenti sporchi tutta la casa». Quindi mi rimetto a dormire. Sono spossata in questi giorni. La mia signora mi ha trattenuta qualche ora in più a lavorare. Sono certa che l’ha fatto di proposito per non restare sola. Il figlio più giovane ha cominciato gli studi all’università e la casa si è arresa alla noia, ora che ci ha lasciati. Ma le cose da sbrigare non mancano. Un giorno glielo dovrò dire che forse non ha più bisogno di me come un tempo. Sono certa che capirà. Potrei dirglielo dopo Natale.
Mi trovo in corridoio, una notte, con la borsa in mano. Devo fare la spesa. «Dico io, non avete una borsa più piccola? Non mi occorre tanta roba. La minestra in barattolo… certo che l’ho ordinata al bottegaio! Dice di passare oggi che arriva di sicuro». Gli angeli custodi appaiono in un baleno. Si assicurano che faccia ritorno in camera. Ma io penso al barattolo della minestra. Sopra il pigiama ho infilato la camicetta e la gonna. Le ciabatte ai piedi non le ho tolte: la bottega non è mica così lontana. È proprio lì, nel palazzo di fronte.
Il mio albero ha rimesso le foglie. È l’ultimo giorno di lavoro dalla signora. Mi pizzicano gli occhi, però le guance restano asciutte. Attorno a me, adesso, soltanto immagini sbiadite. Mi sento come dovrebbe sentirsi una nuvola, leggera, e gli angeli custodi mi volteggiano intorno come uccellini. Una giovane ragazza in corridoio si ostina a fissarmi. La sento singhiozzare. Non provo nulla. Le nuvole non provano emozioni, sono soltanto nuvole e volano via in fila col vento. Così fanno: fiuuuu. Le voci, proiettate lontano dai corpi, si frappongono tra me e la mia signora. È un borbottio confuso che non afferro. Le voci arrivano tutte insieme e quasi mi urticano la pelle.
«Ciao mamma, come stai oggi?». La ragazza giovane che piange.
«Antonietta, capisce ciò che le ho appena detto?». La donna con i piccoli occhi azzurri.
«Sollevo il cuscino, così questa notte dormirà meglio, Antonietta». Uno degli angeli custodi.
Questo dicono le voci.
La mia signora si è appena lasciata la porta alle spalle, salutandomi come se domani ci vedremo ancora. Troverò un lavoro vicino casa, ho deciso. L’ho spiegato anche a lei, ma non sembrava felice per me. Non sono certa che l’albero là fuori sia uno degli ontani del mio viale; oggi, poi, mi sento anch’io un vecchio albero. Il mio corpo è svuotato e non mi riesce di riempirlo. I miei occhi sono aperti e sono chiusi. Vedo un paio di mani. Vedo un paio di piedi. Vedo due gambe bianchissime e prosciugate di ogni linfa. Vedo un mondo frastornato. Perfino gli angeli custodi, alla fine, sono volati via. Macchie biancastre creano un impasto con tutto il resto delle cose che si agitano da qualche parte oltre la finestra.
La voce che sento, è un sussulto improvviso giunto da lontano. La scambio per un’eco ma l’ho riconosciuta. Allora inizio a sbracciarmi, angosciata, cercando di acciuffare quella voce. Ho aspettato il ritorno di mio marito con un dolore forte qui al petto. Come mi presenterò a lui è il secondo pensiero che mi trafigge il cervello, non voglio farmi trovare in disordine con il grembiule indosso. Anche se la luce nella stanza è più scialba del solito, avverto l’odore familiare del soggiorno di casa. Un ronzio mi penetra nelle orecchie. Non proprio un ronzio. È la musica di un vecchio disco, uno di quelli che mi ha regalato mio marito. Resto esattamente dove sono e aspetto che lui mi dica: «Ciao amore, felice di vederti».
Se è un sogno, meglio che nessuno me lo strappi via.