Settima edizione 2013 • segnalato sezione inediti

Rinascere

Stefania Scartezzini

Stefania Scartezzini

Stefania Scartezzini nasce a Trento 23 anni fa. Scrive da quando ha ricordo (sua madre però dice dalle scuole medie). Studia comunicazione e lavora come speaker in una piccola radio regionale e come collaboratrice per due giornali locali. Le piacciono, oltre alla scrittura, l'arte, il cinema, l'uso della voce e la corsa, quest'ultima allo scopo, un giorno o l'altro, di fare la maratona di New York. Ha aspirazioni che variano in base al periodo, ma le più gettonate sono la giornalista in una rivista femminile e la sceneggiatrice.

IL RACCONTO

La cena in famiglia è il momento, l’occasione in effetti, in cui ogni componente racconta agli altri cosa ha fatto nel corso della giornata. Si commenta, si ride, si discute, si rafforzano i legami in questa procedura di estrema quotidianità.
Ma quando la famiglia è spezzata? Quando c’è un componente in meno rispetto a prima, la cena in famiglia diventa il momento in cui si è costretti ad entrare in contatto con chi condivide il dolore e la nostalgia. Non si ha più voglia di raccontarsi cosa si è fatto durante la giornata.
Quello che era lo scambio di racconti e opinioni, diventa una scambio di dolore attraverso i silenzi. Poche volte, soprattutto all’inizio, anche attraverso qualche lacrima, silenziosa anch’essa, ma ora sono le ultime ormai, non ce ne sono quasi più. La parola chiave, in queste circostanze, sono i silenzi. Sono ciò che conta di più, ciò che si percepisce di più e che fa più male. Silenziosamente.
Guardo sera dopo sera mio padre mangiare con gli occhi bassi fissi nel piatto che si svuota, e osservo il suo dolore, che invece di diminuire come sarebbe opportuno sembra trascinarlo sempre più a fondo. In linea teorica, per natura l’essere umano è fatto in modo da riuscire, sebbene con tempo e fatica, a superare questo genere di traumi, e a rifarsi una vita. Quindi, l’uomo è progettato per morire dentro e poi rinascere. Mio padre non rinasce però.
Ci sono state tante cene così. Noi due e il nostro dolore e nessun altro e nient’altro. Noi due nella nostra bolla di dolore. La famiglia spezzata.
Domani sera qualcun altro entrerà nella nostra bolla. Mio padre lo considererà un intruso. Per me è stata ed è tuttora la persona più partecipe del mio dolore. Sì, in un certo qual modo, si può dire che lo sia più di mio padre. Perché io non ho mai lasciato mio padre entrare nel mio dolore. Lui invece ne ha portato buona parte del peso in questi mesi. L’ha condiviso con me, e non era tenuto a farlo. Ha vissuto con me tutte le cosiddette fasi del lutto. Anche mio padre le ha vissute, com’è ovvio, ma separatamente da me. L’ha scelto lui, è lui che tacitamente mi ha fatto capire che voleva vivere questo momento in solitudine. Ho rispettato la sua scelta. Io però mi sono fatta aiutare.
Stavo per presentarlo ai miei. Loro sapevano della sua esistenza già da un po’. Sarebbe stato difficile il contrario dopotutto, vivevo praticamente da lui dall’inizio di quell’estate.
Ne avevo già parlato con lui. Lui mi aveva detto che quando me la fossi sentita, era già pronto ad entrare nella tana del leone. Aveva usato proprio quest’espressione. A lui piacciono le metafore, le usa sempre per fare gli esempi. La gente pensa che usare le metafore renda le cose più chiare. In verità a mio parere le rende più complesse, perché devi pensare ancora di più.
Mia madre è morta prima che io fossi pronta a presentarlo a entrambi. Questa è tra le cose che non le ho ancora perdonato. Tutte le cose che non le ho perdonato si riconducono in effetti al fatto di essere morta. Non gliel’ho ancora perdonato. Forse col tempo.
Ero a casa sua, con lui, quando ho ricevuto la chiamata. Ero sdraiata sul suo letto a una piazza e mezza su cui passavo la maggior parte delle mie giornate estive, ancora dagli esami della sessione di giugno, e poi luglio e tutto agosto, mangiando lì, studiando lì, chiamando lì i miei genitori per dir loro che sarei tornata domani. Un domani che si posticipava al giorno dopo e a quello dopo ancora.
Di casa sua, quell’estate, per me esisteva solo quello spazio di 120 per 190 centimetri. Mi alzavo per andare in bagno, per svaligiare la dispensa a metà pomeriggio, o per prendere lui per un braccio e trascinarlo lì con me. Il tutto con la leggerezza e la sonnolenza che solo una torrida giornata estiva, rispetto alla quale i prossimi esami sono ancora lontani, può dare.
Ero in dormiveglia, quando è arrivata la chiamata.
Avevo studiacchiato pigramente e ad intermittenza da dopo pranzo per alcune ore, e quando l’aria aveva cominciato a rinfrescarsi, verso le sei, avevo chiuso il libro ed avevo chiuso gli occhi.
I rumori andavano e venivano. La luce naturale, che non accennava ad affievolirsi nonostante l’ora tarda, mi bruciava leggermente gli occhi ogni volta che li aprivo piano, e quindi li richiudevo subito per tornare nell’oscurità. Il sottofondo al mio permanente riposo era il battere dei tasti del suo computer. Ultimamente lo era spesso. Mi stavo abituando alla cadenza regolare dei colpi, che ogni tot si interrompeva sostituita dallo sfogliare delle pagine di un libro, per poi riprendere più regolare di prima.
Stava scrivendo la tesi del quinto anno di giurisprudenza. Non mi sforzavo neanche a ricordare il titolo, lo trovavo un argomento noioso fino alla morte. Non lo ricordo tuttora. Il suo modo di affrontare la tesi era caratterizzato dall’impegno e la meticolosità che erano propri del suo carattere, e con i quali intraprendeva qualunque cosa, compresa la nostra relazione.
Stava scrivendo anche quel pomeriggio, in silenzio. Quando socchiudevo lentamente gli occhi, mi appariva sfuocata la sua schiena nuda e scura. Avevo visto la sua pelle abbronzarsi gradualmente dall’inizio dell’estate. Ad agosto rasentava il colore di un africano. E forse avrebbe potuto tranquillamente esserlo se non avesse avuto i capelli biondi e gli occhi verde chiaro.
Ogni tanto si girava a guardarmi. Percepivo il suo movimento dalla scricchiolio dello sgabello scuro senza schienale su cui sedeva sempre, preferendolo ad una sedia con schienale e pure cuscino. Non diceva niente, ma anche con gli occhi chiusi sapevo che stava sorridendo. Solo una volta si era girato e mi aveva trovata con gli occhi aperti. Stava sorridendo. Era stato alcuni secondi a contemplarmi, e io contemplavo lui, la sua bellezza e la dolcezza del suo sorriso. Poi si era girato di nuovo ed io avevo richiuso gli occhi per archiviare l’immagine nella memoria, nel settore “momenti più felici”. Ma è incredibile come la felicità di un momento possa essere distrutta nel momento successivo.
Non so dire esattamente quanto tempo dopo è arrivata la chiamata, perché il passare del tempo è confuso quando si è in dormiveglia. Il cellulare aveva iniziato a suonare, semplicemente. Lui aveva smesso di scrivere e lo sgabello aveva scricchiolato.
“Hai intenzione di rispondere?”, aveva chiesto, con voce neutra, ancora concentrato su quello che stava scrivendo. Io gli avevo risposto di rispondere lui. Lui si era alzato, aveva preso il cellulare che era sul davanzale della finestra accanto a chiavi e Ipod e me lo aveva passato dicendo che era mio padre. Io avevo aperto gli occhi solo per prenderlo, poi li avevo subito richiusi mentre biascicavo un ciao sonnecchiato. Avevo trovato una voce piangente dall’altra parte. Non avevo capito subito.
Avevo pianto su quel letto che aveva rappresentato tutta la mia felicità per un’estate, fino a notte fonda. Lui era stato lì fino a quando il dolore lancinante era scomparso per lasciare spazio al sonno. Quando mi ero risvegliata la prima volta di una lunga serie, lui non era lì. Ma quando avevo ricominciato a piangere, forte delle energie recuperate da un paio d’ore di sonno, era tornato accanto a me.
Avevo chiesto a mio padre se voleva che tornassi a casa. Lui mi aveva detto di rimanere lì, che era meglio che non mi muovessi e che passassi la notte dov’ero. Sapeva che ero con lui, e che lui era la persona migliore con cui potessi stare quella notte.
Posso solo immaginare come possa aver passato la notte mio padre, nella casa dove aveva vissuto con mia madre per vent’anni. O forse posso immaginarlo minimamente.
Ricordo bene come l’ho passata io, però. Ricordo che mentre piangevo tra le sue braccia gli chiedevo di far smettere il dolore. Lo imploravo, e la sua impotenza insieme alla mia sofferenza aveva fatto piangere anche lui, ad un certo punto. Avevamo pianto insieme per un po’, e richiamando quel momento alla memoria ora mi fa quasi impressione, perché è stata la prima volta in cui l’ho visto piangere, ed è stato per un dolore non suo. Aveva pianto per un mio dolore.
La notte, per un paio di mesi, avevo fatto la spola tra casa mia e casa sua, prima di tornare stabile a casa mia, quando avevo constatato che stavo un po’ meglio. Non ero andata a lezione all’università per un po’, ma Lettere non è una di quelle università per cui è necessario frequentare per riuscire a fare bene gli esami. Insomma, non è Medicina, o Ingegneria. Vanno bene anche solo i libri.
Lui si era laureato, a settembre, e al pranzo con parenti e amici, quando si era alzato per il brindisi, prima di parlare mi aveva guardato con gli occhi un po’ lucidi, e ci eravamo capiti subito. E avevo desiderato dolorosamente che mia madre avesse potuto conoscerlo, ma solo per un attimo.
Dopo aver finito di parlare aveva fatto il giro del tavolo ed era venuto accanto a me. Si era accovacciato tra la mia sedia e quella vicina, e mi aveva messo la testa sul petto. Io gli avevo messo la mano tra i capelli, mentre mezza tavolata si metteva ad applaudire ed urlare.
Quella è stata l’ultima volta in cui ho odiato mia madre per essere morta prima di conoscerlo. E comunque, c’é ancora mio padre.
Domani sera.